Lo scatto della serratura della porta d’ingresso mi colse di sorpresa: Lui era arrivato con almeno un’ora di anticipo rispetto al solito orario.
Accolsi quest’anticipo come una vera liberazione.
Da quando gli avevo telefonato per avvisarlo del guaio che avevo combinato, non avevo fatto altro che passare da uno stato d’angoscia ad un altro d’esaltazione nella speranza che, questa volta, non me l’avrebbe fatta passare liscia.
Mi precipitai, come mio dovere, ad accoglierlo: presi la sua borsa porta documenti; lo aiutai a togliersi la giacca; gli sfilai la cravatta e gli slacciai il colletto della camicia.
Mi sfiorò la guancia con le labbra: un sublime, lieve, dolcissimo bacio.
Di corsa, per quanto me lo permettessero le scarpe con i tacchi alti 12 centimetri che dovevo indossare, depositai nell’armadio della nostra stanza da letto i suoi indumenti e, nello studio, la cartella, poi tornai da Lui.
Era già seduto in poltrona: gli preparai il solito the bollente al limone, come piaceva a lui, e glielo porsi inginocchiandomi davanti alle sue gambe. Sorreggevo il piattino all’altezza delle mie spalle, pronta a ricevere la tazza ogni volta che l’avesse voluta depositare.
Erano trascorsi almeno venti minuti da che era rientrato ed ancora non mi aveva detto una sola parola.
Il mio cuore batteva all’impazzata nell’attesa; i miei sguardi, altro non erano che lettere luminose lampeggianti la scritta: ti amo.
Mi rialzai a fatica: le ginocchia mi facevano male, ma non importava. Portai in cucina il servizio da the, e tornai da lui. Questa volta mi accovacciai ai suoi piedi con la testa poggiata alle sue cosce muscolose: non dovevo far altro che aspettare la sua decisione.
– Lo sai, vero, di avermi molto deluso? E già che ci siamo, hai niente altro da confessare oltre quella che già mi hai detto stamattina? –
Ecco, finalmente le mie colpe stavano per essere giudicate. Mi dispiaceva dover ricorrere a questi mezzi, ma non mi lasciava altra scelta. Adoravo i momenti in cui si prendeva cura di me, i momenti in cui si dedicava alla mia educazione, al mio addestramento. Purtroppo accedeva sempre più di rado. Non che mi amasse di meno, anzi, mi amava moltissimo, sicuramente molto più di quando avevo accettato di essere addestrata per diventare la sua schiava perfetta.
Forse era proprio questo il guaio; ero diventata troppo brava: quasi perfetta. Forse per questo non venivo più sottoposta, molto spesso, a dure ed estenuanti sedute d’addestramento. Lui, però, non capiva, o faceva finta di non capire, che erano proprio queste che mi mancavano. Ecco perché dovevo ricorrere al sotterfugio di mostrarmi meno brava; ancora sciocca ed impacciata. Odiavo deluderlo, ma solo così riuscivo a costringerlo ad occuparsi del mio corpo con altre cose che non fossero soltanto baci; coccole; carezze.
– Sì, padrone; so di averti deluso e mi dispiace tantissimo e spero che mi aiuterai a farmi perdonare. –
Ero incerta se continuare o no col mio mea culpa, ma poi decisi che dovevo essere sincera fino in fondo: questa era la base del nostro bellissimo rapporto, per cui, un po’ titubante, ripresi:
– Devo anche confessarti un’altra cosa: ieri, ripensando a quello che era successo ieri notte, stamattina mi sono masturbata. So che mi è proibito ricercare il piacere da sola; che ti ho disobbedito, ma era stato troppo bello, non ce l’ho fatta a resistere. So di essere una sciocca ragazza che non capisce niente; ma se ti occuperai di me punendomi come merito, forse la mia testa vuota capirà come devo comportarmi. –
– Tu non hai affatto la testa vuota; anzi, è proprio il perfetto contrario. è proprio questo che mi manda di più in bestia: sembra quasi che tu lo faccia apposta a disubbidire; a comportarti da sciocca; ma lasciamo stare le chiacchiere: vedremo più tardi, quando avrò finito con te, se non ti sarai rimessa in carreggiata. Avanti: preparati. –
C’ero riuscita. Finalmente avrei ricevuto la mia salutare punizione. Il mio corpo tremava dalla paura per quello che gli sarebbe successo, ma dentro di me già pregustavo il piacere che ne avrei ricavato.
