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Roberta era bella e sensuale

Era bella e sensuale. Da farti venire i crampi allo stomaco. Un caso o uno ghiribizzo del destino? So che il verde dei suoi occhi, per nulla innocenti, scavarono spudoratamente i miei e, mentre le stringevo la mano, presentandomi, mi sentii tumultuare nelle vene il sangue. Sedici anni. Aveva sedici anni. In verità erano diciotto gli anni. Ma, questo lo appresi molto dopo. Le fattezze, il viso decisamente adolescenziale, con quel tocco di innocenza e malizia che è tipico di quell’età, non mi avrebbero mai fatto pensare ad una diciottenne. Ma, in quanto tale, dentro di lei furoreggiava la libidine di diciotto menadi sbatacchiate dalla lussuria.

L’avevo conosciuta per caso. Quel pomeriggio, come alcuni altri, ero dannatamente solo e disperato. Avevo perso una causa importante e la donna a cui avevo affidato la mia vita e i miei soldi. Se non fossi stato astemio, sicuramente quelle serate di obnubilamento totale le avrei passate in un bar a tracannare bicchieri di alcool. Ma i liquori mi disgustavano e poi soffrivo di ulcera. Si dice che gli avvocati hanno delle belle segretarie su cui riversare la propria solitudine. La mia segretaria era bella sì, ma, da carogna, innamorata del marito. Scapolo ed amico avevo solo Giovanni, un agente generale di una società di assicurazioni sulla vita. Guadagnava una barca di soldi e cambiava donne più assiduamente delle sue cravatte. Che cazzo hanno in comune, direte, un assicuratore e un avvocato, per giunta penalista. Fino a quel momento nulla. Nessun cliente aveva accoppato il proprio patner per cuccarsi il premio morte e a me era toccato il compito di difenderlo dall’accusa di omicidio. E nemmeno una vita dissoluta, la notte, accompagnandoci con donne maliarde. Era da due anni che facevo una vita pervicacemente matrimoniale con Giulia, quella lurida figlia di puttana, che mi aveva piantato per un atleta da strapazzo. Analfabeta, ma ricco di muscoli e di soldi. Lei era stata attirata solo dai muscoli; anzi dal muscolo meno impegnato in palestra, ma più appetito in esercizi ginnici carnali.

Non ci crederete, ma con il mio amico avevamo in comune l’amore per l’arte. Sì, la pittura, la scultura e così via. Certo lui mi decantava anche le sue avventure, che erano anch’esse però una forma d’arte. Amante del bello, lui non riusciva a trattenersi dall’ubriacarsi del bello più seducente del creato: le donne. Si pasceva della loro bellezza, come un neonato del latte materno. Solo che per il neonato giunge il momento dello svezzamento: per lui era ancora lontano, molto lontano.

Era da parecchie serate che mi trascinava fuori di casa, cercandomi di coinvolgermi nel suo giro di amicizie femminili. Non c’era stato nulla da fare. Era come se le donne si fossero tutte attorcigliate i capelli coi serpenti di Medusa: mi terrorizzavano. Il guaio era che facevo andare in bianco pure lui. E per lui andare in bianco era come stare a digiuno. E digiunare più di un giorno diventava insopportabile.

“Senti”, mi disse. “Così non può più andare. Se io non scopo, esplodo. Non ti posso fare da balia. Sei peggio d’uno zombie. Ormai quella è andata. Ma, cazzo, lei, la notte, e non solo la notte, se la spassa, e tu come un coglione ti crogioli nel dolore. Ma mandala a fanculo. Guarda: stasera ti porto da una mia amica. A me interessa la sorella. Ma, per ora da lei sta una cugina. è romana: un pezzo di fica da fare arrapare pure un eremita in odore di santità. Va pazza per la pittura rinascimentale, ma anche per l’ornitologia maschile, certo non impagliata. Abbiamo cinquant’anni, ma sappiamo spingardare meglio dei ventenni”.

Fu così che quella sera ci trovammo in casa della sua amica, una ginecologa, sposata con un medico dentista. E con una figlia di sedici anni, così credevamo io e il mio amico (e per questo, ma non solo per questo, il mio amico mi rampognò più tardi più del dovuto) : Roberta.

Il mio sguardo cadde subito su di lei. Capelli castani fluenti fino alle spalle, volto grande, dalle mascelle larghe, orbite immense in cui ruotavano stelle di giada. Vestiva un jeans, scarpe basse e una maglietta bianca, sottile, quasi trasparente, sospinta in modo prepotente da un seno alto, superbo, pieno. I miei occhi si appuntarono, calamitati, su di esso. C’era qualcosa di lezioso, ostentato, conturbante ed osceno. Sì, osceno, come un frutto esposto spudoratamente per essere afferrato e divorato con ingordigia. Aveva le fattezze della madre, ma somigliava al padre, al dentista. Era un frutto acerbo e succulento insieme, che irraggiava perversione, esasperazione sensuale, malizia segreta.

La madre era una bella donna. E il seno di Roberta certamente era esemplato geneticamente su quello materno, ma non aveva nemmeno lontanamente la sua carica erotica.

