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Il Macellaio

Lui aprì la porta, mi prese per mano.
Avevo i sandali pieni d’acqua, i piedi sguazzavano sulla suola di plastica.
Mi portò in salotto, mi fece sedere; mi offrì un caffè.
Poi accese la radio, chiedendomi di scusarlo per cinque minuti.
Doveva fare una doccia.
Mi avvicinai alla finestra, tirai un poco la tenda, e guardai la pioggia cadere.
La pioggia mi mise voglia di pisciare.
Uscendo dalla toilette, spinsi la porta della stanza da bagno.
Il locale era caldo, invaso dal vapore.
Scorsi la sua sagoma massiccia dietro la tenda della doccia.
La scostai un poco, guardai.
Lui tese le mani verso di me ma io mi sottrassi, proponendo di insaponargli la schiena.
Salii sulla vaschetta, tesi le mani sotto l’acqua calda, presi il sapone, lo rigirai fra i palmi Fino a ricoprirli di una schiuma densa.
Mi misi a fregargli la schiena, cominciando dalla nuca, dalle spalle, con movimenti relatori.
Era larga e bianca, muscolosa e soda.
Scesi lungo la colonna vertebrale, una mano per parte.
Gli fregai i fianchi, sconfinando talora sul ventre.
Il sapone produceva una schiuma sottile e profumata, una ragnatela vaporosa di bollicine bianche fluttuanti sulla pelle bagnata, un tappeto di morbidezza che scivolava fra il mio palmo e le sue reni.
Salii e ridiscesi lungo la colonna vertebrale più volte, dal fondo della schiena all’estremità della nuca, giusto fin sui primi capelli corti, quelli che il barbiere talvolta rade, a chi li vuole sfumati, con la macchinetta così deliziosamente vibrante.
Ripartii dalle spalle e insaponai le braccia, prima l’uno poi l’altro.
Nonostante la rilassatezza delle membra, sentivo guizzare le sfere sode dei muscoli.
L’avambraccio era coperto di peli neri, dovevo sciogliere ben bene il sapone per far attecchire la schiuma.
Risalii fino alle ascelle, profonde e pelose.
Mi spalmai di nuovo le mani; gliele posai entrambe sulle natiche massaggiando in tondo.
A dispetto del volume, le sue natiche avevano forma armoniosa, spiovevano elegantemente dalle reni ed erano collegate senza flaccidezze agli arti inferiori.
Passai e ripassai su quelle rotondità per conoscerne la
configurazione tanto con i palmi quanto con gli occhi.
Percorsi poi le gambe, sode e massicce.
La pelle pelosa ricopriva barriere di muscoli.
Ebbi la sensazione di penetrare in un’altra regione del corpo, più selvaggia, fino al tesoro strano delle caviglie.
Allora si volse verso di me.
Alzai la testa e scorsi i testicoli gonfi, la verga tesa, dritta poco sopra i miei occhi.
Mi alzai. Lui non si mosse.
Presi di nuovo la saponetta fra le mani, cominciai a lavare il torace, ampio e robusto, moderatamente villoso.
Scesi pian piano lungo il ventre, gonfio e cinto di addominali possenti.
Mi occorreva tempo per coprirne tutta la superficie.
L’ombelico era in rilievo, pallina bianca attorno alla quale gravitavano le mie dita, sforzandosi di ritardare il momento in cui avrebbero ceduto all’attrazione verso il basso, verso la cometa rigida contro il bell’ordine circolare dello stomaco.
M’inginocchiai per massaggiare l’inguine.
Girai lentamente intorno agli organi genitali, con gran delicatezza, fino all’interno delle cosce.
Il suo membro era terribilmente grosso e teso.
Resistetti alla tentazione di toccarlo, prolungando le carezze sul pube e fra le gambe.
Adesso lui stava attaccato alla parete, a braccia allargate con entrambe le mani contro il muro, il ventre teso in avanti.
