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Alternanze storiche, oscillazioni, pendolarità

Mi trovo di fronte ad un soldato in tuta mimetica. Capelli chiari molto corti sfumati sulla nuca. Viso regolare, giovane ma già segnato da qualche battaglia. è accuratamente rasato, bocca nervosa e autoritaria dal piglio ironico, occhi grigioverdi, glaciali.
Non porta mostrine che comunque non sarei in grado di decifrare. Sta ritto davanti a me e mi squadra senza mutare espressione. Mi fa cenno di avanzare e io obbedisco con le viscere contorte dalla paura. Sono incapace di restare perfettamente eretta. Avanzo con le spalle curve, il capo chino, un povero essere nudo irriso, colpevolizzato, vilipeso. Le maniche della camicia maculata sono accuratamente arrotolate sull’avambraccio abbronzato e muscoloso, ricoperto da una fitta peluria oro chiaro. Mani grandi mi toccano senza delicatezza, mi palpeggiano e mi esaminano con fredda indolenza. Mani indagatrici che frugano fra i miei seni per portarsi alle narici l’odore sudato del timor panico, lo stesso che cerca nel solco delle natiche, nella congiunzione fra ventre e pube, sotto le ascelle. Mani forti con cui mi costringe a genuflettermi alla sua autorità, al suo dominio. Senza slacciare il primo bottone si apre la patta dei pantaloni e ne estrae un cazzo già notevole anche se ha perso appena la sua morbidezza di dormiente. Infila la mano dentro l’apertura e con un gesto abile estrae anche due grosse sfere carnose in sintonia col loro duce che, sotto le esperte manipolazioni militari sta preparandosi ad un discorso alla folla in delirio. Mi strofina l’uccello contro la faccia, lo usa per schiaffeggiarmi, lo cala sul mio viso e sul mi collo come un insensibile manganello, un tubo di gomma, un asciugamano bagnato.
Il pugno chiuso avvezzo a impugnare armi convenzionali e ad abbattere nemici mi tira i capelli e con questa presa mi manovra la testa. Spalanco la bocca in un muto grido, compendio alle lacrime che mi rigano le guance, ed essa viene riempita a forza dall’attrezzo invadente, ora smisurato, che trabocca dalle mie labbra. è la sua volontà che fa muovere il mio capo avanti e indietro, ma anche dal basso verso l’alto e viceversa. Sembra che dia un continuo assenso da burattino, nella mia accettazione passiva. Mi annienta, mi annichilisce, mi insulta e da questo ricava le proteine essenziali con cui alimenta i suoi muscoli guizzanti e mantiene viva la sua dominazione, suprema la sua tirannia. Lui imprime il movimento, lui determina il ritmo. Io sono un foro nel nulla, uno strumento, niente di più che un mezzo di cui si serve per raggiungere un orgasmico predominio.
E più veloce e profondo si fa il mio inchino obbligato alla sua sovranità assoluta, più i suoi fianchi si caricano e si tendono, molla pronta a scattare, cane armato, esecuzione imminente. Nella sudditanza dolorosa, nell’asservimento della schiavitù in cui il soldato mi tiene curva, ricevo il carico soffocante del suo sperma, costretta ad inghiottire senza che nulla vada perduto dell’unico sostentamento che mi viene concesso per sopravvivere. Solo quando il grosso pene che sta perdendo il suo turgore è perfettamente ripulito, come pure il pube peloso e i tondi testicoli, la mano allenta la presa ferrea in cui ha tenuto finora i miei capelli.
L’ombra fugace di una reminiscenza di libertà mi attraversa. Men che un anelito ma mi riscuoto e mi alzo di scatto. Retrocedo fissandolo negli occhi. I suoi si accendono di sfida. Sbatto presto contro il muro che mi impedisce di andare oltre, e lui avanza con tutta calma. Sembra essere certo che non gli posso sfuggire. Non si cura nemmeno di rinfoderare l’arma che resta penzolante contro il davanti dei pantaloni, davvero fuori luogo. Schizzo di lato come una belva impazzita che solo ora avverta appieno la castrante limitazione della gabbia. Con un balzo mi atterra e lì mi inchioda. Si incunea fra le mie gambe che le sue tengono aperte a forza. Ha muscoli duri come l’acciaio temprato sotto la leggera stoffa che li ricopre e li vela. Fissa la vergogna mescolarsi alla rabbia nei miei occhi e se ne nutre come della nuova immobilità impostami, aggiungendo oltraggio ad oltraggio. Odio la mano rude che fruga nella mia fica con violenza. Tre dita mi penetrano e si allargano a ventaglio dentro di me. Mi si legge il dolore nel viso, quel viso su cui è fisso il suo sguardo inquisitore, stupendo e terribile, attento a spiare in me l’insorgere del turbamento.
