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Odio l’agosto

La città ronzava, fuori dalle persiane di plastica verde, incandescenti, e francamente non me ne fregava un cazzo.
E un cazzo avevo stretto tra le mani.
Lo svangavo pensando a lei.
Lo consumavo e ne sentivo pulsare sfinite le vene.
Pensavo alle volte in cui, l’inverno scorso, le umide labbra sottili, da falco, di Sandra vi si erano strette avide intorno.
Mi girava attorno, sempre, nelle aule e per i corridoi dell’Università, ma non la cagavo molto. Certo, ero io a slinguarci e pastrugnarla un po’, in sala studio, ero io che, dando una superficiale occhiata al codice di procedura- quel tanto che mi bastava per passare l’esame- le piazzavo la mano sul culo, ero io- ma solo perché tutto il giro la considerava ‘sta gran figa, e allora dovevo essere io ad averla. Ribadire le gerarchie: non fa mai male.
Ma era noiosa, saccente, dei bei voti, un po’ sfigata e non mi piaceva granché. Quei capelli rosso spento; la pelle bianco latte. Quella
strana bocca.
Due ottime tette e un bel culo, tondo e all’infuori. Non alta, ben fatta.
Faccia un po’ da cazzo.
Banale. Per ogni cosa di cui si parlasse, sapevi quale sarebbe stata la sua opinione. Per conto mio, sempre quella sbagliata. Quella scontata.
Potevo immaginare i suoi autori preferiti, i suoi gruppi del cuore, la città dei suoi sogni e il suo film di culto, l’attore e l’attrice e la vacanza ideale non perché fossi un genio io, ma perché erano fatte con lo stampino, da quelle parti, lassù, verso la Svizzera. Forte complesso di inferiorità, tanta voglia di stare alla pari con la grande città ma senza l’approccio giusto, e soprattutto, alla fine, il coraggio di osare.
Restavano le paesanotte. Perdevano quel sano, vigoroso e tutto sommato affascinante tocco di ruspante, la loro etica pseudo-calvinista, i loro principii piccoli piccoli…ma non riuscivano a capire bene che cosa andasse messo al loro posto. Ed erano perdute.
Le vedevi sforzarsi di cogliere quel qualcosa che ci rendeva diversi da loro, e poi far disperatamente finta di averlo capito, per essere come noi.
Oddio, potevano sempre piacere a tanti. Non a me.
Quando apriva bocca, cazzo…dovevi subito riempirgliela.
Ma erano poche ore al giorno, e fuori da lì non la vedevo mai…e allora me la tenevo buona. Avevo un’altra figa per le mani, allora. La trattavo male.
La facevo piangere. Sono sempre stato abile, in questo.
Le facevo sentire quanto le fossi superiore, e dove non lo ero, bastava barare, lo sanno tutti; e metterle di fronte agli occhi una immagine di me terribile, onnisciente, imprevedibile e da ingraziarsi ad ogni costo.
Eravamo a fianco al laboratorio d’informatica e le stringevo le tette tra le mani, carezzandole sotto il maglioncino, mulinandole la lingua in bocca un po’ scazzato; quando probabilmente lei pensò che, forse, un modo c’era, forse sì, e sarebbe stata veramente la mia ragazza un giorno non così lontano…mi prese per mano e scivolò nel cesso degli uomini…un cesso piuttosto intimo e pulito, a dir la verità.
Il ragionamento era tipico suo. Da bottegaia. Compiansi un attimo il povero ometto che se la sarebbe sposata e l’avrebbe adorata e si sarebbe subìto contento tutta la sua frustrazione a venire. Perché non avrebbe avuto mai l’uomo che voleva.
Si buttò in ginocchio e saltando i convenevoli serrò la bocca sul mio uccello.
Veramente una scena sporca, eccitante, e per lei umiliante e patetica. Non ci aveva visto nessuno. Forse ci avrebbero sentito. E dovevamo ancora uscire.
Lavorò davvero bene. Mi stupì, questa ragazza nel complesso insignificante, timida e timorosa della città e della vita…succhiava da vera professionista e, stupefatto, inerme, mi spremette una colata di sperma in poche battute.
