La hall era deserta a quell’ora di notte. Dal banco della reception, il ragazzo che l’aveva accolta quel pomeriggio la salutò con un sorriso e fece per prendere la chiave della sua stanza. “Salgo più tardi”, lo fermò Valentina. La saletta del piano-bar si intravedeva appena, al di là della porta ad arco, buia e immobile come il resto dell’albergo. Forse il servizio era già chiuso, pensò e avrebbe dovuto accontentarsi di un Campari preso dal frigo bar, nella solitudine della sua camera. Degna conclusione di una giornata estenuante sotto tutti i punti di vista, passata a ridere alle battute cretine di sconosciuti convinti di esserle simpatici e a dimostrarsi entusiasta di rivedere gente dimenticata da anni. Un matrimonio. Il matrimonio di Paola, la sua migliore amica all’università, quella fidanzata con lo stesso ragazzo da quando aveva quindici anni e che per lui si era trasferita a quattrocento chilometri da casa, rinunciando ad un promettente futuro come interprete internazionale. Forse aveva fatto bene. Forse anche lei avrebbe dovuto fare la stessa cosa quando Claudio le aveva chiesto di sposarla, invece di fuggire come una bimbetta spaventata di fronte al mondo degli adulti.
Si fermò sulla soglia della saletta. Sentiva la moquette affondare leggermente sotto i tacchi a spillo ed ebbe voglia di togliersi le scarpe e di camminare scalza su quel tappeto caldo, di un rosso così cupo da confondersi col legno scuro dei tavolini. Non c’era nessuno dietro al bancone, ma la luce soffusa dei faretti illuminava ancora le file di bottiglie e di bicchieri, riflettendosi sull’acciaio delle rifiniture. C’era ancora tempo per un drink, prima che il cameriere le augurasse gentilmente la buonanotte: dopotutto non erano ancora le due ed i clienti insonni non dovevano essere poi così rari. Guardò i tavolini immersi nell’oscurità, resa rossastra dalla moquette e decise che non si sarebbe seduta da sola in quel silenzio. Meglio il bancone, anche se lo sgabello sarebbe stato un po’ scomodo. Si sfilò le scarpe e percorse in punta di piedi il tratto di moquette che la separava dal bancone, intimamente divertita da quel suo gesto informale in un ambiente tanto elegante. “C’è nessuno? “, chiamò. Silenzio. Accavallò una gamba sullo sgabello alla sua destra e vi si sedette di traverso, incurante della gonna che le sia era sollevata fino all’inguine, scoprendo il pizzo delle autoreggenti. Rimase sorpresa di incontrare il proprio sguardo riflesso nello specchio, tra il vetro dei bicchieri e le etichette dei liquori. I capelli castano chiaro sembravano biondi sotto la luce dorata dei faretti ed il rossetto color ciliegia produceva un contrasto strano e sensuale con il pallore del suo incarnato. Valentina si pizzicò le guance – come Rossella òHara, pensò tra sé – e si aggiustò i capelli, dai quali la messa in piega del mattino era scomparsa quasi del tutto. Si sentiva stanca, ma sapeva che se avesse cercato di dormire non ci sarebbe riuscita. Non dopo quella giornata. Non con tutti i pensieri, i ricordi ed i rimorsi che il matrimonio di Paola le aveva fatto tornare.
“Desidera qualcosa? “. Sotto l’arco d’ingresso, il ragazzo della reception sembrava dubbioso se entrare o no. “Il bar sarebbe chiuso, a quest’ora, ma se è solo per un drink posso pensarci io”. Valentina sussultò e scese dallo sgabello, ricomponendosi come poté. “Oh, grazie”, disse, mentre cercava di infilarsi la scarpa sinistra senza dare troppo nell’occhio. “Un gin lemon, per favore”. Il ragazzo sembrava a suo agio tra le bottiglie: forse aveva fatto il barista anche lui, magari proprio in quell’albergo e l’impiego alla reception era stato un avanzamento di carriera. “Se desidera qualcos’altro, mi chiami”, le disse quando il drink fu pronto. Uscì. Valentina rimase in piedi, appoggiata al bancone e guardò la sala che, ora, per effetto dell’abitudine all’oscurità, le appariva meno buia di prima.