Il mio amico mi presentò, ci accomodammo nel salone, colmo di arazzi, tappeti e librerie, illuminato di luci soffuse, calde, intime. Si parlò del più e del meno fino a che il nostro discorso si incentrò sull’arte. Era chiaro come il sole l’interesse del mio amico per Vanessa, la sorella della padrona di casa, come era altrettanto evidente quello per me da parte di Valentina, la cugina della ginecologa, Anna. Era davvero un bel pezzo di fica. E non era in cerca di avventure, ma di un matrimonio. Aveva raggiunto i suoi trentasei anni e desiderava dare stabilità sentimentale alla sua vita. Alta, slanciata, flessuosa come un giunco, un bell’ovale, sorriso accattivante, di ragazzina, con i denti piccoli color perla, gli occhi piccoli, ma mobili, castani, come i suoi capelli, cotonati e fluenti. Il seno armonioso, fasciato da una blusa nera che si divideva in due drappi che si incrociavano sopra lo sterno e lasciavano uno scollo ampio da cui emergevano le plastiche rotondità del petto. Sì, era davvero una bella donna, colta, intelligente, versatile e per nulla noiosa. Si stava parlando di Botticelli, quando, nel discorso di noi adulti, si inserisce Roberta. Era rimasta sino ad allora in silenzio, morbidamente acquattata a ridosso del bracciolo del divano con le gambe ripiegate, accovacciate, su di esso e ascoltava girando gli occhi ora di qua ora di là, ma essenzialmente indirizzandoli a me, come una gatta.

“Non credo proprio che siano sinonimo di femminilità, le donne di Botticelli. Una donna sicuramente non si riconoscerebbe in quelle donne, né, credo, le donne di allora. L’armonia delle forme non le femminilizza, le disincarna, le rende eteree, spirituali. è l’eros di Platone. Forse pure Savonarola le avrebbe condivise. Non c’è un inno al godimento dell’attimo che passa, come nelle poesie del Poliziano o di Lorenzo il Magnifico, ma del bello come ideale che fa tutt’uno col buono e col vero. No, davvero: lì la donna muore, si disincarna per diventare spirito, un angelo del paradiso”. “Non credo che la ‘Primaverà, per es. , incarni un dogma neoplatonico. L’abbraccio che Zefiro fa ad una delle Grazie non mi sembra innocente, è decisamente carnale. E poi, non bisogna dimenticare il contesto sociale in cui il quadro nasce. C’è una grave crisi economica e politica e si tenta di sfuggire al presente rifugiandosi in un passato lontano, senza brutture e violenze”.

“Ma questo non c’entra. Ci si può rifugiare nel passato senza dimenticare la sessualità e la sensualità della fisicità di un corpo: pensi al “Trionfo di Pan” del Signorelli. Anche lì il quadro annaspa nel mito, ma la ninfa, che il ragazzo divora con gli occhi, non è evanescente, eterea, e il desiderio che si coglie nell’atteggiamento del ragazzo non è per nulla casto. Ma, lasciamo perdere il fine Quattrocento e veniamo a tempi più vicini. Ha presente i quadri di Courbet – decisamente il suo discorso era indirizzato a me e a me solo? – Certo che sì. Indubbiamente lì esplode la sensualità, la carnalità del pittore, ma quel che conta è la donna come osserva se stessa e come ostenta la propria femminilità. Nella “Donna con l’onda”, la ragazza alza e incrocia le braccia perché compiaciuta del suo seno, bello, altero e provocante. Non è il pittore che la vede così: è lei che vuol essere vista così. Quella è la donna che mi piace nell’arte, non la sua mitizzazione, la sua spiritualizzazione, la donna angelo. Non ci ho mai creduto. La donna ha avuto, ha ed avrà gli stessi desideri erotici – ha detto proprio “erotici” – dell’uomo e guarda il suo corpo proprio in questa funzione. Anche una donna brutta vuole che il suo corpo esprima erotismo per piacere ad un uomo ed essere soddisfatta come donna. Prenda il poster di Jinks, “Passione”: guardi come la ragazza gode d’essere presa, abbracciata da dietro. Lui la bacia sul collo e lei rabbrividisce, così come vibra il suo seno, che serra, solcata dal piacere, con la mano”. Ero affascinato non solo e non tanto per la conoscenza mostrata, e molto personale, dell’arte figurativa, ma dagli atteggiamenti del suo corpo o, più precisamente, dal suo seno, mentre parlava con calore. Lei parlava, sì, delle donne delle pitture, ma parlava di se stessa. Io guardavo abbacinato, ipnotizzato, i capezzoli inturgidirsi e rilassarsi come il pulsare del cuore di un feto alla quarta settimana. Non era la sua voce rauca e sensuale a descrivere i quadri, ma il suo corpo, i suoi seni. Volevo distogliere lo sguardo dal suo petto, ma non riuscivo. Se fossimo stati in un’isola deserta, mi sarei scaraventato su di lei e avrei assassinato con le mani e con i denti quei succosi melograni di carne. E, nello stesso tempo, mi si stagliava netta davanti agli occhi della mente l'”Origine del mondo” di Courbet, ma la fica di Roberta doveva essere meno selvatica: le sue labbra sicuramente emergevano levigate come le sponde assolate del Nilo e si inondavano di un succo più copioso del latte dell’albero della gomma. Lei mi parlava, accalorata, di pittura, ma il suo corpo spasimava lingue diverse. Parlava, ma la mano destra, forse meccanicamente, scivolava sul pube e io vedevo distintamente le sue dita affondare per alcuni istanti sulla stoffa, agitandoli lievemente come un’onda leggera. Non ricordo più i miei commenti artistici. So solo che conclusi tra il formale e il sottinteso:

“Sono letteralmente incantato. Poi dicono che le scuole non funzionano. Un’insegnante formidabile, la sua. Starei ad ascoltarla per ore, se… fossimo soli”. E indugiai con una malcelata malizia sulle ultime parole. Che cazzo stavo farfugliando? Capii in ritardo che avevo detto una cazzata; il fatto è che aveva parlato il mio inconscio, non il galateo.