Chiaro che non aveva perso tempo, al liceo, che si era data da fare: glielo avrei detto, più tardi, bella troia che sei, chissà se ti sono passati anche in culo. Le dicevo cose che non mi sarei mai permesso di dire a nessun’altra.
Le spinsi l’uccello in gola, perché, dimenticavo, si era bevuta tutto, chiusi gli occhi appoggiando la schiena alla parete e mi persi, per un istante, in un sogno sfumato di tranquillità; carezzandole, una volta tanto con dolcezza, i capelli stopposi. Lei rimase immobile e si tenette il cazzo picchiato laggiù, senza divincolarsi, passandolo per quanto possibile con la lingua e sentendolo finalmente ammorbidirsi contro il suo palato. Intanto mi carezzava le chiappe spingendomi dentro di lei.
Era precisa e diligente, come a scuola, ma sotto sentivi anche che ci metteva qualche cosa in più.
E mi scossi dal sogno, alla fine. Ripresi il controllo.
Mi irrigidii un attimo e mi trattenni: qui era il segreto. Qui le legavo a me per sempre- bhè, a quei tempi, “sempre” voleva dire almeno per un po’.
Mi trattenni dal girarla sul water e dallo sbatterglielo dentro. Mi trattenni dallo scoparmela lì all’impiedi. Dal parlarle. Dal guardarla. Da tutto. Non ci fu bisogno di trattenermi, dal baciarla, così com’era appiccicosa di sborra. Le sfilai il pene dalla bocca, le passai per un attimo la cappella sulle labbra, facendo cenno di ripulirla, tirai su i jeans, le presi la mano e la portai fuori di lì.
C’era tempo.
Uscimmo dal gabinetto e un tipo, uno del secondo anno, forse, si stava fumando una sigaretta. Ci guardò ben bene. Lei mi tirò la mano per andarsene. Ora si vergognava. Lo fissai un attimo solo, negli occhi, e andammo via.
Sorrisi o forse sogghignai, rientrando in labo, non dissi nulla e tutti s’inventarono qualcosa, ognuno di più, ognuno quello che voleva, creandosi le loro leggende, come sempre; come sempre ci guadagnai qualcosa, mentre lei aveva ormai la gente che la seguiva colla bava, quando andava in bagno sculettando, godendosi scampoli di ammirazione- scambiava per ammirazione quella ch’era pura e semplice foia- godendosi ancora l’adorazione dei ragazzi, che era sempre stata abituata a ricevere; prima di incontrarmi.
Più prosaicamente, prima era solo quella più figa, adesso era quella più figa e pure la più troia.
Ma era mia, ragazzi, sorry.
The girl is mine…the doggone girl is mine.
Tornava, e timidamente cercava di rendermi consapevole di quanto fossi fortunato ad averla. “Sai, in bagno ho il fan-club…”
“Si vede che fai la puttana un po’ troppo. ”
Leggevo Steinbeck e mi doveva lasciare stare.
Non le concedevo mai nulla. Poi, ogni tanto, mi bastava gettarle un piccolo gesto d’affetto e, vuoi per contrasto, impazziva di gioia e di piacere.
Ne versava, di lacrime. Le sarebbe bastato poco. Qualcuno che la portasse al cinema. A mangiare la pizza. Qualcuno che la passasse a prendere la domenica e facesse sembrare interessante quello che diceva. Ma non amava spendere, non impazziva per i locali, né per le band, per i party, per nulla, in realtà. In fondo, era una piccola ragazza che badava a piccole cose, come i voti, i soldi che spendi, l’ora a cui torni e eccetera.
Ma poi, pensarci bene, le sarebbe bastato anche meno: qualcuno che la scopasse, che la chiavasse in macchina dopo un inutile tappa in una inutile birreria della sua zona; giusto perché facesse abbastanza buio; qualcuno che la scopasse tutto il weekend quando non c’erano i suoi e qualcuno che la scopasse da qualsiasi parte, al lago in montagna al mare in Svizzera in Liguria sull’Adda sul Ticino in un motel, purché a sue spese.