Con le mani tremanti slacciai i bottoni della camicetta: i miei seni, grossi e orgogliosi, fecero immediatamente capolino dall’apertura attirando il suo sguardo.
Già quello sguardo bastò a farmi rizzare i capezzoli come se me li avesse succhiati per mezz’ora di seguito.
Aprì lentamente la lampo della gonna e la lasciai scivolare a terra.
Ero nuda.
Uno dei primi ordini, se non il primo ordine, che avevo ricevuto all’inizio del mio addestramento era che non dovevo mai indossare biancheria intima salvo preciso ordine contrario.
Senza dire una parola, con la testa chinata in basso, come si conviene ad una brava schiava, mi avviai verso la stanza da bagno. Sotto il suo sguardo attento, dovevo preparare il mio corpo a ricevere qualsiasi tipo di punizione avesse voluto darmi; mi rasai con cura la fichetta e l’ano; con la peretta di gomma mi feci tre o quattro piccoli clisteri detergenti, finché non tirai fuori acqua perfettamente pulita, poi mi feci la doccia.
Tutta la preparazione faceva già parte della punizione e finché non fu sicuro che ero perfettamente a posto, non mi lasciò da sola.
Appena asciugata e sistemata a puntino, indossando soltanto la fascia che contornava i miei lunghi capelli, m’incamminai verso la camera da letto dove sapevo che Lui mi stava aspettando.
Aveva già preparato tutto ed era in attesa, in piedi, accanto al letto.
M’inginocchiai davanti a Lui aspettando un suo cenno; si chinò, mi sollevò il mento e mi guardò fisso negli occhi.
– Lo sai che ti amo, vero? –
– Si, signore. – risposi annuendo con la testa.
Avrei voluto dirgli molto di più, che anch’io lo amavo; che vivevo solo per lui; che lui era lo scopo della mia vita; ma non potevo. Questo momento non apparteneva all’amore, ma alla mia educazione, al mio addestramento.
Da sopra il letto prese e mi porse i simboli che dovevo indossare quando ero in punizione: collare, bracciali e cavigliere di robusto cuoio nero; tutti ornati con solidi anelli di ferro che servivano ad appendermi, bloccarmi, legarmi in qualsiasi modo e posizione volesse.
– Avanti, vai al tuo posto. – mi ordinò appena ebbi finito di allacciare l’ultima cinghia.
Sapevo esattamente cosa dovevo fare. Salii sul letto e mi inginocchiai a gambe larghe; con le mani mi afferrai le caviglie e mi chinai in avanti poggiando la testa sulle coperte, vicino a dove Lui aveva deposto gli strumenti che dovevano essere usati, quel giorno, per la mia punizione.
In quella posizione le mie parti intime erano completamente esposte, a sua disposizione e la cosa mi eccitava da impazzire.
La posa in cui ero costretta, a lungo tempo non era molto comoda da mantenere, ma sapevo bene che se mi fossi mossa la mia punizione sarebbe aumentata, e di molto.
Dovevo guardare a lungo gli attrezzi che stavano a poca distanza dai miei occhi ed immaginare e meditare, su come sarebbero stati usati sul mio corpo. Vidi i morsetti per capezzoli che avrebbero morso la mia tenera carne, vidi il frustino e la cinghia che avrebbero fatto diventare il mio sedere rosso ed infuocato; vidi purtroppo, anche la grande cannula Bardex a doppio pallone, ed ebbi la certezza che sarebbe stata infilata e gonfiata nel mio culo e da questo un’altra sgradita certezza: avrei ricevuto almeno un clistere, forse due; forse grossi, forse molto grossi.
Al solo pensiero di come sarebbe stata usata tutta quella roba, di quello che avrei dovuto subire, la mia fichetta cominciò a bagnarsi.
