Quando entrai, l’ingresso era in penombra, Sara teneva le persiane chiuse per il caldo, entrai e mi chiusi la porta alle spalle mentre lei si era già incamminata precedendomi, verso camera sua.
Quella casa la conoscevo bene, l’avevo frequentata per anni, eppure mi sembrò estranea, o cambiata.
In realtà non era cambiato nulla.
Il grande salone a destra dell’ingresso, col pianoforte alla parete, in fondo, e il tavolo quasi al centro della stanza, i quadri di Enrico Baj e Mirò, la Menorah sul caminetto, la grande libreria dietro il muretto basso in pietra serena, proprio davanti alla porta.
Sara camminava davanti a me, con indosso una maglietta bianca, a piedi nudi, senza mutande.
La maglietta arrivava appena sotto le cosce, a coprire il bel sedere tondo.
Aprì la porta di camera e andò spedita verso la finestra.
Sotto il davanzale, in terra, una grande busta della spesa piena di roba.
“Tieni” – mi disse e mi porse una bustata di libri e quaderni buttati alla rinfusa.
Presi la busta in braccio e le chiesi se non aveva una borsa di tela o qualcosa che non rischiasse di rompersi.
“Non ho una borsa da darti, ne hai già una delle mie, anzi la potevi portare eppoi cosa vuoi sei tu che devi portar via le tue cose per me restano qui”.
Era davvero arrabbiata, gli occhi stretti e tutto il corpo teso, io le dissi parliamo perché la tensione mi faceva star male e perché andar via così mi era impossibile, la carezzai sul bel viso moro e abbronzato, voltò la testa di scatto a sinistra, ritraendosi.
Le sfiorai i capelli ricci che sentivo morbidi e bellissimi al tatto, lei allora non si ritrasse, mi abbracciò forte piangendo e la sentivo tutta addosso a me, quel bel corpo caldo al già caldo pomeriggio di luglio.
Mi faceva sentire un carnefice.
Poi sapeva bene che questo che succedeva, era un groviglio di contraddizioni.
Di amori che si intrecciavano, di infedeltà incrociate, intrecciate dal tempo nonostante il grande affetto e l’amore che avevamo da darci.
Anch’io la strinsi forte a me, ero commosso, non sapevo cosa dire, mi veniva da piangere.
Sara mi parlava tra singhiozzi, sospiri, diceva
“io non ce la faccio, non posso non posso mi manchi da impazzire mi manca il tuo bel corpo il tuo profumo mi manca fare l’amore con te”.
Mi implorava di ripensarci che lei capiva, che mi ero preso una sbandata estiva, che Mariella non mi amava, e che neanch’io l’amavo, che era un’ipocrita falsa bugiarda, una falsa amica, una troia.
Era vero che non l’amavo. Forse.
Parlava di Mariella e sapevo che aveva anche ragione.
Questo era il problema, sapevo che Mariella era il mio paese dei balocchi, non un amore e che le prime tempeste ci avrebbero sbriciolato.
Ma adoravo quel Luna Park, quel paese dei balocchi in cui smarrirmi, vendere l’abbecedario, diventare asino.
Disse “io lo so che non l’ami quella merda e lo so che stai facendoti male per conto tuo. Resta qui oggi. Non andare. Resta qui e stai con me. ”
Si stava così in piedi, in camera sua, abbracciati e stretti e lei mi baciava sul collo, accarezzandomi la testa.
Le dissi
“Non si può, io ho deciso Sara, non si può continuare così lo sai… ”
Mentre parlavo la sua mano si spinse tra di noi, dentro il nostro abbraccio, sulla mia pancia e sotto la cintura dei pantaloni.
Mi massaggiava e era già duro per conto suo.
Sara si inginocchiò lentamente, dopo avermi sbottonato la camicia, e i pantaloni.
Le tenevo la testa tra le mani chiamandola puttana, tegame, succhialo troia…
Era il nostro modo di giocare.
La sentivo sorridere mentre mi faceva il pompino, ogni tanto alzava la testa e sempre tenendolo in bocca mi guardava con gli occhi ben aperti.
Mi appoggiai al muro, accanto alla porta di camera.
Le dissi
“Sara, voltati”.
Sara smise di succhiarmelo e si mise a quattro zampe sul pavimento porgendomi il culo.
La testa voltata all’indietro, le labbra socchiuse.
Era bagnata, le accarezzai la fica piano piano, poi mi chinai e cominciai a baciargliela.
Aveva solo una maglietta, niente mutande, il culo cosi` all’aria, pronto.
La potta fradicia un po’ per l’eccitazione, un po’ per la mia saliva.
Risalii piano lungo il solco delle natiche, leccandola lungo la schiena, mi misi appiccicato dietro di lei baciandole il collo, poi mi alzai e inginocchiato dietro di lei, le strinsi le natiche con le mani, allargandole.
Poggiai il glande sul buco, su quel suo buco che avevo riempito tante volte, riempiendola d’amore e di sofferenza, come per riempirle l’anima.
Ma le chiedevo sempre se lo voleva.
Era parte della nostra ritualità sessuale e dei nostri giochi tra innamorati.
Le chiesi
“Dove lo vuoi èh troia, dimmi dove lo vuoi”.
Sara rispose con una specie di mugolio, un si e un mugolio
“Inculami” -disse
“Voglio che mi rompi il culo”.
Le tiravo i capelli mentre spingevo e affondavo il cazzo in quel buco meravigliosamente elastico e dilatato.
Sara aveva sempre degli strani gesti nel rapporto sessuale.
La stavo prendendo dietro, le tiravo i capelli, e lei sporse una mano dietro di se per sentire quanto fosse dentro.
C’ero appena in punta e lei disse
“di più, inculami, rompimi il culo, voglio sentire il tuo cazzo dentro tutto dentro”.
Sembrava un’invasata, dimenava i glutei perché entrassi più a fondo dentro di lei, in quel buco nero a precipizio sul suo piacere.
Lentamente entrai fino a metà, Sara continuava a appoggiarsi su una mano sola a terra, con l’altra mi massaggiava i testicoli, poi tornava a sentire quanto fossi dentro, finché cominciò a masturbarsi.
La guardavo come si guarda una persona estranea, trasfigurata da questa sodomia assurda, da un chiavata d’addio mentre ci lasciavamo e io ero passato a prendere le mie cose.
Mi pregò di non goderle dentro.
-“Dentro no ti prego, continuo con la bocca, ti faccio venire in bocca”.
Lo tirai fuori e Sara si sdraiò sulla schiena.
Mi masturbavo sopra di lei.
Sorrideva, aveva quella faccia soddisfatta da bambina pigra che aveva sempre dopo un orgasmo.
Mi inarcai sopra di lei e glielo infilai in bocca.
Praticamente la chiavai in bocca, cominciai a sbatterla forte sempre più veloce e non riuscivo a venire, Sara aveva delle specie di conati, perché le premevo sul palato e sudavo e sbuffavo come un trattore finché non sentii partire tutto, i miei movimenti, il calore, e fui nel nulla.
Le riempii la gola di sperma, sentivo che tossiva, tossiva e beveva e continuava a ingoiare.
Ricominciai a pensare dopo un secolo o due, non so quanto tempo, per me furono un attimo, o duecento anni.
Pensai Ingoia, troia.
Ci sdraiammo vicini, sul pavimento.
Il pavimento era fresco, e passava un filo di vento.
Avevo questa brezza addosso.
Alzai un po’ la testa, voltandomi verso Sara che era appoggiata sulla mia spalla.
La giornata era iniziata così. FINE