“Piacerebbe pure a me”, rispose semplicemente lei.

“Sono rare le persone che si interessano del bello… ” e lasciò sospesa la frase, che mi arroventò le viscere. Avevo capito bene? Lei, sedici anni, voleva scopare con me? Non era, certo, per mancanza di ragazzi, che avrebbero sputato l’anima sulla sua fica. Ma ragazzi più o meno suoi coetanei avrebbero saputo figurarsi inferni di sogno solo ascoltando la sua voce?

“E non mi dia del ‘leì. Mi chiami Roberta. Mi piacerebbe farle vedere alcuni miei dipinti. Lo ammetto sono narcisista e vanitosa, ma solo con alcune persone, mi creda, da contare sulle dita di una sola mano. Lo chieda a mia madre”. Già, sua madre. Ma chi aveva visto più nulla. Era sparito tutto, tranne un pezzo di divano, il suo corpo e me, come sospesi in un vuoto assoluto, che non lasciava passare alcun rumore, tranne la sua voce e la mia. Mi scossi da quel rapimento ipnotico e come per incanto le voci degli astanti mi ferirono gli orecchi. Davvero: mi procuravano fastidio, dolore. Dal paradiso ero sceso sulla grigia terra e tutto mi sembrava squallido e banale. Accennavo con la testa come per segnalare che stavo seguendo i loro discorsi, ogni tanto monosillabavo

“certo”, “vero”, “giusto”, ma ero lontano anni luce da ogni loro parola. Non riuscivo a parlare: era come se tutto il mio vocabolario di termini e pensieri se lo fosse risucchiato quello scrigno di lussuria senza confini. Adocchiavo di tanto in tanto Roberta e i suoi occhi di giada non si scollavano dal mio sguardo e… dal mio sesso. Sicuramente ero impazzito. In quegli occhi furoreggiava un’implorazione di fuoco: scopami. Era la mia coscienza alterata. Erano gli ancestrali rigurgiti dell’ipotalamo e del sistema limbico che avevano letteralmente oscurato ogni richiamo della corteccia cerebrale. Ero, insomma, allo stato primitivo, non più un essere razionale. C’era il richiamo d’una femmina a cui naturalmente rispondeva il consenso del maschio. Ma era davvero così? O, come stavo dicendo, ero io che volevo vedere cose che in effetti non c’erano.

“Posso passare quando vuole, vuoi”, mi sorpresi a rispondere.

“Domani sono libera. Lei è libero di mattina? “. Mi sarei reso libero anche se avessi dovuto sostenere lo scritto di magistrato. Risposi soltanto:

“Di mattina, ma a che ora? “.

“Alle dieci le va bene? “.

“Non ci sono problemi: alle dieci ti sarò accanto a visionare i tuoi quadri. Se sono dipinti con la stessa bravura e passione con cui descrivi le opere altrui saranno sicuramente dei capolavori… almeno potenziali”. Aggiunsi le ultime parole, per non sembrare troppo sperticato nel tessere elogi e passare per uno che la prendeva per il culo. Cazzo, se l’avrei presa per il culo, ma non in modo metaforico.

“Dobbiamo chiedere ai tuoi genitori”. E lei, come se fosse la cosa più naturale di questo mondo, “informò” i suoi genitori che il giorno dopo, di mattina, mi aveva chiesto di guardare i suoi quadri, i quali genitori si preoccuparono solo di chiedermi se la visita alla loro figliola non intaccasse i miei impegni. Risposi che non c’era problema e che mi avrebbe davvero fatto piacere vedere i dipinti di Roberta. La serata era finita. Valentina mi fece capire con una stretta più prolungata della mano che le sarebbe piaciuto rivedermi, magari per visitare qualche museo, o per una serata a teatro o ad ascoltare un concerto.

“A disposizione, quando vorrà”.

“Mi farò sentire, ci può scommettere”, e la sua mano continuava ad indugiare nella mia. Non vedevo l’ora di andare via, di lasciare pure il mio amico e tornarmene a casa, sdraiarmi sul letto e sprofondarmi nel pensiero e nelle sensazioni di lei, dell’immagine di Roberta, delle sue parole, delle movenze del suo corpo, della visione di quei capezzoli che si gonfiavano impudicamente ad irretire i miei occhi.

Uscimmo, l’aria era frizzante sulle mie guance che scottavano. La mente mulinava un coacervo di pensieri e di immagini senza riuscire a fermarsi su qualcuna in particolare. Giovanni commentava la serata, ma non riuscivo a seguirlo, per quanto mi sforzassi. Mi parlava della sorella, della ginecologa, mi parlava di Valentina ed io mugugnavo. Ma, era troppo furbo e navigato per non capire che cosa mi mugghiava in testa.