Fu allora che si accorse dell’uomo seduto al pianoforte. Benché la sua figura risultasse poco meno indistinta di un’ombra, Valentina ne percepì lo sguardo, intenso, indiscreto, arrogante, aderente al suo corpo come una mano che non volesse lasciarla andare. Improvvisamente divenne consapevole del suo abbigliamento succinto, dell’ abitino nero scollato che le fasciava i fianchi e si fermava molto al di sopra del ginocchio, delle calze che le erano scese di qualche centimetro lungo la coscia lasciando intravedere la pelle candida, stretta dall’alta fascia di pizzo nero. Claudio, il suo ex, andava matto per quel tipo di abbigliamento e più di una volta l’aveva presa così, senza neppure spogliarla, semplicemente perché lo eccitava. Le mancava Claudio. Soprattutto fisicamente, doveva ammetterlo. Solo in quel momento Valentina si rese conto che, durante tutta la giornata, non aveva fatto che pensare a lui, al modo che aveva di sedurla, di prenderla, riuscendo ogni volta a farla impazzire di piacere. Se solo fosse stato lì, in quel momento.
“Vieni qui”. L’uomo aveva usato un tono normale, né dolce, né perentorio; ma c’era qualcosa nel modo in cui aveva pronunciato quelle due parole che non ammetteva repliche. Valentina si staccò dal bancone e mosse qualche passo verso il pianoforte; quando fu a metà strada, si fermò. “Ho detto: vieni qui”. Questa volta era chiaro che non si trattava di una richiesta, ma di un ordine. “Ci conosciamo? “, sussurrò Valentina. L’uomo non rispose. Il suo ordine veniva prima di ogni altra domanda, prima di ogni curiosità, esitazione, timore. “Vieni qui”. Valentina ubbidì.
Era davanti a lui, adesso, a pochi centimetri dalle sue gambe appena divaricate e dalle mani robuste, che massaggiavano pigramente le ginocchia forti. Visto da vicino, l’uomo non dimostrava più di quarantacinque anni ed era piuttosto attraente. I capelli cortissimi e brizzolati risaltavano contro la carnagione scura e richiamavano con insolita armonia il colore grigio azzurro degli occhi. Valentina si chiese se fosse davvero possibile in natura avere occhi tanto chiari, o se non si trattasse invece di lenti a contatto. “Come ti chiami? “, domandò lui, senza smettere di guardarla. “Valentina”. La voce le era uscita spezzata, forse per la stanchezza; più probabilmente per l’emozione. “Valentina”, lo sentì ripetere. “Valentina”, disse ancora appoggiandole le mani sui fianchi. La attirò a sé e la fece sedere sulle sue ginocchia. Valentina sentì il suo sguardo grigio sfiorarle le labbra, la gola ed il seno sodo, carezzarle le spalle semiscoperte e tornare ad immergersi nei suoi occhi. Sentì che il cuore cominciava a batterle forte e a stento riuscì a controllare il respiro, che avvertiva sempre più affannoso. Ma che stava facendo? Aveva ubbidito al richiamo di quello sconosciuto come un cane col padrone, ed ora sedeva sulle sue ginocchia, eccitata come una vergine, lasciando che quelle mani estranee la toccassero e che quegli occhi ipnotici la esplorassero. Si sentiva umida sotto la stoffa sottile del perizoma ed ebbe voglia di toccarsi. “Sì, toccati”, la prevenne lui facendola alzare. “Fammi vedere quanto sei eccitata”. Le sollevò il vestito fino alla vita, scoprendo il perizoma nero ed i fianchi rotondi che non smetteva di accarezzare. “Toccati, troia”. Valentina divaricò le cosce e con la destra scostò la stoffa che le ricopriva il sesso. Sentiva il clitoride pulsare sotto la peluria chiara e le bastò sfiorarlo per sentirlo turgido come un frutto maturo. Gemette. Fece scorrere il medio lungo le grandi labbra, le divaricò con le altre dita e raggiunse la fessura già aperta e bagnata. L’uomo sorrise e la costrinse ad allargare le cosce al massimo, attirandola di nuovo verso di sé. “Sei una troia in calore”, sussurrò. Le sue