Gemeva.
Sentii che avrebbe potuto godere ancor prima che lo avessi toccato.
Mi scostai, sedetti proprio sotto il getto della doccia e, gli occhi sempre fissi sul suo membro gonfio all’inverosimile, attesi che si calmasse un po’.
L’acqua calda mi colava sui capelli, sul vestito; satura di vapore, l’aria tremolava attorno a noi, attenuando forme e rumori,
Aveva raggiunto il culmine dell’eccitazione, eppure non aveva fatto il minimo gesto per affrettare la conclusione.
Aspettava me, mi avrebbe aspettata per tutto il tempo che avessi voluto far durare il piacere, il dolore.
M’inginocchiai di nuovo di fronte a lui.
Il suo membro, ancora fortemente congestionato, sussultò.
Passai la mano sullo scroto, risalendo dalla radice, vicino all’ano.
La sua verga si drizzò ancor più, più violentemente.
La presi con l’altra mano, la strinsi, avviai un dolce movimento di va e vieni.
L’acqua saponata di cui era coperto il mio palmo favoriva a meraviglia lo scivolamento.
Entrambe le mie mani erano adesso ricolme di una materia calda e viva, fatata.
La sentivo palpitare come il cuore di un uccello, l’aiutavo a correre verso il sollievo.
Su e giù, sempre lo stesso gesto, sempre lo stesso ritmo, e i gemiti al di sopra del mio capo; e io che gemevo a mia volta, mentre l’acqua della doccia m’incollava addosso il vestito come un guanto stretto e serico, il mondo fermo all’altezza dei miei occhi, del suo inguine, al rumore dell’acqua che colava su di noi e della sua verga che scorreva fra le mie dita, a cose tiepide e tenere e dure fra le mie mani, all’odore di saponetta, di carne bagnata e di sperma che montava sotto il mio palmo…
Il liquido sprizzò a raffiche, schizzandomi volto e vestito. S’inginocchiò anche lui, leccò sul mio viso le lacrime di sperma.
Mi lavava come usano fare i gatti, con applicazione e tenerezza.
Il volto bianco e paffuto, la lingua rosa sulla mia guancia, gli occhi azzurri slavati, le palpebre pesanti come sotto l’effetto di qualche droga.
E il suo corpo languente e greve, il suo corpo tutto pienezza…
Uno sfondo di pioggia verde tenero nel vento lieve dei rami…
E l’autunno, piove, sono una bambina, cammino nel parco e la testa mi gira per via degli odori, dell’acqua sulla pelle e sui vestiti, laggiù sulla panchina vedo un signore grosso che mi guarda, che mi guarda con tanta insistenza che me la faccio addosso, in piedi, cammino e faccio pipì, sono io che piovo liquido caldo sul parco, per terra, nelle mutandine, piovo, io piaccio…
Mi tolse il vestito, lentamente.
Poi mi distese sulle piastrelle del pavimento caldo e, lasciando sempre scorrere la doccia, cominciò a baciarmi su tutto il corpo.
Le mani possenti mi sollevavano e mi rivoltavano con estrema delicatezza.
Non sentivo ne la durezza del pavimento ne la forza delle sue dita.
Mi rilassai completamente.
E lui mi mise le labbra carnose, l’umidore della lingua nel cavo delle braccia, sotto il seno, nei collo, dietro le ginocchia, fra le natiche, mi mise la bocca dappertutto, da un capo all’altro della schiena, all’interno delle gambe, fino alla radice dei capelli.
Mi adagiò sulla schiena, per terra, sulle mattonelle calde e scivolose, mi sollevò le reni con le mani, le dita fermamente piantate nei fianchi, fino alla colonna vertebrale, i pollici sul ventre; mise le mie gambe sulle sue spalle e mi posò la lingua sulla vulva.
M’inarcai bruscamente.
L’acqua della doccia mi colpiva con dolcezza, migliaia di volte, sul ventre e sul seno.