“Fabrizio, lascia perdere: quella è una bomba al plutonio, soprattutto per te che sei un avvocato. Pensa a Valentina. Visto quanto era interessata a te? Che doveva fare: saltarti subito addosso? è una femmina di fuoco e una donna intelligente. Per te, a cui non piacciono le avventure, quella è la donna. E con lei lo stesso vai in paradiso, ma per la strada più giusta. Roberta, capisci, Roberta muore dalla voglia di fottere, ma non devi farti fottere tu; perché quella ti fotte, e come se ti fotte. E, poi, ammettiamo che si innamorasse realmente di te, eh. Come te la scrolleresti più di dosso. Tu non sai di cosa è capace una ragazzina. Sì, una ragazzina, anche se è un gran pezzo di sticchio, che pure a un paralitico glielo farebbe rizzare. Una ragazzina che non si accontenterebbe di fottere, ma vorrebbe sempre di più, di più. Appiccicarsi a te come una masticante. Sposarti. Eh, l’immagini, il tranquillo, pacioso, distinto avvocato Giorgianni, avvocato di grido, senza macchia e senza paura, cinquantenne avanzato e con composta pancetta, che va a chiedere al dentista De Nicola la mano di sua figlia Roberta. Non siamo in Kenia o in Arabia Saudita. Qui, siamo in Italia, anzi, peggio, in Sicilia. Non finirà sicuramente a lupara, ma in tribunale sicuro”. E, io, come fosse la meraviglia più normale di questo mondo, mi trovo a rispondere:

“E perché, se la ragazza fosse d’accordo, i genitori mi dovrebbero respingere? “. “Perché potresti essere suo padre. E un padre non cede la figlia a un altro padre, soprattutto a quell’età. è come se inconsciamente si dicesse: “Io che sono suo padre non me la posso fottere e quello che ha almeno dieci anni più di me sì”. Si farebbe ammazzare, ma il consenso non te lo dà. E, se la figlia scappa con te, ti denuncia. Ma che le vado a dire queste cose a te che sei del mestiere! Vuoi farti una sedicenne con tranquillità: vattene in Tailandia, in Birmania. Qui ti ringraziano pure. Ma lascia perdere Roberta”. Rimanemmo in silenzio per un tempo che sembrò infinito. Non ne avrei parlato, se il mio atteggiamento, almeno per il mio amico, non fosse stato così scoperto. Ma, ora che lui aveva capito, potevo tentare di fargli comprendere che, se quella ragazza si fosse veramente innamorata di me, perché non l’avrei potuta sposare. E, se avesse voluto solo scopare per qualche tempo con me, senza che nessuno venisse a saperlo, perché mi doveva essere proibito, se lei era del tutto consenziente?

“Perché”, sbottai di colpo in quel silenzio totale e infreddolito,

“perché se lei vuole fare l’amore con me, lo vuole fare con tutta se stessa, perché mi dovrei sottrarre? E, addirittura, se avessi la fortuna, sì la fortuna, che si innamorasse di me, perché dovrei immolare la più raggiante delle felicità sull’altare di un pregiudizio? Io la venererei come una dea. Chi potrebbe amarla più di me? Un ragazzo? Non può, proprio perché è giovane; non può afferrare l’essenza della gioventù di un adolescente, perché lui già la possiede in quanto più o meno giovane come lei. Tant’è che si prendono e si lasciano come fazzolettini di carta i giovani a quell’età. E, poi, vedi la cultura, la maturità che ha? Te la ritrovi a parlare con un mezzo analfabeta qual è un giovane di vent’anni oggi? “.

“Mah! “, sospirò il mio amico. “Io so una cosa: se tu, domani, varcherai la soglia di quella casa, finirete a letto e poi… che Dio ti aiuti, amico mio. L’amore è qualcosa più del sesso e della libidine. Quella ti ha incendiato i sensi e attizzato il senso del proibito. Io non credo che si tratti di amore a prima vista. Sarò cinico: non ne sei innamorato. Tu la vuoi perché ti fa immaginare piaceri inattingibili con donne mature. è il tuo cazzo che la concupisce, non la tua ragione. Non vorrei, per il bene che ti voglio e la stima che ti porto, che un’ubriacatura per un pelo di una ragazzina finisca in tragedia. Sappi, comunque, che sarò sempre dalla tua parte”. Non avevo più voglia di discutere. Roberta mi aveva intossicato il corpo e l’anima e nemmeno il diavolo in persona mi avrebbe potuto distogliere di andare a trovarla. Eravamo arrivati davanti casa mia. Ci salutammo e lui si allontanò piano, piano, senza girarsi. Eppure, mentre la notte lo inghiottiva, era come se qualcosa dentro di me sprofondava con lui in quella notte, senza speranza di ritorno. E, per un momento, per un momento impercettibile, mi sentii morire, travolto da uno scoramento, una tristezza senza confini. Coricatomi alcuni minuti dopo, abbandonai il mio pensiero a ingolfarsi di lei, fino a stremarsi e abbandonarsi al sonno.

Alle dieci in punto ero dietro la sua porta. Suonai e la porta si aprì immediatamente, come se le fosse stata dietro. Indossava un miniabito di maglia mélange color rosso vivo con collo alto, che copriva appena le mutandine. Le gambe che prorompevano erano bellissime. Perfettamente affusolate, diritte, luminose. La facevano sembrare più alta del suo metro e sessantacinque. I piedi da Cenerentola erano incorniciati dal morbido velluto delle scarpe tipo ballerina. Lei tutta trasudava voluttà. Per quanto ampia, la parte superiore del vestito non riusciva a velare la prepotenza turgida del seno. Sicuramente senza sostegno alcuno. Il mio stomaco si attorcigliò in un groviglio serpeggiante di crampi. I suoi occhi di giada mi avvolsero.

“La stavo aspettando, anche se è stato puntualissimo. Sa, non mi piace aspettare, anche se difficilmente osservo la puntualità”. Lei parlò e il mio sesso si inturgidì improvviso. Come per una calda masturbazione.

“Roberta, sei bellissima. Sei tu un’opera d’arte”.