labbra erano adesso vicinissime al monte di Venere e Valentina sentiva il suo alito sfiorarle il clitoride e posarsi sulla carne umida della vagina. Con un gemito si penetrò: prima un dito, poi due, infine tre. Si frugava come fosse stata in preda ad un prurito insopportabile e intanto gemeva e si agitava, strofinando le natiche contro le gambe di lui, tenendosi stretta al suo collo con la sinistra e masturbandosi con la destra. Venne, con un grido strozzato per non farsi sentire, pur sapendo che dalla hall si sentiva ogni cosa e si lascio cadere tra le braccia dell’uomo, sudata e ansimante. Cercò le sue labbra, vogliosa del bacio che ancora non si erano dati, ma lui si stava già alzando e, così facendo, la costringeva a scendere dalle sue ginocchia. Adesso era in piedi davanti a lei, alto e imponente, e la guardava con un misto di compiacimento ed ironia. Con un gesto deciso le abbassò il vestito, scoprendole il seno. “Girati”, disse. Valentina lo sentiva ora dietro di sé, il suo fiato sul collo, le sue mani che le stringevano i seni fino a farle male, il membro eccitato che premeva esigente contro le sue natiche. “Ti piace ubbidire, vero troia? “. Sì, le piaceva, le era sempre piaciuto. Anche con Claudio aveva spesso giocato a schiava e padrone, ma un po’ per pudore, un po’ per la paura di apparirgli troppo bizzarra, non gli aveva mai chiesto di spingersi oltre i soliti giochi a base di corde e bende. Claudio non l’aveva mai realmente sottomessa. Non l’aveva mai umiliata; e l’amava troppo per usare con lei un linguaggio volgare. “Sei una cagna in cerca di un padrone, vero? “, sussurrò l’uomo alle sue spalle. “Dillo cosa sei, dai, dillo che sei una cagna! “. Valentina sentì che cominciava ad eccitarsi di nuovo. “Sono una cagna”, mugolò.
“Più forte”, disse lui.
“Sono una cagna! “, ripeté.
“Sono una cagna, Padrone! “, gridò l’uomo.
“Sono…una cagna…Padrone! ”
“Guarda che se non gridi come si deve ti faccio gridare io a suon di sculacciate, lo sai troia? Grida! ”
“SONO UNA CAGNA PADRONE! “. La sua voce risuonò acuta nella sala deserta e rimbombò nella hall. “Adesso ci hanno sentiti e verranno a buttarci fuori”, disse, ormai rassegnata all’idea della figuraccia che stava per fare davanti al personale dell’albergo. “Lasciami, dai. Vediamo di non peggiorare le cose”.
Lo schiaffo giunse fulmineo, doloroso come una sferzata. L’uomo l’aveva fatta voltare e l’aveva schiaffeggiata due volte, senza lasciarle il tempo di reagire. “Parlami ancora in questo modo e ti frusto fino a farti svenire! “. Valentina vide il suo sguardo gelido e capì che non stava scherzando. è quello che volevi, si disse. è questo che stai aspettando da sempre. A quel pensiero si sentì invadere da una strana, dolorosa dolcezza. Era giusto così: si era meritata quegli schiaffi e adesso era suo dovere ottenere perdono; e col perdono l’amore e se non l’amore, almeno la considerazione di quell’uomo che sembrava conoscerla così intimamente. Con un sorriso di gratitudine, Valentina si lasciò cadere ai piedi dell’uomo. “Perdonami, Padrone”. L’uomo rimase a guardarla, alto sopra di lei, serio, ma non più adirato. Lo sguardo rivolto a terra, Valentina sentì la mano che l’aveva appena picchiata accarezzarle i capelli, mentre la voce calda del Padrone le ripeteva: “Brava, Valentina. Brava. ” Alzò lo sguardo verso quella mano ed il volto sopra di essa e si sentì felice. A pochi centimetri dai suoi occhi, il membro teso dell’uomo premeva contro la stoffa dei pantaloni, impaziente d’uscire. Valentina si sedette sui talloni, alla maniera giapponese e, con dolcezza, cominciò a slacciare la cintura di cuoio. La mano dell’uomo continuava ad accarezzarle i capelli, tenera e violenta, una mano capace di punire e di premiare, di infliggere dolore e di donare piacere.