Lui mi leccava dalla vagina al clitoride, con regolarità, la bocca incollata alle grandi labbra.
Il mio sesso diventò una superficie erosa da cui grondava il piacere, il mondo scomparve, io non ero nulla più che quella carne viva, da cui ben presto sgorgarono gigantesche cascale, una via l’altra, di continuo, una via l’altra, all’infinito.
Poi la tensione s’affievolì, le mie natiche ricaddero sulle sue braccia, mi ripresi a poco a poco, sentii l’acqua sul ventre, vidi di nuovo la doccia, e lui, e me.
Mi aveva asciugata, messa al caldo nel letto, e mi ero addormentata.
Mi svegliai pian piano, al rumore della pioggia contro i vetri.
Le lenzuola erano tiepide e soffici, il guanciale morbido.
Aprii gli occhi. Era sdraiato accanto a me, mi guardava.
Posai la mano sul suo membro. Aveva di nuovo voglia di e.
Non aspettavo altro.
Fare l’amore, per tutto il tempo, senza frenesia, con pazienza, con ostinazione, con. metodo..
Andare sino in fondo.
Era come avere una montagna da scalare e dovevo arrivare in alto, come nei miei sogni, nei miei incubi.
La cosa migliore sarebbe stata castrarlo subito, mangiare quel pezzo di carne sempre dura sempre dritta sempre esigente, inghiottirlo e custodirlo nel mio grembo, definitivamente.
Mi avvicinai, mi sollevai un poco, lo cinsi con le braccia.
Lui mi prese la testa fra le mani, portò la mia bocca sulla sua, vi fece penetrare di colpo la lingua, la mosse al fondo della mia gola, l’attorcigliò e l’avvolse alla mia lingua.
Io presi a mordicchiargli le labbra, fino a sentire il gusto del sangue.
Allora mi arrampicai del tutto su di lui, appoggiai la vulva contro il membro, la fregai contro i coglioni e l’asta, che guidai con la mano per farla penetrare in me, e fu come un lampo solido, l’ingresso trionfale del piacere, il ritorno istantaneo della grazia.
Sollevai le ginocchia, piegai le gambe attorno a lui, e lo cavalcai vigorosamente.
Ogni volta che, sul culmine dell’onda, vedevo uscire il suo membro, lucente e rosso, lo riprendevo tentando d’infilarlo ancora più a fondo.
Andavo troppo in fretta.
Mi fece calmare, dolcemente, distesi le gambe e mi sdraiai su di lui. Rimasi immobile per un attimo, contraendo i muscoli della vagina attorno al suo membro.
Gli morsicai il petto per tutta la sua ampiezza; scariche elettriche mi percorrevano la lingua, le gengive.
Fregai il naso contro la sua carne bianca e grassa, aspirai il suo odore tremando.
Strabuzzavo gli occhi per il piacere, il mondo non era altro che un quadro astratto e vibrante, un’accozzaglia di macchie di colore chiaro, un pozzo di materia soffice in cui sprofondavo in un empito gioioso di perdizione.
Una vibrazione partita, dai timpani mi prese alla testa, gli occhi mi si chiusero; una coscienza straordinariamente acutizzata si propagò con le onde che mi percorrevano la volta cranica, ci fu una specie di vampa e il mio cervello godette, solo e silenzioso, magnificamente solo.
Lui rotolò su di me e mi cavalcò a sua volta, appoggiandosi sulle mani per non schiacciarmi.
I suo testicoli mi fregavano le natiche, all’ingresso della vagina, la sua verga dura mi riempiva, scivolava e scivolava sulle pareti profonde, le mie unghie penetravano nelle sue natiche, lui ansimò più forte…
Godemmo insieme, a lungo, i nostri liquidi confusi, i nostri rantoli confusi, provenienti non dalla gola ma da più lontano, dalle profondità del petto, suoni estranei alla voce umana. FINE

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