La mia nudità è resa ancor più umiliante dal fatto che lui è perfettamente vestito, padrone della situazione, vincitore. Io incarno ogni popolo vinto, ogni minoranza perseguitata, ogni vittima di regime. Sono la preda per eccellenza, la quintessenza della sconfitta. Ma il nuovo tormento che mi dà e che non si stanca di rinnovare con gusto infiamma i miei sensi, li arroventa lentamente, li pungola con scosse che risalgono piano su fino al cervello, e giù fino al cuore. Inondo mio malgrado la sua mano di liquido piacere che lui si lecca dalle dita, e che mi obbliga ad assaggiare. Ma l’imposizione è quasi mimata, e l’insulto insolente dell’arroganza gli sfuma dal viso i cui contorni si ammorbidiscono un poco. Reggo il suo sguardo adesso, e mi sollevo a sedere. Non si oppone al fatto che lo sto spogliando, si lascia fare come se le parti fossero capovolte. Ogni bottone lascia la sua asola, forse per sempre, senza un addio. Infilo le mani dentro la camicia, gli accarezzo la schiena ampia e i pettorali in rilievo. Mi stupisco sempre delle minuscole dimensione dei capezzoli di un uomo, come se fossero i miei visti da molto lontano. Mi nascondo per un attimo dentro i suoi indumenti, aspiro il suo profumo di maschio e di sudore. Mi concede una pausa. Presto i pantaloni seguono la camicia e tutto quello che indossa viene tolto o strappato da mani impazienti. Le sue e le mie.
Alla fine, quello che ho davanti è solo uno magnifico corpo nudo, e quelli che abbiamo sotto di noi sono gli abiti che fino a poco fa erano parte integrante della sua identità di oppressore. Ora servono solo a ricoprire il pavimento freddo. Le sue braccia mi stringono e mi modellano carezzandomi, la sua bocca mi bacia e i suoi denti mi segnano con fierezza, sono ancora un possesso dopotutto, e mi imprime semicircolari sigle di riconoscimento, mi marchia. Mi tiene per la vita mentre mi penetra da dietro. Ancora una volta mi trovo in ginocchio, ancora una volta china, ma stavolta davanti non ho niente, il tiranno è alle spalle, lontano. Pure si fa ben sentire dardeggiando potente nelle mie viscere. Il pene massiccio che mi è sembrato spropositato quando mi riempiva la bocca impedendomi di esprimere un pensiero con parole o grida, è possente e maestoso nella mia fica ben lubrificata. Il godimento che da un lato mi illanguidisce e mi svuota dalla paura, dall’altro mi riempie di crescente determinazione.
Mi muovo in sincronia col soldato, lui penetra e io accolgo, lui sfila e io mi ritraggo per poi inarcarmi di nuovo allargando e offrendo il mio ricettacolo oscuro, naturale fodero del suo spadone. E in sincronia godiamo in lunghi spasimi, ma già la mia è rivalsa e la sua diventa resa. Lo spingo fuori da me e lo butto a terra. Lui è ancora tremante per lo sforzo dell’orgasmo, ma io pretendo che si rizzi subito e completamente. è sudato e ansante, gli occhi finalmente chiusi hanno smesso di raggelare e tagliuzzare la mia anima; la bocca dischiusa è carnosa ora che ha perso quel tratto autoritario, la mascella non è più tanto volitiva, il mento è morbido, non contratto. Le guance rasate sono lisce come quelle di un ragazzo. Non mi ero resa conto che fosse così attraente, così infantile e tenero nella sua fragilità.
Gli carezzo il volto mentre riprende fiato, gli sfioro le tempie con un bacio, commossa da tanta bellezza. Gli poggio le labbra sulle palpebre chiuse. Provo per lui uno sconvolgente amore che pure dura poco più di un attimo. Respiro dalla sua bocca, col suo stesso ritmo. Gli rubo l’anima. Ad ogni inspirazione una vaga voglia di rivincita si fa strada dentro il mio cuore, fino a rendermi livida di rabbia, desiderosa di vendetta. è stato il mio aguzzino, me la pagherà. Con le mani e la lingua gli faccio riprendere in breve la durezza necessaria. Gli salgo sopra, inginocchiata, sì, ma a busto eretto. Me lo faccio entrare a forza nel culo. è enorme, ma il mio desiderio di rivalsa è così grande che ignoro il dolore completamente, tanto sono intenta a farlo soffrire. Le sue dimensioni assurde, distintivo di potere, strumento di tortura, ora gli fanno patire le pene dell’inferno compresso nello mio stretto condotto rettale. Sono certa di strappargli la pelle coi veloci sollevamenti del bacino e con le brusche ricadute. Contraggo così tanto la muscolatura interna e l’anello dell’ano che lo vedo contorcersi sotto di me. Sì, sotto di me che finalmente gli sto sopra. Il mio sguardo duro lo trafigge, perchè lo costringo a guardarmi mentre gli uso questa irridente violenza. A lui, al mio violentatore. Non dimentico di strizzargli le palle, proprio mentre viene in modo parossistico, plateale, ridicolo. Si contrae piegandosi su se stesso, rantolando. Questo lo umilia del tutto, ma per rendere rotonda la vendetta gli impongo di leccarmi alla perfezione il suo sporco sperma che mi esce dal culo mescolato ai miei umori di vario tipo, e non gli permetto di tralasciare un centimetro del mio sesso rovente. Gli vengo in bocca stringendo i denti. La mia espressione si è fatta inflessibile, nel mio cuore non esiste più nemmeno l’ombra della pietà.
