Sono un Master.
Non è mia intenzione nascondermi dietro ad un dito. Sono adulto e da anni, ormai, sono un Master.
La mia iniziazione risale ai tempi delle prime serie esperienze erotiche.
Lei era bella, più grande di me e adorava il sesso, quello violento, duro.
Mi chiese un giorno di prenderla dopo averla legata e il solo pensiero mi eccitò tanto che non riuscii e trattenermi e venni una prima volta mentre la legavo.
Compresi allora qual’era la mia strada.
Cominciai a chiederle sempre di più e quando capii che potevo punirla se non obbediva con prontezza ai miei ordini, il mondo del mio immenso potere si spalancò davanti a me.
Adoravo vederla in ginocchio, timorosa e tremante, ma nel profondo anelante e supplice di un mio sguardo, una mia parola.
Impazzivo solo a vedere l’effetto che faceva su di lei una mia carezza, quando bendata, in ginocchio e legata, non sapeva se e quando le avrei inflitto dolore.
Era come una droga, ogni giorno dovevo chiederle qualcosa di più, dovevo vederla muovere ancora un passo avanti nella sua sottomissione. Dovevo vederla spingersi dove nemmeno le sue più sfrenate fantasie l’avevano mai condotta.
Era un gioco che non poteva durare: le chiesi troppo. Ora lo so, ma nella mia incoscienza e nella mia inesperienza sentivo il potere di disporre di quella donna in modo totale come un diritto naturale: la semplice e lampante dimostrazione della mia superiorità.
Le chiesi troppo e la persi. Mi ringraziò per quanto le avevo insegnato (io a lei!!! ), mi giurò di amarmi ancora, ma si alzò ed andò via. Cambiò città e non l’ho più rivista.
Le chiesi troppo. Ora non potrei più fare uno sbaglio simile. Ora saprei come prenderla, come portarla dove desidero e lei mi seguirebbe senza fuggire forse timorosa ma senza paura.
No. Non fuggirebbe. Ma da allora sono passate molte donne, molte schiave, sotto le mie mani. Ora mi basta guardare una donna per sapere cosa c’è dentro lei.
Sono come uno scultore davanti ad un pezzo di marmo che sente vibrare dentro la figura che lui libererà dalla roccia. Così io guardo una donna e so come si sente dentro, so cosa sarà dopo che l’avrò resa schiava, ovvero, liberata da se stessa e resa libera di essere ciò che è. So già se dovrò combattere per vincere le sue resistenze o se, invece, sarà docile e collaborativa. E tu lettrice, ti prego, non dire che con te non riuscirei: ho visto mettersi in ginocchio davanti a me donne più ardue di una fortezza, madri e mogli fedeli.
Non è questione di bellezza, perché non sono bello, non c’entra nemmeno l’intelligenza o chissà quale altra qualità. È che a me è sempre piaciuto osservare, capire, interpretare ed è grazie a questa mia unica dote che so che ogni donna va presa in un modo diverso, non c’è tattica, non c’è proposito che si possa precostituire. Una donna è un universo unico e tu puoi bussare per l’eternità alla sua porta senza che ti venga aperto, oppure suonare le note giuste e vedere, come per incanto, schiudersi per te le porte delle sue stanze più segrete.
Non ci sono regole da seguire, oltre a quella fondamentale di seguire l’istinto. Lei è il marmo, io lo scultore. Lei è marmo, ma presto sarà creta, che io modellerò con le mie mani.
Non sempre è facile, non sempre è stato facile. E qualche fallimento c’è stato, ma pochi in vero e lo dico senza falsa modestia, senza tema di apparire presuntuoso.
Tante invece sono state le ragazze, le donne, perché l’essere schiava non è connesso con l’età e si può capire e desiderare di essere sottomesse anche a 50 anni, che sono state da me modellate e rese libere, libere di appartenermi.
In verità, per un certo periodo della mia vita quando ero giovane e bisognoso di soldi, ho fatto di questa mia dote un lavoro: ho addestrato scoperto, aperto, liberato e rese schiave, o come preferite, rese schiave e liberato, donne, per conto di uomini che riuscivano solo ad intravedere le loro potenzialità, ma che non sapevano come aiutarle ad esprimersi.
Ora non più.
È stata, per molto tempo, una ricerca quotidiana, un cercare di sorprendere uno sguardo, un atteggiamento, una frase che mi indicassero che mi ero imbattuto in una donna che attendeva di essere sottomessa.
Non che fosse facile, non si poteva mica guardare negli occhi una donna e dirle: “so che ti senti schiava”, allora ho elaborato tutta una serie di sistemi di contatto fisico che, senza sembrare spinti e salvando quindi le apparenze, stabilissero tra noi una complicità fatta di azioni, di cose non dette. Ho ben chiaro in mente a cosa mi riferisco, così come lo hai tu lettrice che mi hai seguito fin qui.