Era di quelle ragazze che hanno solo il sesso, e rendono solo lì; per carità, non è una critica. C’è di peggio. Chiavare, lì era davvero se stessa: nessuna posa, nessun giudizio preso a prestito dai libri o sentito in TV; nessun complesso di inferiorità, nessun bisogno di recitare perché chiavare non le costava nulla ed era tutto quanto la appassionasse, lo faceva di gusto, di iniziativa, con spunto, senza tirarsi indietro ed anzi reclamandone sempre ancora, con l’avidità tipica della sua terra.
Chiavare, lì era davvero genuinamente brava e a suo agio.
E io, un mese e passa e ancora non la chiavavo.
Solo quell’unico pompino.
Era sconvolta. Di solito i ragazzi tendevano a fotterla subito e non rivederla più.
“Io ti amo ma…non ti sento…mi spiace” disse piangendo, tre giorni prima di Natale, “non ti sento…”
Sapeva essere tenera e sincera.
Non ti senti niente tra le gambe, ed è la verità. Non ti senti riempire, non ti senti sventrare, ed è la verità.
Io frequentavo una ragazza spagnola, e di tanto in tanto la mia ex, ed era okay. Non volevo farmi tot km in macchina solo per portar fuori lei e farmela, chiavarmela di noia. Meglio andare a puttane.
Con lei mi divertivo di più così.
Il 26 dicembre nevicava di brutto ma ero veramente a terra, dopo cene pranzi e tutto; gli amici non erano in giro e mi sembrava la Siberia.

“Passo a prenderti stasera”, le telefonai. Indirizzo e tutto, okay, affrontai la steppa innevata ed eccomi in quel fetido paese. Arcipelago gulag. Brividi di tristezza e malinconia appena attutiti dalla neve fresca e nuova.
Osservavo lo squallore di quei luoghi dal finestrino, e la compatii.
Ti credo, a crescere in un posto così…
Mi portò in un po’ di locali che erano tutti chiusi. Lo sapevo. Posto di merda. A mezzanotte mi ruppi i coglioni e feci quello che voleva fermando l’auto in un parco, fin dove potevo arrivare. Era tutto candido e trasformato. Scendemmo a passeggiare, ci inoltrammo in quel paesaggio incantato. Le tenevo la mano, ad un certo punto la spinsi contro un albero e la serrai da dietro col mio corpo, baciandola e mordendole il collo mentre cominciava a mugolare. Le misi una mano sotto il maglione e liberai le tette tese e impertinenti stringendo forte i capezzoli, che si raggrinzirono nel freddo pungente. Doveva gelare, ma non disse nulla. Lasciai le tette a ghiacciarsi e aprii i suoi pantaloni infilando tutta la mano nel solco caldo ed accogliente tra le natiche sode. Di quel culo non ci si poteva proprio lamentare. Lo strinsi con un po’ di violenza. Le massaggiai l’ano spingendo un poco e poi infilai di colpo, con forza, il medio e l’indice nella sua fregna.
Era bagnata ed era bollente, mentre le mie mani erano gelate, e rabbrividì. Aveva ormai mutande e pantaloni a metà coscia. Chissà che freddo. L’avevo sempre di spalle e continuava a girare la testa per offrirmi la bocca avida e la lingua impazzita. Ravanai nella figa con energia, rigirandovi le due dita ed allargandole dentro e stirandone il più possibile l’apertura. Teneva gli occhi chiusi e gemeva, mentre io mi godevo attento ogni sua espressione. Dagli alberi cadevano ogni tanto fini cascatelle di neve. La feci girare e la misi in ginocchio davanti a me. Affondò nella neve. Volevo un altro pompino, ma il freddo era davvero tanto. Liberò l’uccello ma le impedii di usare le mani gelide: accolse il cazzo eretto nella bocca e praticamente la scopai lì, tenendola per la testa e facendo sì che se lo tenesse il più possibile in gola, al caldo. Sentivo la sua saliva gelarmisi sull’asta all’istante, mentre usciva, e fondere di nuovo, come la verga si riapriva la strada nelle sue fauci ingorde. Amplificava le sensazioni.