– Sai di avermi deluso e che per questo dovresti essere punita. Vuoi che lo faccia? –
– Si, padrone, per favore, mi castighi. Sono stata sciocca e disobbediente: ho bisogno della sua correzione. –
– E una dura correzione avrai, mia adorata schiava. –
Le sue parole mi scaldarono il cuore e, mentre mi rialzavo, sorretta dalle sue forti mani, mi sentivo veramente felice anchew se non ancora soddisfatta.
Prese il primo degli attrezzi che mi erano destinati e capii che dovevo offrirgli le mie tette porgendogliele, sorrette da sotto, con le mani a coppa.
L’unica reazione che mi permisi di avere mentre mi strizzava ripetutamente i capezzoli, fu quella di inarcare leggermente la testa indietro: nessun segno di dolore o di piacere doveva essere visibile, da parte mia, durante le punizioni.
Quando giudicò i miei capezzoli abbastanza eretti, prese i morsetti e me li applicò girando le viti che ne avvicinavano le barrette finché il dolore non mi fece tremare le gambe: pochi millimetri dividevano le asticelle superiori da quelle inferiori; in mezzo, i capezzoli strizzati, mi trasmettevano feroci stilettate di meraviglioso dolore. La mia vagina era sempre più bagnata e qualche po’ di liquido cominciava a scorrermi lungo le cosce.
– Incominci ad avvertire gli effetti della punizione? – mi chiese guardandomi direttamente negli occhi.
– Si, signore. I miei capezzoli e le mie tette stanno soffrendo a causa del mio comportamento e per questo ti ringrazio. –
Mi sollevò il volto e mi baciò, a lungo, premendo le sue labbra sulle mie fino a lasciarmi senza fiato.
Quando mi sciolse dal suo abbraccio m’indicò il posto dove avrei subito la prossima parte della punizione: il cavalletto che era lì, pronto, in attesa che mi ci chinassi sopra..
Poggiai le anche, come tantissime altre volte, sul bordo ben imbottito e mi chinai in avanti finché i seni non premettero contro la parete inclinata. Il dolore del contatto fu tremendo: era talmente tanto tempo che non subivo una seduta punitiva completa, che avevo quasi dimenticato l’effetto che provocava lo spingere, contro un piano, i capezzoli stretti nelle ghigliottine.
Allungai le braccia affinché Lui potesse bloccare gli anelli dei bracciali con i moschettoni fissati ai piedi del mobile; poi allargai le gambe per farmi bloccare anche le caviglie.
Ero piegata praticamente in due; il sedere, in alto, era esposto e disponibile a ricevere tutto quello che lui gli avrebbe dato: baci, schiaffi, carezze, frustate.
Sapevo che sarebbe stata dura; da troppo tempo non venivo punita così, per non aspettarmi che sarei stata costretta a riassaporare i piaceri di tutti gli strumenti che avevo imparato a temere e ad adorare nel lungo tempo del mio addestramento: righello; racchetta, flagello; cane. Sapevo anche che forse, mentre piangevo per i tanti, duri colpi ricevuti, i miei orifizi, adesso esposti e disponibili, sarebbero stati pieni ed allargati da grossi vibratori o da enormi cunei.
Almeno, lo speravo.
– Sei pronta, amore mio? –
– Sì, padrone. Ti prego, punisci questa stupida schiava; falla soffrire come merita. –
Ero tesa; aspettavo tremando di paura l’ondata di dolore del primo colpo, ma non arrivò, perlomeno in quel momento. La sua mano si posò lieve sulle mie natiche accarezzandole con delicatezza. Un’ondata di piacere m’invase sentendo i suoi polpastrelli percorrere il solco allargato; fermarsi a giocherellare col mio buchetto posteriore per continuare poi più in giù, verso il mio sesso infuocato. Sentì le sue dita entrare contemporaneamente nei miei buchi e muoversi dandomi mille piacevoli sensazioni. Provai anche un senso di vergogna: già soltanto l’attesa mi aveva fatto bagnare come una fontana: “sei proprio una porca viziosa”, mi dissi con un certo compiacimento.