Ricordo Michela, timida, introversa, impacciata, esattamente il tipo che nei film americani è la segretaria che nessuno nota ma che nasconde un grande fuoco dentro, solo che lei era bionda, biondissima e con due grandi occhioni azzurri da perdercisi dentro; due meravigliosi occhi che è stato bellissimo vederli alzarsi più volte vinti e supplici, implorando pietà o grazia, da me, che sono stato il centro del loro universo.
Michela che aveva sempre immaginato il principe azzurro ed il cavallo bianco, scoprire da sola lentamente che non poteva fare a meno di quando, con la mia mano, bloccavo con forza il suo braccio, o di quando le prendevo i capelli dietro la nuca e li tiravo con decisione e le giravo lentamente il viso verso il mio e mi gustavo la sospensione del suo respiro in attesa di ciò che sarebbe accaduto dopo, ma che, naturalmente, non veniva.
È il mio metodo: sono le donne che devono rendersi conto di appartenermi. Non voglio schiave costrette con la forza, ma solo donne che riconoscano che solo io posso dare a loro esattamente quello che desiderano anche se loro non sanno cos’è.
Michela in ginocchio, seduta col suo culo sui talloni le ginocchia ben divaricate, mentre succhia la mia linfa e mi guarda, come a cercare la mia approvazione, temendo nel contempo, di leggerci un solo piccolo segno di fastidio: rabbrividendo al pensiero di quello che potrebbe significare.
Michela, legata, aperta sul bordo della poltrona che conta ad alta voce il numero delle frustate per non aver obbedito prontamente ad un mio desiderio (non ordine, io non ordino mai e chiedo sempre tutto per favore).
Michela, che sdraiata prona su un puff dilata con le mani le rotondità del suo culo per permettermi di usare senza difficoltà i suoi orifizi.
Michela, che ho regalato in segno di amicizia ad un mio amico di Milano, che si era innamorato di lei.
Poi la tecnologia ha fatto passi da gigante, rendendo facili gli approcci: ricordo il videotel, e Beatrice che conobbi tramite il suo schermo bicolore.
Beatrice che è stato per lungo tempo il mio piatto da portata, la mia salsiera ed il piatto per la macedonia. Beatrice, sapeva già di essere schiava, lo aveva sempre sognato e le sue fantasie erano piene di fruste e di umiliazioni, ma nemmeno nei suoi sogni più sfrenati aveva mai osato immaginare quella che era la sua vera natura.
Beatrice vestita con abiti eleganti e leggeri, che mi segue al banco della frutta al supermercato. Prende il fico che le porgo si solleva con discrezione la gonna oltre il bordo delle autoreggenti scoprendo la sua fica nuda, così come desidero vestano le mie schiave.
Beatrice, che inizia a giocare col fico, facendolo esplodere e quando i suoi umori si mischiano con la polpa, lo spinge dentro.
Beatrice che gioca con fragole , acini d’uva, banane.
Beatrice, che mi segue alle casse e poi fuori, con le cosce ben strette, consapevole che non desidero che venga disperso nemmeno una goccia dei succhi che riempiono la sua fica.
Beatrice, che appena a casa apparecchia la tavola e vi si stende sopra.
Beatrice, che attende che fissi con la cera le candele sul suo corpo.
Beatrice, che apre le gambe e mi offre la frutta macerata dai suoi umori. È quasi un frullato, ma corroborante ed erotico. Io, che cerco la frutta dentro di lei con la mia mano e poi la scopo offrendole il mio pene da succhiare perché anche lei possa bearsi del sapore aspro e dolce insieme, della frutta e della sua fica.
Beatrice, che prima di trasferirsi in Inghilterra, mi ha chiesto di marchiarla a fuoco, per portare con lei il simbolo della sua sottomissione.
Ora un altro passo avanti è stato compiuto sulla strada della comunicazione, rendendo più facile il mio lavoro di ricerca: internet permette oggi un contatto rapido fatto di chat, suoni ed immagini.
In una chat ho incontrato Roberta. È una vera schiava, con pochi limiti, consapevole del suo ruolo, disposta a sopportare qualsiasi dolore, qualsiasi umiliazione. È bello sentirsi dire, dopo averle fatto percorrere tutti i gradini della degradazione, che nulla di ciò che ha fatto lo ha sentito come un peso o come un’umiliazione.
Roberta, determinata a sopportare ogni mio capriccio, a realizzare ogni mia esigenza. Roberta, così bella quando le impongo quei dolorosissimi morsetti ai capezzoli per un tempo interminabile.