“Ah, ” sorrise leggermente girando un poco il capo,

“non sia melenso, sdolcinato e banale. Sia se stesso. Diversamente come faccio a sapere se il giudizio sui miei quadri sarà sincero? Sono consapevole di essere bella e sono abbastanza narcisista da ostentarla, come la Contessa di Castiglione, ma detesto un uomo che si lascia appannare la sua intelligenza e i suoi giudizi dal mio fisico. è l’intelligenza in un uomo che mi seduce. Un discorso che sa coinvolgermi con l’acume, la sottigliezza, l’incanto delle parole può rapirmi al punto da farmi avere un orgasmo”. Sì, disse “orgasmo”, con la stessa noncuranza e semplicità che se avesse detto

“mi fa piacere, mi appassiona”. Ero davvero senza parole. Anche perché non traluceva nessuna spregiudicatezza nel suo parlare. Era franca, perché disinibita. E non gettava le parole a caso.

“Il caffè, penso, l’avrà preso. Beve alcolici? Li detesto come gli uomini che se ne servono. Non fumo. Ho visto che nemmeno lei fuma. Il puzzo di nicotina è orribile. I ragazzi pensano di essere più virili con quell’appendice metaforica del loro sesso in bocca. Sono solo degli insulsi bambini, che mimano i grandi e puzzano. Non bacerei mai un uomo che puzza di nicotina”. Terribile. In maniera elegante mi aveva spiegato che non dovevo né bere alcolici o fumare, se volevo stare con lei. Se no potevo andare a quel paese. Meno male che in fatto di alcolici e sigarette la pensavo come lei: non c’era quindi bisogno di mentire per ingraziarmela.

“Bacco, tabacco e Venere riducono l’uomo in cenere”. No, quella mattina non ero io, non sapevo spiccicare un’idea decente. E lei comprese che la mia mente era bloccata dalla sua… esuberanza.

“Venga, qui, in cucina: le do una spremuta d’arancia”. Non camminava per la casa. Danzava sul pavimento, leggera come una farfalla. Che facesse pure danza? Non mi meravigliava più nulla di quella ragazza. E io la seguivo come un deficiente, come un serpente imbambolato segue il flautista sulla scia della melodia intonata.

Così, trasognato, ma visibilmente eccitato, finii per ritrovarmi nella sua stanza. Un disordine ordinato, che rivelava appieno la sua multiforme creatività. Anche nelle sue suppellettili si sentiva il suo profumo di donna. Affastellate in più parti di una parete, poggiate per terra, stavano le sue tele. Con l’incedere un po’ indolente si accostò ad uno dei gruppi e cominciò, una dopo l’altra, a tirare su le varie tele. Le appoggiò a ridosso delle ante di una libreria. Sollevò lo sguardo verso di me e con aria interrogativa mi disse:

“Guarda”. Ed io guardai. Tutte figure di donna, in primo piano, adagiate su tutti i possibili sfondi, che facevano appena loro da culla. I colori erano forti. L’arte indubbiamente c’era. Aveva ottime prospettive di diventare una grande pittrice. Il sentimento era troppo violento e immediato per essere artisticamente espresso. Ma, il lievito c’era, anzi più del lievito. Cominciai a sudare. Quelle figure mi sconcertarono. Una sensualità, un erotismo rovente si sprigionava da quei quadri e ti scombussolavano gli occhi e la carne. Il mio cazzo si inarcò.

“Ebbene? “.

“Sono dei dipinti forti. Hai ritratto te stessa nei tuoi desideri più profondi. I nudi sono netti, ben pennellati: sono i colori che li avvampano. Il sesso, spalancato come una bocca che implora, non osceno e tuttavia sembra irradiare un calore di fuoco. Non è l’uomo che guarda una donna nuda, sei tu che guardi da donna i tuoi desideri di donna, il tuo corpo di donna. La carnalità straripa da ogni pennellata. Quelle figure di donna anelano con tutta l’anima di essere, di essere… “.

“Scopate: ma non come una puttana, in modo mercenario. Quelle carni vogliono essere agognate, vogliono essere percorse, strette, accarezzate, da mani che amano e bramano quel corpo, che lo sentano suo. Allora, secondo te sono riuscita a fare emergere la carnalità fumigante della donna che vuole disperatamente il maschio”.

“Cazzo, se ci sei riuscita. Guardare questi quadri è un attentato alla compostezza serafica di un uomo”. “Generalmente i pittori dipingono figure. Io dipingo il desiderio, la passione carnale che promana dai corpi. Il desiderio cocente di una donna, consapevole della sua bellezza, che vede il suo corpo nudo che freme di desiderio e non lo può appagare con le carezze e il cazzo di un uomo. E si danna l’anima e la mente. E la masturbazione diventa un futile surrogato. Accarezzami”, disse senza voltarsi.

