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Perso

Perso, con le mani dentro la tua figa.
Prima un dito, per saggiare, poi due, tre, quattro, l’intera mano.
Poi dentro fino al polso e avanti e indietro ad esplorare gli abissi del piacere e a cercare a chiedersi dov’è , a provare a rintracciare l’essenza di quel mistero che, all’interno dell’orrida fessurina, mi complica e mi risolve la vita.
A ritmi alterni.
Su e giù.
Dentro e fuori.
E ancora, ancora, ancora.
E poi le mani si spostano, scivolano a vellicare il culo ed il tuo immenso sorriso verticale si apre, quasi una risata, e mi accoglie.
Anche qui: prima un dito, poi l’altro, poi tutta la mano e stantuffo fino al polso, al ritmo dei tuoi gemiti, dei tuoi sospiri, dei tuoi sobbalzi di piacerdolore.
Infilarti ora?
No, non se ne parla.
Troppo dissaldate le due ferite per poter trovare nuovo piacere.
Baciare, baciare, baciare sempre, baciare a fondo, indagar e in punta di lingua ogni recesso, ogni anima, ogni sperduto pezzettino di carne nelle foreste di peli biondi e cercare di rivitalizzarli, di intrigarli, di interrogarli, di fornir loro la parola ed i mezzi per esprimersi.
La lingua, invadente, ti invade, ti fruga nel profondo, gioca sull’orlo pericoloso e peccaminoso del buco del culo.
Vi entra con saggezza, con sapienza, con forza.
Lo umidifica, lo ammorbidisce, lo incita, lo prepara: rapido è il balzo e grazioso il volteggio e quasi senza sapere come, e quasi senza aver fatto ancora nulla, ti ritrovi impalata: una spanna di carne irrorata di sangue, un filettazzo di mucca pazza dedito a sbelinarti il culo, a rovinartelo, a rovistartelo, a svegliare tutte le sopite emorroidi dalla storia dell’umanità in qua, fino ad un attimo prima del piacere.
Poi tocca a te: alle tue mani, agili e sapienti, alla tua bocca-caverna-lanterna-lucerna, ai tuoi saltelli rapidi e golosi, ai tuoi orgasmi trasparenti, alla tua voglia di piacere e di piacermi.
E mi prendi, mi rivolti, mi accomodi, mi scaravolti da tutte le parti.
E sono mani, bocca, capelli ovunque.
A volte occhi che sbucano curiosi per chiedere muti
“Ma ti sto dando abbastanza piacere? “.
Abbastanza.
Direi sì, abbastanza, abbastanza per un totale di due o tre vite da qui in poi.
Il piacere è come una telefonata: ti allunga la vita.
E il cazzo. Madonna come è duro, madonna che tensione.
Le vene in rilievo in superficie sembrano ricordare i bicipiti strapieni di proteine e anabolizzanti di Mister Universo e la punta ricurva del mio aggeggio si incurva ancor di più a mò di arco pronto a scagliare frecce minacciose per l’integrità delle tue parti basse.
E le tue dita ritmiche, strette a pugno attorno alla mia asta, la spellano e la rivestono ad ondate successive e la tua lingua mi accarezza le palle, la tua bocca si spalanca e le ingoia, poi mi risucchia dal pisello fino alla punta del cervello.
è come uno svuotamento interno di questo mondo che fa perno inesorabilmente sul cazzo che inizia ad ansimare, a sudare, a produrre gli umori propedeutici al suo piacere.
Contemporaneamente il tuo dito da minatore gallese (unghie corte per fortuna) inizia a trapanarmi il culo con dolcezza decrescente fino allo stupro ed i miei sobbalzi, frenati dalla tua bocca, stretto tra i tuoi denti, sono equamente divisi tra estasi e tormento, fino a che decido di non poterne più di entrambe e mi svincolo per cercare di penetrarti, 20 minuti dopo l’inizio, dalla parte rituale.
Tu sopra.
Non se ne parla di fare altrimenti.
Lo prendi, lo guidi, lo introduci ed inizi a correre sui binari di carne che ti scorrono entro le due paia di labbra principali, mentre col terzo paio, quelle superiori, mi avvinghi ed addenti in un bacio senza ritorno, senza fermate intermedie, direttamente fino all’inferno.
Il sudore ed il mix di umori sviluppatosi tra i nostri inguini, i miei baffi sporchi di merda, la tua bocca che sa di cazzo contribuiscono ad eccitare i nostri sensi già passati ad una dimensione parallela, ad un mondo diverso a cui si accede attraverso scale misteriche a noi ignote.
Ti agiti, di rigiri, mi trascini su una sedia, mi ci fai sedere, ti volti verso lo specchio e ti riimpali nuovamente e godi nel vedere il tuo piacere duplicato dal lungo e nervoso specchio appannato antistante.
Le tue mani corrono sul tuo corpo, in cerca di qualsiasi palliativo di bibita che spezzi l’arsura di questa vollutta incontrollata.
Le parole si spezzano in rantoli, borborigmi, lallazioni e sospiri sincopati, le parole si inseguono inutili e completamente inadeguate per dare colonna sonora all’operazione, ma forse ci vorrebbe musica; forse si dovrebbe cantare.
Un sobbalzo maggiore degli altri provoca fuoriuscita e rientro automatico dal retro del maxi-Godzilla in assetto da combattimento; solo un breve attimo di esitazione ma il ritmo non ne risente.
Si rotola a terra, senza staccarsi.
Ci si stacca, si torna sul letto, si riparte con mani, bocche, nasi, orecchie.
Ci si mordicchia, ci si grafficchia, ci si strappa l’appartenenza reciproca dalla pelle, ci si mischia gli atomi per confondere le idee al nostro creatore, in imbarazzo davanti a tanto ben di Dio.
E noi che ci si alza fino a Lui e a Lui regaliamo il nostro grido d’amore, mentre ancora intrecciati per il perno centrale, l’uno seduto tra le gambe dell’altra ci sciogliamo definitivamente d’ogni pudore e piscia e merda e sudore e sborra iniziano a colarci da ogni poro, a riempirci tutti e ad uscire dall’alto a getto come il fiotto d’acqua sopra la testa delle balene.
Vengo, vieni, andiamo, torno 157 volte in unico flutto.
Esplodo, mi sciolgo, mi scheggio, mi frantumo al tuo interno mentre tu ti decomponi in rallenty sopra di me.
Cadono i capelli, cadono gli occhi, escono lingua e denti dalla bocca e si dispongono a collana sul mio petto; mi si configgono dentro ed iniziano a scavarmi tra la carne e ad affondare nel petto fino all’emergenza di un cuore, che, bene o male, non sempre solo la cintura batte ancora.
Vengo scrivendoti, vengo e ritorno sul luogo del delitto.
Ripasso coi copertoni della macchina sul tuo corpo dissolto e martoriato.
Odio la fine, odio il vuoto, odio la morte e allora rido.
Rido per dissolvere tutte le dissolvenze, per immortalare l’immortalità di un attimo già morto, rido per ridarti-ridarmi colore e calore.
Rido perchè questa risata non ci seppellirà, ma ci coprirà calda come una copertina che rotola attorno ai nostri piedi, sulle nostre braccia abbracciate, sulle nostre facce stanche.
Si dorme.
Che ti ami? FINE

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