Girai la testa di lato per vederlo andare verso il letto e tornare con in mano sia la cinta che il frustino: ambedue si sarebbero abbattuti sulle mie povere natiche impazienti.
Emisi soltanto un piccolo gemito quando la cinghia mi colpì.
– Grazie, padrone … per favore, mi dia ancora la punizione che ho meritata. –
Un altro colpo di cinghia piombò sul mio sedere; nuovamente lo ringraziai e gli chiesi ancora di essere punita. Così per almeno altre venti volte. Le mie natiche dovevano ormai essere colore porpora; sentivo che bruciavano; ma non era ancora abbastanza. Il colpo successivo fu diverso: era molto più cattivo, più doloroso: un colpo di frustino. Il dolore diverso, più acuto, esplose finalmente vivo nel mio corpo portandomi sull’orlo del primo orgasmo.
Contai dodici colpi di frustino prima che si fermasse definitivamente; per dodici volte lo ringraziai e per dodici volte gli chiesi di punirmi ancora. Nel frattempo, tra un terribile colpo e l’altro, ero riuscita ad avere tre orgasmi nonostante le lacrime che scorrevano copiose sul mio volto.
Sentì le sue labbra posarsi sul mio povero culetto infuocato e le sue dita entrare nella mia vagina fradicia di umori. Gemei: ero pronta, ma lui uscì prima che potessi raggiungere il prossimo orgasmo.
– Per favore, padrone, non uscire; restami dentro. –
Non avrei dovuto dirlo. Il piacere è una cosa che il padrone mi concede quando gli và o quando lo merito ed in quella situazione non lo meritavo di certo.
Si allontanò senza dire una parola. Dopo pochi istanti tornò indietro con in mano un enorme vibratore, riproduzione di un gigantesco pene, con tanto di scroto, che avevamo acquistato, insieme, qualche tempo prima .
Questa volta non aprì bocca, ma il mio cervello era impegnatissimo a lanciargli richieste di prendermi con quel grosso cazzo di gomma; di infilarmelo dentro, dove voleva, nella fica o nel culo, purché mi riempisse.
Lo indirizzò sulla mia vagina e lo spinse dentro senza alcuna esitazione: boccheggiai; era freddo; gelato; ghiacciato. Doveva averlo tenuto a lungo nel frigorifero.
– Spero che questo serva a raffreddare i tuoi bollori. –
Si allontanò nuovamente tornando con lo specchio del bagno e lo inclinò in modo che potessi vedere il mio didietro, rosso fuoco, e lo scroto di plastica che usciva dalla mia fica tremante.
– Guarda bene in che situazione ti mettono le tue sciocchezze. Pensaci bene, la prossima volta. –
Il mio corpo stava tremando per il freddo mentre Lui andava a mettere a posto lo specchio.
La punizione del freddo era una pratica che aveva usato, almeno su di me, molto raramente e sempre d’estate, nelle torride giornate in cui, un piccolo cubetto di ghiaccio nella vagina o, tipo supposta, nel culo, erano più un piacere che una punizione. Quella volta fu molto diverso. Il freddo si stava impadronendo di me; tutta la mia parte genitale era diventata totalmente insensibile.
Per fortuna durò poco. Lentamente il vibratore si intiepidì, perse il suo freddo, ma con esso, io persi tutti i miei bollori.
Man mano che scemava l’eccitazione del desiderio cresceva in me, la consapevolezza del dolore causato dalla solenne battuta che avevo ricevuto. Mi accorsi soltanto allora che le natiche mi facevano un male cane e ricominciai a piangere, in silenzio.
Sembrava che aspettasse proprio quella mia reazione per sciogliermi dal cavalletto. Mi fece rialzare e mi abbracciò. Anch’io mi avvinghiai a lui, dimenticando che avevo ancora i morsetti sui capezzoli. Le fitte di dolore che provai appena i miei seni si schiacciarono sul suo torace furono terribili ma per fortuna, in gran parte, mitigate dalla sensazione di calore e d’amore che il suo abbraccio mi trasmise.