“Raccogli i miei seni nelle tue mani e tormentali come melograni. Spogliati dalla vita in giù. Fammi sentire sul culo il tuo cazzo che si inerpica lungo il suo solco, i tuoi testicoli che strusciano e sbattono contro di esso. Fa esplodere la femmina che arde dentro di me e tormenta ogni mio neurone”. Dire che rimasi esterrefatto da quel linguaggio e da quelle parole è davvero superfluo. So solo che, dopo qualche attimo di sconcerto, mi spinsi in avanti portandomi ad immediato contatto con le sue spalle e mentre con le mani mi insinuavo sotto i bordi del suo lungo maglione, traendolo pian piano verso l’alto, la mia bocca si tuffò sul suo collo e vi affondò come se avesse trovato una pozza di acqua pronta a dissetare una sete inestinguibile. Sentii il suo corpo inarcarsi vibrando come le corde di un violino. Quel corpo di donna appena sbocciato avrebbe roso di fiamme il diavolo in persona. Le mie mani, intanto, raggiunsero il seno. Come immaginavo era nudo sotto il maglione. Lo artigliarono bramose. Sembrava scolpito nel marmo, un marmo levigato, caldo e vellutato. I capezzoli erano turgidi come bacche verdi. Le mie dita ne saggiarono la consistenza e lei vibrò. Serrò più forte i suoi glutei contro il mio basso ventre e il mio sesso inturgidito si insinuò deciso sotto il perineo. Le sue cosce lo serrarono, mentre io continuavo a tormentare con le dita le colline turgide del suo petto. Sempre serrato dietro di lei, le sfilai il maglione-vestito e il biancore del suo corpo sembrò illuminare ancora più a giorno la camera. Quel culo scultoreo, che danzava sul mio cazzo, mi contraeva di spasmi lo stomaco. Volevo girarla verso di me, ma lei non volle. Rovesciando la sua testa sul mio petto con la voce arrochita dal piacere mi intimò:

“La fica. Stringi la mia fica: è un fuoco e gocciola piacere. Falla godere, soddisfala, ma solo con la mano”. Ubbidiente e solerte, mentre come un’anguilla lei si contorceva strusciandosi contro il mio corpo semivestito, la mia mano destra cercò la sua fica e ne saggiò la forma. La accarezzò leggera prima, quasi con venerazione, poi vi si aggrappò come ad un cespuglio sull’orlo di un dirupo. Folto e selvaggio, trafisse la mia mano con una voluttà di sogno. Pigiavo sul suo pube il palmo, lo comprimevo, per poi sollevarlo e ancora pigiarlo giù con tenera violenza, in modo sempre più rapido, finché il suo clitoride gemette. Il mio cazzo, incontrollato, pigiava sopra il suo sfintere, che sembrava schiudersi da solo dietro l’andirivieni del suo di dietro. La baciavo sulle guance, su un angolo di bocca, sugli occhi, sul collo, sopra le spalle, mentre l’altra mano non si stancava di sfibrarle il seno. Le mani, infine, sincronizzarono i movimenti: mentre la sinistra scorreva sui suoi seni e le dita strizzavano i capezzoli rosa, la destra con le dita violò le grotte nascoste del suo sesso e cominciò a stantuffarvi dentro, a rotearli sempre più veloci, bussando ritmicamente sulle pareti della sua vagina. Serrò le cosce. M’imprigionò la mano. Le dita mulinavano imperterrite nella sua carne e l’altra mano sempre più vorace le trafugava il seno, compulsandone, instancabile, con le dita i capezzoli. Il piacere le scorreva dentro come un impetuoso cavallone e si piegò, torcendosi, con struggente lamento, in avanti. Mi piegai anch’io senza mollare i due tesori che mi empivano le mani. Ansava di piacere e fu un orgasmo ripetuto più volte che allagò la mano che lo sollecitò.

“Fottimi, fottimi, figlio di puttana. Che aspetti: fottimi”. Fu un grido e fu un lamento. Non la esaudii. Volevo ancora sfinirla con le dita. Ma lei si girò di botto. Era una fiamma. Pareva sotto l’effetto di una droga. Una menade sfrenata. Furente, mi scaraventò verso il suo letto e, mentre, supino, mi vi distendevo, lei si accovacciò di sopra, girandomi le spalle, sul mio sesso. Afferrò con forza, rabbiosamente, quell’asta inturgidita e, piegandosi leggermente in avanti, la infilò nella sua intimità ruggente. Di colpo inabissò il mio cazzo, frantumando impietoso la fragile barriera che fino a quel momento l’aveva fatta vergine. Come una forsennata cominciò a roteare il bacino e poi a scorrere avanti e indietro sopra il mio inguine, sempre più veloce e sempre più furente. Ansava e mugolava e con le mani premeva sui suoi seni come arance da spremere.

“Sì, sì”, sospirava in un lamento e in un crescendo sempre più eccitato. Stavo per scoppiare.

“Ora, Roberta, ora”. La sua mano si abbassò sopra il clitoride e dopo alcuni istanti il suo “sì” esplose come il magma eruttato da un vulcano. Dentro di lei anch’io esplosi il magma delle mie gonadi infuocate. E mi sentii svuotare tutte le ossa. Ma, come ossessionata dal mio sesso, quasi non appagata dal violento amplesso, si staccò da esso, solo per prosternarsi accanto e baciarlo e vezzeggiarlo, quasi fosse una divinità pagana.

“Ti farò” gli disse “ritornare ai tuoi vent’anni”. E, come d’incanto, sotto il profluvio di quei baci, sotto il titillare della sua lingua sul glande rattrappito, sotto il risucchio dell’avida sua bocca, il mio sesso, incredibilmente, ricominciò a fiorire. Sentire la mia carne nella sua bocca, sentire le sue labbra carnose scorrere vogliose su di esse, mi arrecava sensazioni di piacere mai provate. Ero più che maturo negli anni. I miei testicoli non potevano subitamente riempirsi di sperma. Doveva aspettare ancora a lungo prima che eiaculassi. Ma lei non voleva affatto attendere. Si accoccolò in mezzo alle mie gambe e raccolse i miei testicoli tra le mani strette a conchiglia, serrandoli dolcemente. Dopo di che cominciò leggermente a strofinarli scorrendo velocemente i palmi sopra di essi. Era un piacere sconosciuto. Mai donna aveva sperimentato su di me una cosa simile. Era un piacere sottile che si accresceva sempre di più, di più. E il mio cazzo cominciò ad inturgidirsi, ad ingrossarsi sempre di più, di più. Di colpo si fermò.