“L’unica cosa che ti piace è l’uccello. ” dissi piano e senza enfasi.
Sapevo che le avrebbe fatto male: lei voleva a tutti costi amare l’arte, la poesia, i libri, il cinema e il teatro, voleva che tutti lo sapessero e capissero lei e le sue passioni; eppure, questo era in realtà tutto quello che lei capiva. L’arte no.
Sentii il cazzo fremere e gemetti piano per avvisarla che le sarei venuto in bocca di nuovo… per vedere se avrebbe cercato di evitarlo. No.
Mi ricevette ancora in gola. Feci allora in modo di gettare l’ultimo schizzo mentre già estraevo il pene, così da sporcarle un poco le labbra e le guance: ero curioso di vedere che effetto avrebbe fatto con quel freddo. Cercò le mie mani, la aiutai ad alzarsi e tornammo in macchina. Stava ancora rabbrividendo, aveva i piedi bagnati e i pantaloni pure… di neve sciolta, non di figa. Con quella aveva bagnato solo le mutande. Annusai le mie mani ed il suo gusto forte mentre, riscaldamento a palla, lei si spogliava con naturalezza.
Misi su i Cure.
La osservai bene mentre si toglieva la sborra solida dalla faccia con un fazzoletto, e lei teneva gli occhi bassi.
Era ora in maglione e mutande, a piedi nudi. Poco lontano dei ragazzetti facevano a palle di neve. Le tolsi il maglione.
“Ti piacciono i Cure? ”
“Sì molto…conosco Boys don’t cry…”
Ah sì? … probabilmente l’avranno usata per una pubblicità.
Le sue mutande erano carine e il pelo chiaro spuntava lateralmente. Il seno era candido e davvero maestoso, durissimo. “Togli il reggiseno. ”
Avrebbe preferito se glielo avessi tolto io, con dolcezza, in silenzio. Ma volevo osservarla inarcare le scapole e spingere il seno ancor più in fuori, mentre le mani si univano dietro la schiena a slacciarlo, vederlo cadere e ammirare il miracolo di quel marmo bianco che rimaneva sospeso, puntando all’insù, sfidando la gravità, col rosa appena accennato dei capezzoli…su cui mi avventai. Reagiva da ninfomane. Era sensibilissima al sesso e godette di brutto a farsi leccare le tette…cercava di spingermele in bocca il più possibile, a fondo, strizzandomele dentro, ora una poi l’altra assecondando la sua foia…la lasciai fare e mi divertii molto, sentendola godere rumorosamente manco la stessi sventrando da mezz’ora…riuscì a venire solo con le tette e poche carezze sullo spacco, casuali. Mi stupiva sempre di più.
Avevo il cazzo di nuovo duro nei pantaloni. Scesi e presi possesso del sedile posteriore- la macchina era bella spaziosa- e mi liberai di pantaloni e boxer rimanendo a gambe larghe, seduto, col cazzo a puntar per aria. Era una posa davvero volgare e poco carina. Non dissi nulla. Per raggiungermi avrebbe dovuto scendere- ma era in mutande- o cercare di sgusciare tra i due sedili anteriori, quattro zampe. La vidi esitare. Io non le parlavo. Cominciò goffamente a scavalcare i sedili con le tette che ondeggiavano appena un po’, all’ingiù. Mi eccitai un casino a vederla così. E me la ritrovai praticamente col culo in faccia mentre rotolava dietro. Risi ancora. Cercò di raddrizzarsi ma la tenni così, col culo in su, in braccio a me, e la testa appoggiata di lato sul sedile. Le abbassai le mutande e osservai da vicino la pelle curata della fica, che mi si apriva come un fiore umido a pochi cm dagli occhi- era bianca e rossa con ciuffi di pelo solo nella parte superiore, non ci avrebbero disturbato. Le labbra non erano troppo spanate e formavano poche pieghe eleganti. Si vedeva un po’ di carminio all’interno. La pelle intorno al buco del culo era fortunatamente altrettanto delicata, bianca, appena un po’ più scura intorno alla stellina minuscola e perfetta e pieghettata. Mi girai un po’ di lato, la tenni per le chiappe e passai una lunghissima e lentissima leccata dal clitoride, passando in mezzo alle labbra e inondando di saliva la fica, su fino al buco del culo, sfiorandolo con la lingua- di modo che sentisse il debito e l’obbligazione del gesto- e facendo colare un po’ di saliva intorno al foro, per vederla scivolare e raccogliersi nella leggera depressione, nella valletta che lo circonda. E spinsi un po’ col dito sentendo cedere impercettibilmente l’anello muscolare, facendo penetrare un po’ di liquido. Mi fermai alcuni secondi e la osservai contrarre l’ano due volte. Non si muoveva, non fiatava e