Il membro dell’uomo era grosso e piuttosto lungo. Valentina lo baciò delicatamente, sulla punta, poi si fermò. Le piaceva guardarlo, annusarlo, sentirlo contro la pelle del viso. Se lo fece scorrere sulle labbra chiuse, contro le guance, sulle palpebre e ancora sulla labbra, questa volta aperte, sulla lingua, sul collo e ancora sulla lingua. “Succhialo”, disse lui. E Valentina succhiò, avida, gemendo di piacere, mentre la sua mano tornava ad immergersi tra le cosce, portandola all’orgasmo per due volte prima che lui venisse. Un attimo prima che il fiotto di sperma denso e caldissimo le inondasse la bocca, Valentina sentì la mano di lui afferrarle i capelli, facendole male. “Ingoialo, troia”, lo sentì rantolare; e fece come lui le ordinava. Bevve, fino all’ultima goccia, reprimendo la leggera nausea che sempre le provocava quel liquido dolciastro; bevve e quando ebbe finito si leccò le labbra. Alzò lo sguardo, cercando nel volto dell’uomo quel perdono che le sue labbra e la sua lingua avevano appena implorato. Ma lui non la stava guardando; sembrava interessato a qualcosa al di sopra e oltre di lei, qualcosa che pareva incuriosirlo e divertirlo.
“Antonio”, lo sentì dire. Alle sue spalle avvertì un fruscio lieve, come di passi sulla moquette.
“Posso fare qualcosa, prima di ritirarmi, signori? “. Era la voce del ragazzo della reception. Valentina si sentì avvampare. Avrebbe voluto alzarsi, riaggiustare in fretta i propri abiti e correre a rifugiarsi nella sua stanza, dimenticandosi di tutto. Se solo la stretta di quella mano sui suoi capelli non fosse stata così forte; se solo quel membro che si era appena liberato dentro di lei non avesse ripreso ad inturgidirsi contro le sue labbra; se solo la voce di quell’uomo non fosse stata così calda…
“Certo che puoi fare qualcosa”, disse l’uomo. “Tra le tue mansioni rientrano anche compiti di tipo, come dire, ispettivo, no? ”
“Talvolta”. Valentina si chiese se fosse tutta una messa in scena già preparata tra loro. Se quei due uomini non fossero addirittura abituati a fare quel gioco con tutte le clienti sole e disponibili. In quella semplice parola, “talvolta”, e nel modo in cui il ragazzo l’aveva pronunciata, scandendone le sillabe con studiata lentezza, si avvertiva la lucida consapevolezza di una complicità di vecchia data.