Roberta, che accetta, tremante di paura, i miei giochi e li sopporta, pervasa dal desiderio di non deludermi.
Roberta, che ricambia quanto le infliggo, con un tenerissimo ed eccitante sguardo pieno di sofferenza ed amore.
Roberta, che, col tempo, è riuscita a guadagnarsi uno spazio di confidente e complice, uno spazio d’amica.
Roberta, che porta il collare, segno distintivo della sua condizione di schiava; che si bagna ancora prima d’indossarlo; che lo esibisce quasi con orgoglio.
Internet mi ha permesso d’incontrare Animale. A lei ho dato appuntamento, la prima volta, in un cinema, naturalmente molto poco vestita: era questo l’ordine!
Con lei avevamo parlato molto, ma 500 chilometri rendono difficile qualsiasi cosa. Le nostre fantasie avevano corso lungo le linee telefoniche, così come le nostre confidenze. La grande sintonia che c’era tra noi ci portò al grande passo, lei sapeva che ero un master eppure accettò di venire vestita come le avevo ordinato.
“Entra e siediti in penultima fila, al centro, poi non muoverti qualunque cosa accada”. Questo era l’ordine.
Arrivo che il film è già iniziato, mi siedo in ultima fila, esattamente dietro a lei, riesco a percepire la sua ansia, apprezzo che, fedele alla consegna, non si volta a guardare chi è lo sconosciuto seduto dietro lei.
Mi sporgo dalla poltrona e mi avvicino al suo orecchio: “Non muoverti”, le ricordo, poi prendo una sciarpa di seta nera e la bendo.
“Porgimi le mani dietro la schiena” le dico. Un’altra sciarpa adempie il compito di legarle le mani. Lo faccio per lei: per liberarla dal bisogno di dover accennare una resistenza.
Mi alzo e vado a sedermi alla sua sinistra. Non ha detto una sola parola. Mi avvicino a lei e la saluto: “Ciao” le dico “Tutto bene? “. “Si ” mi risponde, quasi con un sospiro.
Le mie mani cominciano a prendere possesso del suo corpo, lo esplorano.
Provo la sua resistenza al dolore, ma soprattutto provo la sua capacità di accettare le mani di uno sconosciuto sul suo corpo.
Continuo a toccarla, finché non sento allentarsi la tensione e, nel contempo, salire la sua eccitazione. Allora ritiro la mano bagnata dai suoi umori, la passo sulle sue labbra, lei allunga la lingua come a succhiare le mie dita.
È tempo di toglierle la benda, dopotutto il film è carino! La sciarpa che le blocca le mani no, ancora no. Tutto deve avvenire a tempo debito.
Prima di uscire le sciolgo le mani e ci avviamo a piedi verso il suo albergo. Non è molto lontano e lungo la strada conosco un vicolo in cui non passa quasi nessuno. Una volta giunti nel posto più buio, quasi in mezzo al vicolo, dove c’è un solo portone che, per di più, rientra un po’ dalla linea del muro, la prendo per mano e la porto al riparo da sguardi occasionali, solo chi si trovasse ad entrare o uscire da quel portone potrebbe notarci.
La bacio, come per darle coraggio, poi con la solita sciarpa torno a legarle le mani dietro la schiena, all’altezza dei fianchi, questa volta forse spaventata del fatto di essere all’aperto accenna una certa resistenza, che, un pizzico in più di decisione doma subito.
Le sussurro dolcemente di inginocchiarsi e di farlo in fretta se vuole evitare punizioni.
La mia frase termina insieme al suo scendere a terra.
Offro il mio cazzo alla sua bocca, la guido con le mani finché comprende il ritmo del mio piacere, poi lascio spazio alla sua fantasia, penso solo al moltiplicarsi delle mie sensazioni alla bisogno di esploderle in bocca che cresce, cresce, fino a diventare un urgenza, fino a che, dal profondo del mio essere il mio desiderio risale il mio corpo fino a sgorgare, in una calda e densa sorgente, dentro la sua bocca.
Le do il tempo di bere e di pulire tutto con la sua lingua. Mi do il tempo di riprendermi e di essere di nuovo pronto.
Le dico di alzarsi, la prendo per le spalle e la faccio girare finché non mi mostra la schiena. Le alzo la gonna, mi godo lo spettacolo. Ora è lì piegata in avanti col culo scoperto, le gambe ben divaricate; la cosa mi eccita e la penetro energicamente tenendola con decisione per la vita. Vengo con forza una seconda volta.
Non posso dirvi in verità che Animale sia mia schiava, non ancora almeno, la sua educazione inconsapevole è ancora in corso, ma non importa, il tempo è dalla mia parte.
Anche lei, come le altre, non potrà fare a meno di desiderare di appartenermi! FINE