aspettava. Ripetei l’operazione col culo, affondando mezza falange del medio. Si irrigidì ma trattenni il dito; e poi spinsi tutta la falange, fermandomi vari secondi perché si abituasse. Era tesa. Ritirai il dito piano e la vidi contrarre l’ano più volte. Lo leccai. Poi mi dedicai con impegno alla vagina, divaricandola, tormentandola con la lingua instancabile, assaltando il clitoride indurito o insinuandone la punta a esplorare l’interno, straziando le piccole labbra; lei si sciolse e tornò a partecipare con entusiasmo, la sentivo gemere soffocata e grugnire col volto schiacciato sul sedile, spingendomi culo e fica in faccia, inarcando la schiena e ondeggiando il bacino per avere più lingua dentro possibile…avevo il volto completamente fradicio e cominciai con le dita, due, poi tre, poi quattro perché era dilatatissima e stillante. La penetrai di forza con le quattro dita pompandola a mò di cazzo, velocissimo e con violenza. Venne di nuovo, gridando e artigliando il sedile, e fece per girarsi ma la trattenni di forza continuando a leccarle la fica già più chiusa…una cosa che amo è penetrare all’improvviso una donna da dietro, appena un istante dopo averla fatta venire con la lingua…la schiacciai così sul sedile, le gambe ripiegate sotto di sé, le montai sopra con le mani sulle reni e ficcai dentro con un affondo il mio uccello, cominciando a montarla forte.
Diede un sonoro lamento. Era sconvolta. Cominciò a strusciare la testa sul sedile e a sbatterla e agitarla e a ansare e miagolare forte.
Ero imbarazzato…dopotutto c’erano sempre quei ragazzi…i vetri erano completamente appannati e non volevo brutte sorprese. Le premevo addosso con tutto il mio peso, schiacciandola, e divaricavo le chiappe per vedere il cazzo romperla e per affondare il più possibile. Sentendomi vicino all’orgasmo rallentai poi i colpi, alternando affondi poderosi a lente pompate o estraendo il cazzo lasciando dentro solo la cappella e rigirandola, brandendolo con la mano, o tirandolo fuori del tutto per passarglielo su tutta la vulva e sul clitoride, titillandolo, per poi rientrare all’improvviso e di colpo, tutto, cosicché la sua fica, tenuta all’insù, facesse il tipico rumore imbarazzante ed osceno di quando è riempita di colpo e a quel modo. Nel frattempo sputai di nuovo tra le natiche, un paio di volte, e la saliva si raccolse come prima proprio sul buco del culo. Mentre l’accarezzavo col cazzo, afferrai le chiappe con entrambe le mani in modo che i pollici andassero a trovarsi proprio sopra l’ano, e con il destro cominciai a premere sul buco, forte, non per penetrare, solo premendo tutta l’area e facendoglielo sentire bene. Continuai a lubrificarla di saliva e passai per un attimo la cappella sul culo, spingendo allo stesso modo. Poi tornai nella figa a pompare forte e ritmico, e la sentii salire verso un altro orgasmo… a questo punto era davvero presa e venne il momento di leccarsi bene il medio e infilarlo, non troppo bruscamente ma con mossa piuttosto fluida, dentro il culo, a palmo in su, in modo da poterla penetrare ad uncino. La vidi trasalire ma eravamo in piena scopata e comunque stava godendo. Pensai che forse