– Mi dispiace molto di essere costretto a fare questo, lo sai che mi dispiace, vero? –
– Si, mio padrone, lo so e ti chiedo perdono per averti costretto a farlo; anche per questo merito che tu mi punisca ancora, e duramente. –
Lasciandomi il mostro piantato nella vagina, mi condusse, afferrandomi per l’anello del collare, nel bagno della camera da letto, quello grande.
La vasca da bagno, centrale, era già stata coperta dalla tavola su cui, sapevo, sarei stata legata per ricevere il resto della mia punizione. Questa era la parte che meno mi piaceva: avevo sempre goduto delle sue sculacciate, delle frustate; desideravo che mi riempisse tutti i buchi con grossi oggetti, ma non ero mai riuscita ad amare i clisteri. Questo Lui lo sapeva, ecco perché me li faceva, almeno in quel modo, soltanto durante le punizioni: sosteneva che ero talmente troia e masochista che, senza i clisteri, per me ogni punizione era un premio.
Tutto sommato, devo confessare che aveva perfettamente ragione.
Prima che io salissi sulla tavola, stando bene attenta a non farmi cadere il dildo che avevo ancora piantato dentro, mi fece aprire la bocca per mettermi il bavaglio a palla.
Questo significava che aveva intenzione di farmi qualcosa che mi avrebbe fatto strillare e lui, durante le punizioni, il massimo che tollerava erano mugugni e grugniti.
Dopo che mi fui sdraiata, di schiena, sulla tavola, allungai le braccia verso gli angoli dove c’erano fissati i moschettoni con i quali mi immobilizzò; poi collegò gli anelli delle cavigliere alle funi che pendevano dalle carrucole a soffitto. Tirò le corde sollevandomi le gambe finché furono completamente spalancate, in alto ed inclinate indietro, quasi sulla mia testa. Ancora una volta, ma in posizione diversa, le mie parti intime erano oscenamente in vista ed a sua completa disposizione.
Capii, con angoscia, quello che mi aspettava, quando applicò alle mie cosce, molto vicino all’inguine, un paio di collari che collegò molto strettamente, ad altri moschettoni ai lati della tavola. In quel modo avevo anche il bacino assolutamente immobilizzato. Mi guardò come un artista guarda una sua opera: evidentemente soddisfatto si girò ed uscì lasciandomi di nuovo sola. Prima di uscire si raccomandò di guardarmi bene nel grande specchio a soffitto.
Le lacrime mi scorrevano sulle guance mentre pensavo a quello che stava per accadermi; odiavo quella punizione, eppure, in qualche modo sentivo anche di amarla.
Mi accorsi del suo ritorno soltanto quando sentii un oggetto poggiarsi sulla mia pancia: spalancai gli occhi e vidi che era la lunga cannula Bardex a doppio palloncino. Lui stava tra le mie cosce allargate e mi guardava con un sorriso che non lasciava presagire niente di buono.
– Credo che ormai i tuoi bollori si siano raffreddati, possiamo anche togliere questo coso. – disse mentre sfilava il vibratore dalla mia vagina. Mi sentì vuota senza quel mostro dentro. In quella posizione così aperta, mi sembrava quasi di sentire l’aria circolare nelle mie parti intime.
Le sue dita, calde, si posarono sulle mie labbra vaginali allargandole per liberare il piccolo clitoride.
– Sì, sei proprio molto fredda da queste parti; forse è il caso che ti riscaldi un poco. – disse mentre si chinava fino a poggiare la sua bocca sul mio sesso congelato.
Bastarono pochi baci e pochissimi colpi di lingua per mandare nuovamente a fuoco la mia fichetta. Con gli occhi chiusi assaporavo tutto il piacere che stava dandomi finché non mi sentì nuovamente tutta bagnata.
Era un gioco perverso, il suo. Mi solleticava, mi succhiava, mi leccava fino a portarmi sull’orlo dell’orgasmo; poi si fermava. Sentivo il sangue pulsare veloce nei miei genitali: dovevo raggiungere al più presto l’orgasmo, altrimenti sarei impazzita.
– Guai a te se ti lasci andare. Lo so che stai per godere, ma non ci provare neanche. –
Ero veramente disperata: tutto il mio corpo reclamava quell’orgasmo che sentivo montare dentro di me; ma non potevo. Lui non voleva che io godessi anche se continuava a stuzzicarmi con le sue dita e la sua perfida lingua.