“Nel culo. Lo voglio dentro il culo”. Si inginocchiò sul letto. Io ne discesi. Mi svestii, finalmente, tutto. E mi portai dietro di lei. I suoi seni sembravano due cupole incastonate sopra il petto, tanto erano fermi e turgidi. Mi chinai e con la lingua cominciai a solleticare il suo sfintere. Pulsava come un cuore. Si apriva e si schiudeva come una corolla al sole. Allargai i suoi glutei. Lei fremette.

“Avanti, che aspetti: mettilo dentro”.

“Ancora non è pronto”, sospirai.

“Lasciami fare. E, poi, voglio stordirmi su queste sfere meravigliose. Ti farò godere, più di quanto immagini”.

“So che sei un grande figlio di puttana. Anche per questo ti ho scelto”.

“Anche? “.

“Certo: anche. Perché chi sa capire il bello di ogni arte, capisce anche cos’è il piacere e lo sa dare, perché non è egoista”.

“Vero, il sesso è anche arte. Ed io farò dentro il tuo culo un capolavoro degno di Picasso. Aspetta e godi”.

“Ma tu stai già godendo solo a guardare le mie rotondità. Il mio culo t’incanta, ti seduce, ti fa arrapare. Prendilo: è tutto tuo. Fammi toccare le vette del piacere”.

“Te lo farò arrivare fino in gola, questo cazzo, e dalle labbra ti colerà il mio sperma”. E così, mentre con una mano frugavo la vagina con l’altra slargavo le sue natiche e con la lingua forzavo il suo buchetto. Prima introdussi un dito. Intanto la sua fica gocciolava. Bagnai nel suo miele le mie dita e ne infilai questa volta due dentro il suo ano, stantuffandovi dentro come fosse il cazzo. Vidi la sue pelle allertare. Lei già godeva. Mi sollevai. Nella sua fica tiepida introdussi la mia verga fremente e la scopai vigorosamente un poco. Poi, uscii da quella grotta ormai violata e deciso puntai il mio cazzo sopra il suo ano. Ve lo appoggiai. Lei trasalì. E fu solo un sussulto di piacere. Le serrai il bacino con le mani e spinsi il mio glande nella sua rosellina. Bagnato dai suoi umori pian piano il glande si introdusse. Un colpo secco e tutt’intero fui nel suo intestino. Prima mi mossi piano avanti e indietro. Lei si portò la mano sulla fica e cominciò a sollecitare il clitoride. Io vi introdussi invece le mie tre dita che ruotavo come un frullino. Avvertivo distintamente sulla parete della sua vagina scorrere il mio sesso nel suo ano. E questa sensazione mi sommerse di stili di piacere in tutto il corpo. Andavo e venivo nella sua fica con le dita e nel suo culo col cazzo che si andava ingrossando al parossismo. Anche lei agitava smaniosa le sue rotondità. Sempre più forti i colpi e più veloci. Avanti, ancora. Avanti, ancora. Ormai sto per venire. Sento il suo ventre che si contrae all’unisono con le mucose del suo culo.

“Avanti” grida “sto per arrivare. Ecco, sì, ecco, forza, ora, esplodi”. L’orgasmo fu così violento che la sollevai per i fianchi serrandoli convulsamente sul mio inguine e sussultando come un cuore impazzito. Il piacere fu incontenibile. Urlai come un orango. La ragione non governava più il piacere, solo l’istinto, l’istinto primitivo, che ringhiava il suo possesso nel sodomizzare la sua donna. Ma aveva goduto forsennatamente anche lei. Rantolava come fosse sul punto di morire e sussultava come un corpo ferito a morte. Poi, uscii da lei e mi accasciai sul lettino. Lei mi si accucciò contro. Sfinito, senza proferire una parola, le accarezzavo il viso ed i capelli. Ero, sì, sfinito, però felice. Ma lei non era doma. Il suo corpo, ogni suo poro, non si era acquietato. L’accarezzavo e lei tremolava. Potevo contemplarla in tutto il suo splendore. Le sue carni insaziate ruggivano in silenzio. Ogni suo poro pulsava di peccato. Dio, com’era bella! L’incarnazione del bello, ma non del bello che ti rasserena e ti calma la mente, il Bello – “esso stesso, per se stesso, con se stesso, uno eterno e singolo”, – era un bello carnale, un bello che voleva essere posseduto, all’infinito. Con quella fanciulla, dalle forme perfette, che sembravano scolpite nel marmo pario, ma che irraggiavano furori di lussuria, avresti voluto essere Shiva, che dall’eterno e in eterno sta giunto carnalmente con Paravati, come se il suo cazzo divino fosse un cordone ombelicale e la fica di lei la sua placenta. Fottere in eterno in un letto di cielo con Roberta, fotterle la fica, paradiso proibito di piaceri mai lontanamente almanaccati, fotterle l’anima di femmina scatenata più di un’asina in perenne calore. Roberta, Roberta. Saresti stato disposto anche a morire per restare a suggere come un assetato quei capezzoli e quelle areole, spennellati di rosa, che si rizzavano e si distendevano in un’altalena allucinante e imploravano solo di essere succhiati, tormentati, o quasi strappati come succulenti fragole di bosco. Guardavo quel corpo di sogno e contemplavo il mio. La pancia slargata, quasi straripante, i fianchi inesistenti, il petto leggermente lievitato. Non avevo nulla delle statue maschie di Prassitele, ma lei certamente era più bella di Frine che lui scolpì. Forse il mio cazzo andava ancora bene. Ma, non s’era innamorata del mio cazzo, la sera prima. Che ci faceva quel corpo vellutato, fragrante di giovinezza, plasmato dalle mani d’uno scultore più che divino, abbandonato sopra quello che la vecchiaia, ormai alle porte, cominciava il suo orribile sfascio. Maledetta vecchiaia, che ti imbruttisce, quando ancora tutti i tuoi sensi e sentimenti sono allo spasimo ancora tanto giovani. Aveva donato la sua verginità ad un uomo più vecchio di suo padre. Un transfert, forse? Me, invece di suo padre? O, chissà, si dice, le donne guardano oltre l’apparenza d’un corpo che sfiorisce e amano le idee di un uomo. Già, il mondo delle idee, la verità assoluta che ti appaga la mente. Con le idee, però, non si può certo scopare. Sì, ma il mio nervo è ancora buono. Certo, non scaglia più i flutti di un ventenne, ma regge bene i tempi. E lei può essere sedotta dalle idee, dal mio cervello, ma amare anche il mio cazzo e la sua esperienza. Mentre così pensavo e meccanicamente le accarezzavo il seno, beando la mia mano, lei si scosse di colpo e con un guizzo si adagiò col viso sopra il mio pube. La sua bocca schiusa e procace pareva la sua fica. Non ho avuto tante donne per potere verificare se lo spessore delle labbra della bocca è uguale a quello della fica. Chissà se qualcuno ci ha pensato a verificarlo. Certo si è che, quando ci si bacia, in fondo, si simula un rapporto. Un bacio con la lingua non è forse una metaforica, lussuriosa, penetrazione. Scopare quella bocca con la lingua. Ancora non mi ero dissetato in quella bocca, né avevo assaggiato la fragranza dell’altra più nascosta.