in culo non l’aveva mai preso. Sperai di trattenermi ancora, volevo fare le cose per bene…la macchina ondeggiava impazzita e lei gridava e allora, tutto il dito dentro, cominciai a stantuffarglielo in culo, allargandolo bene e lubrificandolo…la sentii venire…. estrassi allora il cazzo, la schiacciai giù per bene e feci quello che ormai, suppongo, sapeva avrei fatto…e non fece niente per tirarsi indietro…tirai fuori il dito e con piacere lo trovai pulito… e l’uccello lo misi in culo piano e con dolcezza, accarezzandole le gambe e le natiche e la schiena, stringendole la nuca e bloccandola, calmandola come si calma una bella cavalla, sussurrando “shhh.. “…era in silenzio ora, affannata dall’orgasmo, ma gemette piano di dolore appena entrai e ancora un paio di volte, e più forte poi quando fui dentro fino in fondo. Vidi il suo volto di profilo, sudato, arrossato, sul sedile, contrarsi in una smorfia di dolore che mi dette brividi di piacere e soddisfazione. La inculai sommessamente, prima lentamente poi con più ritmo; era bello vedere l’asta del cazzo entrare ed uscire dal buco di culo di Sandra, sentirne la sensazione così differente da quella della passera…il mio pene era stretto da pareti che mai ne avevano conosciuto uno. Non ritenni necessario- né probabilmente possibile- protrarre il tutto oltre e scaricai, questa volta -cosa per me del tutto insolita-gridando di godimento forse mai provato, tutta la mia sborra dentro i suoi intestini, avanti e indietro finché l’ultima scintilla di quell’orgasmo fantastico si spense nella mia testa, e finché il pene non divenne troppo floscio per riuscire a rientrare nell’orifizio. Allora mi sedetti sfinito a fianco a Sandra, che stava ancora di culo, immobile, mezza a pecora. Cosa aspettava ora? Le volli bene e afferrai di nuovo i suoi fianchi per affondare il volto nella sua figa…di gratitudine… ma la sentii dilatarsi e premere su me di nuovo, già famelica di un altro servizietto…non mi andava proprio, me la cavai con un romantico bacio sul clitoride e uno, umile e grato, per una volta, sul culo violato e imperlato di umori.
Poi la feci sedere accanto a me. Occhi bassi, non esternò né eventuale contrarietà per l’accaduto, né delusione per l’ultima mancata leccata di fica. Sembrava contenta. Le accarezzai la guancia. Mi rivestii e passai al posto di guida. La vidi armeggiare per scavalcare di nuovo.
“No, da lì non riesci, passa da fuori…” dissi.
Mi guardò e schiuse le labbra sottili… “Ma…così? ”
“Sì, dai tirati su le mutande e fai una corsa, che è tardi! “. Sapevo essere proprio una merda. Mentre spannavo i vetri, soffocando il sorriso, la vidi correre fuori nuda nella notte gelata e ficcarsi di nuovo dentro, al caldo. La baciai appassionatamente, a lungo, e seppi che così era tutto perdonato.
Si rivestì mentre la portavo a casa. Passammo accanto ai ragazzini con le palle di neve e ce ne tirarono dietro un paio. Chissà se erano stati a guardarci, da lontano comunque. Chissà se l’avevano vista, uscire nuda dall’auto? Sì o no, lei sicuramente lo sapeva. Sperai almeno che l’avessero vista in volto, dal finestrino, così da sapere che per quanto figa, la tipa era una che la dava via di brutto… e in paese le voci girano.
Non l’avevo più sentita da allora. Ero sparito dall’Università e me n’ero andato in Spagna alcuni mesi. Ma è un’altra storia. Storia che era ora bell’e sepolta.
Adesso l’agosto era deprimente e la città vuota e mi sentivo davvero giù.
Tirai su la cornetta e feci il numero.
“Ciao Sandra…dove sei? ”
Non aveva abbastanza personalità per mostrarsi stupita.
“Sono appena tornata dalla montagna…tu? ”
O incazzata.
“A casa. Ci possiamo vedere se vuoi. ”
In agosto era sempre a casa sola. Poche amiche. Pochi ragazzi in giro.
Sapevo che avrebbe voluto ancora. FINE

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