“Mi hanno detto che esegui ispezioni particolarmente accurate, Antonio”, continuò l’uomo. “Ti piace andare a fondo nelle cose, non è così? ”
La risposta fu il rumore inconfondibile di una cerniera che veniva abbassata. Valentina chiuse gli occhi. Tutto quanto, in quel momento, la sala immersa nell’oscurità, i due uomini, le loro voci, le poche parole che si erano scambiati, tutto quanto giungeva ai suoi sensi avvolto da un alone di irrealtà. Stava vivendo un sogno, una fantasia erotica dalle tinte particolarmente vivide. Le mani del ragazzo si posarono sui suoi fianchi, grandi, calde, forti: con una lieve pressione la fece alzare, continuando a carezzarle il bacino, le natiche, il ventre, fino a spingersi tra le sue cosce, senza mai sfiorarle il sesso. Ora Valentina era in piedi e l’uomo che l’aveva picchiata se ne stava di fronte a lei, il membro eretto, le labbra carnose contratte in un’espressione severa, lo sguardo impassibile. Sentì che si stava eccitando di nuovo; la sua vagina reagiva a quello sguardo con la docilità di un animale ammaestrato, bagnandosi, aprendosi, dilatandosi come per effetto di una penetrazione invisibile. Gemette quando il membro si fece strada tra le sue natiche, sfiorandole lo sfintere, per poi immergersi con forza nel suo sesso. Il ragazzo la fece chinare in avanti, reggendola per la vita e la penetrò di nuovo, strappandole un lamento e cominciò a fotterla con violenza. “è grosso…”, mugolò Valentina. “è così grosso…”. E grosso lo era davvero: la dilatava fino a farle male, aderendo alle pareti della vagina come un dito in un guanto da chirurgo, strofinando ogni millimetro di carne fino a farlo esplodere di piacere. Avrebbe voluto appoggiarsi contro qualcosa, aggrapparsi ad un mobile, ad una tenda, all’uomo che la guardava in silenzio, mordere un cuscino o qualsiasi altra cosa, pur di attenuare quel godimento incessante. “Scopala”, leggeva sulle labbra dell’uomo senza sentirlo. “Scopa quella troia. Scopala fino a farla morire”. Valentina gridò e gridò ancora, dimenandosi sotto la stretta d’acciaio di quelle mani dall’apparenza tanto gentile. Gridò ad ogni colpo dello scroto contro le sue natiche, ad ogni penetrazione che la sondava fino al collo dell’utero; ma si zittì quando arrivò la prima sculacciata. Non se l’era aspettata. Soprattutto non si era aspettata che le piacesse. La mano del ragazzo la batteva ritmicamente, con sempre maggior forza, mentre con l’altra continuava a tenerla per la vita. Al settimo colpo godette, con le natiche che le bruciavano come fossero state marchiate a fuoco, mentre il palmo continuava ad abbattersi su di lei senza volersi fermare. Poi si sentì inondare dal liquido rovente e copioso, denso e dolce come una crema, una lozione lenitiva per il suo sesso sfinito.
La stretta attorno alla sua vita si allentò e le gambe le cedettero.
“Alzati”. L’uomo le stava ora così vicino, che Valentina riusciva a vedere soltanto le sue gambe, fasciate dai pantaloni scuri, appena divaricate in una posa da militare. “Sei ancora troppo vestita, troia. Alzati e spogliati”.
Valentina si sollevò da terra, appoggiandosi allo schienale di una sedia e cercò la lampo del vestito con le mani, inarcando la schiena per riuscire a raggiungerla. L’abito scivolò lungo il suo corpo e si raccolse ai suoi piedi, lasciandola nuda, fatta eccezione per il perizoma nero e le autoreggenti. Lentamente, si liberò del perizoma, lasciandolo a terra accanto al vestito; poi cominciò a sfilarsi le calze.
“No. Quelle lasciale”. Valentina colse una nota di emozione nella sua voce, un incrinatura che non si sarebbe aspettata. Guardò il suo membro e ne provò paura: quell’uomo la desiderava, di un desiderio violento, spietato, feroce. Le avrebbe fatto male, l’avrebbe usata senza curarsi delle sue proteste, l’avrebbe violentata e punita se avesse fatto resistenza. E questo per tutta la notte, ora dopo ora, da solo o con la servitù – Antonio era davvero il suo unico complice in quel gioco? – esigendo da lei soltanto sottomissione. La dolcezza che già un momento prima l’aveva indotta a chiedere perdono al suo padrone, s’impadronì nuovamente di lei, allontanando ogni resistenza, ogni timore che non fosse di stimolo al piacere.
“Chi sei? “, domandò in un sussurro.