“Sai non avevo mai toccato un cazzo. Veduto sì, ma toccato mai. Mi piace, incuriosisce e mi seduce. Sembra così indifeso, spaurito, rannicchiato. Fa tenerezza come un passerotto appena nato”. E con la guancia dolcemente si strofina contro. Un suo seno scorre sopra un mio ginocchio. Rabbrividisco. Lo rovista col naso, con le labbra, lo raccoglie tutto, fallo e testicoli, con le mani a coppa. Lo tempesta di baci. E lui risorge. Come un cobra, finto addormentato, si gonfia, si solleva, rizza la testa, svetta: è pronto al morso. E lei lo aizza con le labbra schiuse. Lo bacia sul prepuzio, poi si ritrae e poi lo bacia ancora e lui trepido ondeggia. Una mano lo stringe lungo l’asta, con le dita dell’altra, lentamente, lo scalpella, ne rivela la cresta malva. Lo prende tra le labbra e sulla piccola bocca infuocata spinge la lingua. Con la punta lo pigia, deliziosamente lo trivella. Le mie palle si ingrossano: io sussulto. Il mio cuore pulsa all’impazzata. Poi, avviluppa intero tutto il mio genitale con la bocca e come una ventosa, un turbine, lo risucchia. Su e giù voracemente piano, gustandolo quasi fosse un sorbetto, con la lingua sbatte il mio pene lentamente da una guancia all’altra e con gli occhi, furbescamente divertita, mi sorride. La bocca d’una esperta cortigiana, non di un’adolescente ingenua. “Lecca la mia fica, divorala, stordisci il mio clitoride, fammi eiaculare come fossi un uomo”. Così mi sussurrò. E, sospendendosi sulle mani, ruotò su se stessa di 180 gradi, fino a che la sua fica si trovò a pendere col suo bosco sacro sulla mia bocca. E la mia lingua trafugò quel bosco e la sua segreta grotta e seppe far sgorgare le spumose sorgenti dalle falde più intime. Brucianti e vellutate, quelle segrete labbra mi inebriarono di umori che golosamente bevvi. I suoi orgasmi erano a ondate come le maree e lei mi sussultava sulle labbra gridando in un singulto il suo piacere. E intanto, ora, con un compiaciuto appagamento inghiottiva in un risucchio soltanto i miei testicoli dentro la sua bocca e con la lingua me li masturbava. Si accanì con voracità sopra di essi e con la mano mi serrava il cazzo, che scorreva in su e in giù dentro il suo palmo. Sentivo il mio stomaco, tutto il mio ventre contorcersi. Spasmi di piacere indescrivibile si irraggiavano per tutte le mie cosce. Le tempie mi pulsavano impazzite. Il mio cazzo stremato, infine, espulse poche gocce di sperma dalle gonadi dolenti. Lei le assaporò voluttuosamente, scorrendo la lingua sulle labbra e poi le deglutì. Il mio cuore parve sprofondare in mezzo al petto. Credetti veramente di morire anche se di piacere. Il volto certamente estasiato mostrò forse la sofferenza di quel piacere estremo, e lei lo scorse e si precipitò a soffiarmi trepidi baci sugli occhi e sulle labbra per rincuorarmi. Per un attimo immenso vidi trascorrere nella mente calma tutta la mia vita.

“Sì, posso anche morire”, mi dissi in quel torpore della mente.

“Ora non ho rimpianti. Mi hai appagato, piccola mia Afrodite, più di una vita”. Lei mi si distese accanto, abbracciata teneramente a me, il capo sulla mia spalla. La marea rifluiva a poco a poco e le onde scorrevano lievi come una carezza fresca sulla battigia del cuore e della mente, nel silenzio del mondo. FINE

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