Soltanto quando si accorse, dal mio tremore, che, anche volendolo non ce l’avrei più fatta a trattenermi, si mosse a compassione e smise di masturbarmi. A quel punto ero io che non volevo che smettesse: la mia fica, il mio ano, tutto il mio corpo reclamavano quelle carezze che non c’erano più.
– Sei di nuovo bagnata come una gatta in calore. Non mi sembra che sia il comportamento che deve tenere una schiava mentre sta ricevendo una punizione. – mentre mi guardava, lessi nei suoi occhi un accenno di sorriso. Non era arrabbiato con me: mi stavo comportando esattamente come dovevo. – Credo sia il caso di dare una bella sculacciata anche a questa fichetta impertinente; non sei d’accordo? –
In un attimo dimenticai tutto: il Bardex che avevo sulla pancia; il timore del clistere; l’orgasmo interrotto. Tutti i miei pensieri erano rivolti alla mia fica che stava per ricevere una terribile battuta.
Lo guardai negli occhi cercando di trasmettergli tutta la mia gratitudine ed acconsentì, alla sua domanda retorica, con un semplice movimento del capo.
Vidi, riflessa nello specchio, la sua immagine mentre si posizionava tra le mie gambe allargate. Vidi la sua mano impugnare la cinta, alzarsi e calare velocemente sul mio sesso. Il colpo non fu forte, ma sufficiente a risvegliare tutta la mia voglia.
Mi lamentai, ma non certo per il dolore. Ogni colpo che arrivava sul mio sesso spalancato contribuiva ad infuocarmi. Ben presto sentì i miei umori colare sulle mie natiche fino a formare in rivolo che scorreva nel solco tra le chiappe, sull’ano. La mia testa si scoteva a destra e sinistra incurante della mia voglia di vedere, oltre che sentire, la grandiosa battuta che stavo ricevendo tra le cosce divaricate. Ogni tanto riuscivo a controllarmi ed a fermare lo sguardo sul mio sesso che stava diventando sempre più rosso e sempre più gonfio; quando mi sembrò che le mie grandi labbra si fossero gonfiate tanto da sembrare due banane, lui si fermò.
Piangevo disperata. Eppure non mi sentivo infelice, tutt’altro. Ero tutta un dolore eppure ero felice per il piacere provato; per il piacere che era finalmente giunto dopo tanto tempo, dopo tanto desiderio.
Anche questa volta, prima di lasciarmi nuovamente sola, mi ordinò di guardarmi bene nello specchio; di imprimermi nella mente a cosa mi portavano le mie disobbedienze.
Impiegò qualche minuto per tornare spingendo l’appendi abito a colonna dell’ingresso a cui aveva appese due enormi sacche di plastica rigonfie di liquido: era giunta, purtroppo, l’ora del clistere.
Mi bastò un suo sguardo per capire cosa dovevo fare.
Mugolai per fargli capire che dovevo parlargli; che poteva anche togliermi il bavaglio: non avrei più gridato.
– Ti prego, padrone, – gli dissi appena mi ebbe liberata la bocca dalla odiosa pallina – ho bisogno che tu adesso mi punisca con un grosso clistere. Ti prego, – continuai mentre cominciavo a singhiozzare – fammelo. –
Si chinò sulle mie labbra e mi baciò a lungo.
– Va bene, se è questo quello che vuoi, ti accontento: te ne farò uno molto grosso e molto lento, così avrai modo di assaporarlo tutto. –
Non mi importava che andasse lento o veloce. Odiavo ricevere tutto quel liquido in me e trattenerlo a lungo; odiavo vedere la mia pancia gonfiarsi in modo innaturale. Eppure gli avevo chiesto io stessa di farmelo.
Dall’odore avevo capito che le sacche erano ricolme di una soluzione con molto sapone e molta glicerina: una mistura micidiale; in poco tempo sarei stata in preda ai crampi.
Lui si avvicinò al fondo della tavola; immerse un paio di dita nel barattolo della vaselina e cominciò a lubrificarmi l’ano.