“Ha importanza? “, disse lui.
“Io ti amo”
“Tu hai bisogno di me. è diverso”. Il membro eretto, duro e sfacciato, era puntato verso il suo sesso; e Valentina credette per un attimo che quella voce provenisse da lì, da quella carne pulsante che presto l’avrebbe riempita fino a farla gridare.
“Voglio essere tua”, disse.
“Tu sei già mia. Lo eri ancora prima di questa sera”. La stava stringendo ora, premendole la verga contro l’inguine, mentre la sua lingua le spalancava le labbra e cominciava a sondarla. Valentina cercò il membro con la mano e lo afferrò. Lo voleva dentro, ma lui non faceva nulla per aiutarla. Sembrava completamente assorbito da quel bacio: la succhiava, leccava, mordeva, mentre le sue mani si stringevano sulle sue natiche ancora indolenzite, fino a farle male, insinuandosi nel solco tra di esse, premendole con le dita sullo sfintere palpitante.
“Girati”, disse, dopo quella che le era sembrata un’eternità.
Valentina si girò, appoggiandosi al suo petto e mugolò di piacere quando le sue mani le afferrarono i seni, come in una morsa, e presero a farli ruotare. “Te lo metto nel culo, porca”, le diceva mentre le sue mani continuavano a stringere e a girare, schiacciandole i capezzoli turgidi contro la carne sudata. “Ti sfondo il culo e non me ne frega se ti fa male”. Valentina ansimava, sentendosi il clitoride sul punto di scoppiare. Si fece scendere la destra lungo il ventre e raggiunse il piccolo bottone di carne, sentendolo duro, quasi dolorante, sotto le dita. Allora sentì una mano chiudersi sul suo polso, strattonandole il braccio e costringendola a sollevarlo al di sopra della testa.
“Col culo, troia. Voglio vederti godere col culo e non con quella tua fichetta bagnata! Chiaro? “. Valentina annuì con un gemito.
“CHIARO? ? ? ”
“Sì…”, rantolò, “sì, Padrone…ma…”
Aveva paura. Era la prima volta che veniva sodomizzata e non era sicura che le sarebbe piaciuto. Avrebbe sentito dolore, forse le si sarebbe lacerata la carne, sarebbe svenuta; e sapeva che quell’uomo non si sarebbe lasciato commuovere dai suoi lamenti.
“Niente ma, bambina! “, tuonò la voce alle sue spalle. “Vuoi essere punita? Vuoi che sostituisca la frusta alle sculacciate, visto che sei tanto porca da godere quando ti battono il culo? “. E dicendo questo le assestò una energica sculacciata sulla natica destra. “A quattro zampe: subito! ”
Valentina si chinò e fece come le veniva ordinato. Aveva paura, ma questo non faceva che esasperare la sua eccitazione: sentiva gocce di umore scivolare dalle profondità del suo sesso e carezzarle le cosce.
Le mani dell’uomo l’afferrarono per i fianchi, costringendola ad arcuare la schiena. “Dammi il culo, troia…”. La sua voce era poco più di un sussurrò rabbioso. Valentina chiuse gli occhi e si preparò al dolore.
Rimase sorpresa quando sentì le labbra dell’uomo posarsi sul suo sfintere e cominciare a succhiarlo. Fu percorsa da un brivido e mugolò di piacere. Ora lui le stava percorrendo il contorno del piccolo buco con la lingua, umettandolo e tamburellandolo allo stesso tempo. La penetrò, continuando a solleticarla all’interno, come all’esterno, spingendo la lingua sempre più a fondo, finche non ebbe la testa completamente immersa tra le sue natiche. “Non godere”, sussurrò. E questa volta c’era dolcezza nella sua voce. “Ti piace, Valentina. Ti piace…”. E s’immerse di nuovo con la lingua. Valentina credette di impazzire. Si sentiva il buco del culo, gonfio ormai come il suo clitoride, aprirsi e chiudersi in preda agli spasmi, voglioso di godere; ma quell’uomo non glielo permetteva e, se lei non fosse stata capace di resistere, era certa che l’avrebbe punita. In quel momento capì che la dolcezza di quel bacio non aveva altro scopo che quello di torturarla ancora, di portarla alla soglia dell’orgasmo, senza permetterle di varcarla. “Non ce la faccio…”, piagnucolò. Ma lui continuava. “Ti piace, porcellina…ti piace farti leccare il buco del culo, eh? Ci godi…ci godi…”. Sussurrava ed il suo alito caldo, umido come un bacio le solleticava la pelle. Valentina strinse le palpebre con tutte le sue forze, cercando di non pensare a nulla.
