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Teresa. 14 maggio 1999

14 maggio 1999, ore 14, 00

“Oggi nel mio cuore piove. E non accenna a smettere. ”
Chiudo il telefonino con uno scatto ma, contrariamente al solito, non cancello il messaggio appena arrivato.
Un po’ mi ha turbato, è la prima volta da sei mesi a questa parte che Teresa usa frasi così cupe. Inoltre non mi ha neppure scritto il solito tvb e la firma che chiude il messaggio.
Come dite, vi piacerebbe sapere come è fatta Teresa? Mi piacerebbe descrivervela ma, credetemi, non posso perché neppure io so com’è il suo volto, il suo corpo.
Un mattino ho ricevuto un messaggio sul telefonino, un numero e un nome sconosciuto. Ho avuto la tentazione di chiamare per dire che forse aveva sbagliato numero ma poi sono stato al gioco ricambiando il messaggio e così via per sei mesi.
Ho poi letto su un giornale che questo è un esercizio in voga tra i ragazzi, mandano un messaggio ad un numero a caso e se si crea un contatto il gioco continua anche per mesi. Ma guai a chiamare senza aver prima condiviso questo passaggio.
Insomma, Teresa è entrata così nella mia vita. Di lei so tutto. O meglio, so tutto quello che lei ha voluto che sapessi. O meglio ancora, so quello che lei mi ha raccontato. E non so neppure se corrisponde a verità.
Avrà davvero 22 anni? Sarà veramente iscritta al terzo anno all’Università di Roma? Abiterà veramente alla periferia della capitale? E, soprattutto, tutti i suoi tormenti per quel ragazzo che aveva e che poi ha scoperto avere una seconda vita in un Paese vicino dove, bastardo (la definizione è la mia, lei è sempre stata controllata nelle reazioni e nell’uso delle parole), stava addirittura per sposarsi?
D’altra parte dietro una finzione c’è sempre una parte di verità. Io stesso ho usato gli SMS per crearmi una vita che non ho. Ho lasciato che credesse che sono circondato da amici, le ho raccontato di mille donne con cui me la spasso (spesso ho anche aggiunto particolari piccanti, più per dare sfogo alla mia libidine che per necessità).
Non ho mentito però sulla mia professione di medico.
E non ho mentito sul senso di solitudine che mi prende quando alla fine dei turni mi ritiro a casa e unica compagnia è un vecchio televisore: semplicemente non gliene ho mai parlato.
Così come non ho mentito sul mio aspetto fisico quando lei me lo ha chiesto. Le ho raccontato come mi vedo, cioè sicuramente peggio di come mi vedono gli altri. Mentre lei, del suo aspetto non ha mai voluto parlare.
Chissà come rimarrebbe a sapere che è per lei che ho imparato come si fa a leggere e mandare messaggi con il mio telefonino.

14 maggio 1999, ore 16, 30

“Basta non ce la faccio più. Per me è finita qui. Continuate voi, io mi fermo. Grazie per tutto quello che mi hai dato in questi mesi. Addio”
Cazzo, e adesso cosa faccio? Le mando un messaggio ma non mi risponde. Provo allora a fare quello che non avevo mai osato: compongo il suo numero ma mi risponde la compagnia telefonica – il cliente da lei chiamato non è al momento raggiungibile – e nonostante il momento di tensione mi viene da ridere e penso che se avessi voluto raggiungerla mi sarei messo a correre, adesso mi accontenterei di parlargli.

14 maggio 1999, ore 16, 45

“Polizia, buongiorno. Posso aiutarla? ”
“Buongiorno agente, guardi ho ricevuto questo messaggio…” e così per quasi cinque minuti racconto a questa voce che non conosco di una persona che non conosco e che non conoscendomi mi ha mandato un messaggio da cui, forse, si intende che vuole suicidarsi. Alla fine dei cinque minuti penso che mi darà del matto (io me lo sono già dato quando ho avuto la percezione del senso che prendeva il mio discorso) e invece succede una cosa strana. MI chiede il numero di telefono della persona, mi domanda se conosco qualche altro dato, mi ringrazia e riattacca.
E io sto lì con la cornetta in mano, come un imbecille e non so cosa fare. E per questa storia ho rinunciato anche a riposarmi, pur sapendo che stasera sono di turno.

14 maggio 1999, ore 20, 00

Arrivo in reparto, mi metto il camice e vado in sala medici. Nessuna novità, nessun problema, posso persino aprire il giornale e provare a leggerlo. Come non detto, subito arriva un infermiere (questo deve essere l’unico reparto dove ci sono pochissime donne e quelle poche sono protette dalla natura…) e mi riporta alla realtà.
“Dottore, venga che è arrivato una paziente dal Pronto (abbreviativo familiare di pronto soccorso). Stiamo sistemandola in stanza”.
Lo seguo per il corridoio fino alla stanza dove è sistemata la paziente, senza neppure guardarla prendo la cartella clinica, prima leggo il nome, poi mi cade l’occhio su “avvelenamento da barbiturici”. Depongo la cartella, mi avvicino al letto. La lavanda gastrica l’ha stordita ma non al punto di non scorgermi. Mi afferra per una manica, mi costringe ad avvicinare l’orecchio alle sue labbra.
“Voglio morire dottore, mi aiuti” la voce è un appena un tono sopra al sussurro del vento.
“Ti aiuterò, Teresa, ti aiuterò, ma non come credi tu…” poi mi chino e, prima che l’infermiere se ne accorga, le sfioro le labbra con un bacio leggero. Ma lei si è già riaddormentata…

14 maggio 2001, ore 7, 30

Poiché lei dorme e non accenna a svegliarsi, mi alzo io. Il rito lo conosco e lo pratico quasi a occhi chiusi: prima faccio scaldare l’acqua per disinfettarlo, poi lo riempio del suo latte e lo pongo a bagnomaria. Quando è caldo al punto giusto (temperatura controllata sul dorso della mano) lo asciugo e lo porto di là.
Smette di piangere solo quando con entrambe le mani afferra il biberon e succhia come un disperato.
Intanto mi preparo per uscire.
Quando sono pronto vado da lei e la sveglio con un bacio. Lei mi stringe forte, ogni mattina mi invita a rientrare nel letto, mi sussurra che ha delle cose interessanti da mostrarmi. Qualche mattina lo farò, oramai mi ha incuriosito.
“Ciao Teresa – le dico – io vado, ci vediamo stasera”
“Ciao, amore”. FINE

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