Mi piaceva sentire le sue dita entrare, uscire e spingere fino in fondo; guardai nello specchio: mi piaceva vederlo giocare con il mio culetto. Prese la cannula e mi guardò nuovamente negli occhi.
Sapevo che dovevo pregarlo di infilarmela dentro, e lo feci, anche se con la morte nel cuore.
Chiusi gli occhi sentendo la lunga cannula entrare nel mio intestino e trattenei il fiato nel momento in cui, nel mio ano, passò il palloncino sgonfio. A quel punto riflettei che oltre al clistere vero e proprio, odiavo anche il momento del gonfiaggio del pallone interno; ma non potevo farci niente; potei soltanto frignare mentre lo sentivo gonfiarsi dentro di me.
– Silenzio, – mi ordinò subito – prendi la tua giusta punizione come deve fare una brava schiava. –
Dopo che ebbe gonfiato anche il palloncino esterno, il mio culo era sigillato ed a prova di qualsiasi fuoriuscita. L’odiato clistere poteva cominciare, ma mancava ancora una cosa:
– Padrone, ora sono pronta. Riempimi più che puoi senza ascoltare le mie lamentele, ti prego. Vorrei che gonfiassi anche me, come quei palloncini per punirmi e soprattutto per dimostrarti quanto mi dispiace. – singhiozzavo, ma riuscì a fare tutto il discorso così come l’avevo pensato.
Non ci fu bisogno di dire altro. Lui aprì il rubinetto ed io sentì subito il liquido caldo cominciare a scorrere lentamente dentro di me.
Anche se non volevo, lo sguardo mi andava costantemente verso sacca piena d’acqua. Mi sembrava che non si svuotasse di una goccia mentre al contrario la mia pancia si riempiva sempre più.
Era una sacca da tre litri; impiegai almeno venti minuti a prenderla tutta. La guardavo sgonfiarsi con una lentezza estrema mentre avevo la penosa consapevolezza di ogni goccia che mi entrava dentro.
La glicerina ed il sapone cominciarono fin troppo presto a produrre il loro effetto: i crampi, sempre più ravvicinati mi facevano contrarre la pancia; e non avevo neanche il conforto di potermela massaggiare.
Finalmente, la prima sacca si svuotò. Lui mi si avvicinò, mi carezzò la pancia che cominciava a dare segni visibili del suo riempimento e mi baciò sui capezzoli martoriati provocandomi una nuova ondata di doloroso piacere. Scollegò il tubo dal rubinetto della cannula e collegò l’altra sacca riaprendolo subito dopo.
Questa volta il deflusso fu molto più rapido: sentivo il liquido scorrere in me come da una cascata. Vedevo, letteralmente, la mia pancia gonfiarsi man mano che la sacca mi si svuotava dentro. Il dolore era talmente forte che non sentivo più l’alternarsi dei crampi: era tutto un unico, perfido spasmo.
Finalmente, la sacca si svuotò. Avevo quasi sei litri di acqua, sapone e glicerina nella pancia. Mi guardai nello specchio mentre Lui mi liberava da tutte le legature: ero brutta; spettinata; disfatta; gli occhi gonfi dal pianto e soprattutto avevo una pancia ingrossata da far paura. Ero incinta di almeno otto mesi.
Per un attimo sperai che fosse finita; che mi avrebbe mandato in bagno a svuotarmi, ma non fu così.
– Accosciati e masturbati – mi ordinò mentre mi obbligava a stare nell’angolo – e non aver paura di perderti niente: i palloni gonfiati, che hai dentro e fuori, ti impediranno di combinare qualsiasi guaio. La prossima volta che ti verrà voglia di masturbarti senza permesso, ricordati di oggi; vedrai come ti si raffredderanno tutti i bollori. –
Ubbidì. Che altro potevo fare? Accosciarmi fu oltremodo difficile: appena provavo a chinarmi, l’acqua che era in me si muoveva dandomi la sensazione di sbandare. La cosa peggiore, comunque, fu il dovermi masturbare davanti a lui. La mia fica era tutta un dolore e l’ultima cosa che volevo era di accarezzarmela; eppure lo feci. Lui me lo aveva ordinato.