Poi gridò. Il membro dell’uomo l’aveva penetrata all’improvviso, entrando fino a metà, per poi uscire quasi del tutto e tornare a penetrarla più a fondo. “Che effetto ti fa, porca? “, lo sentì ringhiare. “Dimmi che cosa senti, puttanella schizzinosa. Non lo volevi, ma adesso ti piace, eh? Ti piace il cazzo in culo, ti piace farti sfondare come una troia! ”
Le piaceva. Nonostante lo strazio del dolore, nonostante le lacrime che avevano preso a rigarle le guance, nonostante si sentisse le viscere in fiamme. Godeva di quell’uomo violento che le imponeva la sua forza, assoggettandola al suo volere. Godeva dell’umiliazione, delle parole scurrili, del sarcasmo cattivo con cui lui la incitava. Domata, sottomessa, vinta: in quel momento avrebbe accettato di tutto da quell’uomo pur di essere ancora sua schiava. Voleva gridargli che lo amava, che era sua, che sarebbe stata disposta a farsi uccidere per lui; ma nel parossismo di quel godimento folle e sofferente, la sua bocca riusciva a produrre solo suoni gutturali e inarticolati. “Ggggg… ggodo… aaahhhhh… ggggo.. “. L’orgasmo cominciava a montarle da dietro, crescendo a poco a poco attorno al suo sfintere, lambendole il perineo e la vagina come una lingua rovente. “Godo col culo! “, gemette. E nel suo tono vi era tutta la meraviglia e la gioia di una bambina che per la prima volta assaggi un pezzo di cioccolato, senza averne mai sospettata la bontà.
Venne, dibattendosi sul pavimento, gridando il suo piacere a tutto l’albergo, mentre il seme dell’uomo le inondava le viscere come un fiume in piena.
“Quanto sei porca”, disse lui, alzandosi bruscamente. “Un’altra al posto tuo sarebbe già svenuta. Non c’è nemmeno gusto a violentarti! “. Sembrava arrabbiato per davvero. Valentina si voltò a guardarlo, appoggiata su un fianco, mentre il sudore le si andava asciugando sulla pelle facendola rabbrividire. Sul suo viso, il languore del godimento appena provato si fondeva con un’espressione di supplica. “Non arrabbiarti, ti prego”, sussurrò. “Ti amo. Sei tutto ciò che ho sempre desiderato, nel profondo di me stessa, senza avere mai il coraggio di ammetterlo. Non stancarti di me, ti prego…”. Fece per alzarsi, ma non ci riuscì. Così rimase a terra, sul fianco, in attesa. Si ricordò allora del ragazzo della reception e si domandò se se ne fosse andato o se fosse rimasto lì ad assistere alla loro copula. La eccitava l’idea che qualcuno avesse assistito alla sua prima esperienza di sodomia; la faceva sentire ancora più succube, svilita al ruolo di oggetto di piacere non solo per l’uomo che la prendeva, ma anche per altri, che di lei godevano e che avrebbero voluto possederla a loro volta. La puttana di tutti. Quel pensiero da solo era sufficiente a farla bagnare di nuovo, accelerandole il respiro.
“Voglio essere la tua puttana”, disse.
L’uomo, che fino a quel momento le aveva voltato le spalle, si voltò a guardarla. Il suo volto era serio, pensieroso. “Non sai cosa ti aspetta”, disse.