Impiegai parecchio tempo per arrivare all’orgasmo: il mio corpo, gonfio e dolente non ne voleva sapere di rispondere alle mie carezze. Mi venne in soccorso, per fortuna, uno sguardo che lanciai, distrattamente, ai suoi pantaloni. Con gioia mi accorsi che la patta dei suoi pantaloni era tesa come la mia pancia: era un randello enorme quello che sicuramente mi aspettava in premio per tutte le sofferenze patite. Soltanto l’idea mi eccitò al punto da farmi dimenticare tutto il dolore che provavo ogni volta che mi toccavo tra le cosce: finalmente godetti.
Appena si rese conto che mi ero ripresa, mi posò una mano sulla nuca facendo in modo che passassi dalla posizione accosciata a quella carponi.
Non ci potevo credere: si stava togliendo i pantaloni; voleva prendermi prima di mandarmi in bagno. Il suo membro era gonfio come non lo avevo mai visto: un vero mostro.
Anche in questo, però, mi sbagliavo, almeno in parte. Mai e poi mai avrei immaginato che la mia punizione si sarebbe conclusa nel modo che poi avvenne.
– Ora ti sgonfio i palloni e ti tolgo la cannula: se non vuoi che ricominci esattamente da ove ho cominciato qualche ora fa, ti consiglio di non farti uscire neanche una goccia d’acqua: chiaro? –
Grugnii e gemei mentre serravo allo spasimo i muscoli del retto; impedire alla massa d’acqua che allagava i miei intestini di farsi strada verso l’esterno fu un’impresa improba, soprattutto quando sentì qualcosa di fresco toccarmi l’ano.
In un attimo, con terrore, capii che mi stava lubrificando con la vaselina.
Oh dio, no! Vuole mettermi quel mostro nel culo.
Un grido; un dolore atroce e mi ritrovai letteralmente impalata.
Cominciò a muoversi pompando come un forsennato mentre l’acqua mi sciaguattava nella pancia.
Fu una vera e propria corsa all’ultimo respiro. Il mio bisogno di svuotarmi era incontrollabile. L’unica cosa che mi impediva i farmela addosso era quel palo che faceva avanti e dietro nei miei intestini. Capivo che era eccitato al massimo eppure non dava alcun cenno di essere prossimo all’orgasmo.
Finalmente mi si aggrappò alle le tette e, strizzandomele fino a farmi uscire le ultime lacrime, dette gli ultimi colpi di reni con cui mi entrò dentro fino al limite del possibile: fu allora che ricevetti il mio ultimo clistere: un clistere di sperma.
Neanche io sapevo veramente se le lacrime che rigavano il mio volto fossero di gioia o di dolore quando mi fece rialzare rimanendo comunque piantato nel mio povero culetto.
Mi baciò sul collo carezzandomi le tette martoriate.
Lentamente, camminando appiccicati, una avanti all’altro, mi condusse sulla tazza del cesso.
Mi svuotai e fu un piacere enorme, anche perché, proprio mentre davo il via alla prima cascata d’acqua, lui mi tolse i dolorosissimi morsetti dai capezzoli. Fu un momento di gioia pura.
Impiegai parecchio tempo per svuotarmi definitivamente. Mi aveva lasciata sola risparmiandomi l’imbarazzo di farmi vedere mentre dovevo correre nuovamente sulla tazza del cesso ogni volta che mi stavo lavando pensando di aver finito.
Lo raggiunsi in camera da letto. Sul tavolo della toilette c’era una bottiglia di spumante nel secchiello del ghiaccio e due bicchieri.
Brindammo al mio perdono e cominciammo a giocare dandoci reciprocamente piacere.
Ero di nuovo docile, ubbidiente e servizievole come deve essere una brava schiava, ma dentro di me, sapevo che non sarebbe durato a lungo: potrà sembrare incredibile, ma già mi mancavano le sculacciate, i morsetti e… tutto il resto.
Sperando che il racconto sia piaciuto, ringrazio in anticipo coloro che vorranno scrivermi per critiche, commenti e suggerimenti. FINE