“Ti prego. Lasciami essere la tua schiava. Non ti chiederò nulla; solo di non dimenticarti di me. Sei il mio Padrone: fai di me ciò che vuoi”. Aveva parlato con dolcezza, lo sguardo luminoso, pieno di aspettativa.
Il Padrone era sopra di lei, ora, e le tendeva la mano per aiutarla ad alzarsi. La accolse tra le braccia e la baciò a lungo. “Davvero non sai cosa ti aspetta, bambina”, ripeté. Valentina sorrise e si strinse a lui.
“Ti amo”, disse.
La superficie smaltata del pianoforte a coda era fredda contro la sua schiena. Le corde che le legavano le caviglie, divaricandole le gambe fino ai bordi dello strumento, cominciavano a segarle la pelle. Vedeva i suoi seni sollevarsi e abbassarsi, mantenuti tesi da una terza corda che le legava i polsi sopra la testa. Aveva paura: non si era mai sentita tanto esposta, vulnerabile, aperta.
Antonio l’aveva legata a quel modo per ordine del Padrone; poi, si era assentato per una decina di minuti. Quando era tornato non era solo: lo seguivano una mezza dozzina di uomini e tre donne, tutti vestiti come per una serata di gala o per una prima a teatro. Valentina non riusciva a vederli bene in volto, ma li sentiva ridere e parlare tra di loro in un cicaleccio incomprensibile. Quando furono entrati tutti e si furono sistemati ai tavolini, Valentina udì il Padrone chiedere silenzio, con il tono di chi è abituato a pretendere ed ottenere l’attenzione di una platea. Lo sentiva dietro di sé, accanto all’estremità più stretta del pianoforte, vicinissimo ai suoi polsi immobilizzati dalla corda.
“Benvenuti, signori”, lo sentì dire. “Sono felice di avervi qui questa sera, a distanza di appena un mese dall’ultima volta”. Brusio di voci in segno di ringraziamento. “Non voglio perdermi in premesse che reputo inutili. Anche perché immagino che ciascuno di voi sarà impaziente di dare il proprio contributo all’educazione di questa signorina, con le modalità che riterrà più opportune”. Ancora brusio di voci che manifestavano il loro consenso. “Prima di cominciare, signori, vorrei ricordarvi un paio di aspetti del regolamento ai quali vi prego di attenervi scrupolosamente. Primo: dal momento che l’addestramento di una schiava è diretto ad abituarla alla sofferenza fisica e psicologica, per il godimento del suo Padrone e di tutti coloro ai quali egli desidererà concederla, è vostro dovere evitare qualunque riguardo verso la persona e la dignità della neoschiava, usando a vostro piacimento gli strumenti che, come sempre, abbiamo messo a vostra disposizione”. Risatine e commenti sotto voce. “Secondo: l’addestramento deve protrarsi fino all’alba, qualunque cosa accada, fatto salva l’ipotesi in cui la salute della schiava subisca un danno tale da porla in pericolo di vita. Siamo qui per il nostro piacere, signori, non per ritrovarci tutti al fresco domani mattina! “. Risate. “Si dia inizio ai festeggiamenti! “.
Valentina si sentì prendere dal panico. “Padrone…”, chiamò. E allora lo vide, alla sua destra, gli occhi fissi nei suoi e un’espressione di tenerezza che gli addolciva i lineamenti. “è tardi per un ripensamento, lo sai? ”
“Sì…”
“Dopo questa notte sarai ancora più mia”
“Amore…”. Ma lui non c’era già più al suo fianco, sostituito da un uomo robusto, di media statura, vestito come un direttore d’orchestra. Nella mano dell’uomo, Valentina vide un frustino da cavallo.
Chiuse gli occhi e, a poco a poco, le sue labbra si piegarono in un sorriso di dolce rassegnazione. Solo un pensiero le riempiva la mente, come un nuovo e più caldo amplesso, cullandola nella certezza di quell’ultima promessa.
Dopo questa notte sarai ancora più mia. FINE