Mi faccio ripulire per bene e poi lo spingo in là. Mi vesto e apro la porta che mi trovo davanti, lui si alza senza più il coraggio di guardarmi in faccia. Sembra più basso mentre infreddolito e oltraggiato varca la soglia opposta alla mia.

Nell’altra stanza un uomo nudo e spaventato mi aspetta in preda ad una evidente agitazione. è alto e piuttosto magro, sul torace le costole abbozzano l’anatomia della cassa toracica. Ha le guance appena incavate, ombreggiate di scuro come è scuro di capelli e di pelo. Nell’insieme ha l’aspetto di un mistico. è in piedi e trema lievemente cercando di darsi un contegno mentre lo mortifico fissando i suoi genitali con ostentazione. La divisa non nasconde il mio seno gonfio che il respiro solleva con regolare cadenza nè il rilievo dei capezzoli che gli permetto si sbirciare. Gli giro attorno e lo tocco qua e là. Ogni volta che le mie dita si posano sulla sua carne, un riflesso incondizionato lo fa sussultare come se ricevesse una scossa. Gli sto dietro per un po’ e lo guardo con cattiveria e insolenza che lui avverte anche senza la conferma del mio volto. Mi teme e ne sono felice. Il non potermi vedere lo tormenta, lo spaventa e il tremito si fa più deciso. L’attesa lo snerva, mentre l’ansia lo fa scervellare su cosa sarò capace di fargli. Mi eccita profondamente la sua assoluta dipendenza dalla mia volontà, mi alzo la gonna stretta di taglio militare, mi tolgo le mutande e mi masturbo in piedi, alle sue spalle. Scuoto violentemente la mia fica, mi ci infilo le dita il più a fondo possibile. Poi mi porto al suo fianco e la strofino, aperta, sulla sua coscia che bagno di umore viscido come bava di lumaca. O di strega. Ma ancora ho bisogno delle dita per tormentare in modo più mirato il mio clitoride. Scorgo il suo membro gonfiarsi. Nonostante l’inquietudine che lo fa sudare freddo, la scena della mia masturbazione lo turba.
Gli schiaffeggio i genitali con durezza e l’acuto dolore gli fa retrocedere l’erezione. Mentre lo colpisco e il palmo della mia mano batte ripetutamente contro la sua carne più ricettiva e calda, sprofondo in un orgasmo duro, breve e intensissimo. Carezzandomi ancora la vulva palpitante, mi porto davanti a lui. Mi fissa stralunato, impotente e gli rispondo con un sorriso malvagio, pieno di sordide promesse.
Mi sfilo la cintura, ma solo per brandirla come una frusta che calo sul suo corpo. Al sibilo del cuoio nell’aria rispondono all’unisono uno schiocco secco e un grido soffocato. L’uomo cerca di proteggersi l’inguine e il viso rifugiandosi in un angolo. Mi dà le spalle e riceve i colpi sulla schiena e sulle natiche contratte. Le due piccole semisfere striate di rosso mi attraggono come una calamita. Lascio cadere la cintura e lo schiaccio contro il muro col mio corpo. Con mani voraci gli ghermisco i glutei, li palpo, li accarezzo, li pizzico, vi affondo le dita, li graffio. Torco la sua carne soda con gusto sadico. Gli ficco un dito nel culo e lo faccio gemere. Seguo ogni cinghiata sulla sua schiena con la lingua umida, raccogliendo qua e là gocce di sangue vivo. Quel ruvido contatto sulla carne ferita lo fa trasalire a scatti, emettere brevi lamenti, singulti, bloccato contro l’intersecarsi dei muri come un bambino svergognato davanti al pubblico dei parenti, come uno scolaro messo alla berlina, un dissidente aggiogato dal potere, un intellettuale domato, additato al pubblico ludibrio.
Lo faccio aderire alle fredde pareti e la sua epidermide nuda rabbrividisce. La pelle d’oca gli indurisce i capezzoli, gli increspa i testicoli. Gli impongo di sollevare le braccia verso l’alto e ogni muscolo si tende, si allunga, le scapole sporgono, la vita si assottiglia e la pelle sembra farsi ancora più bianca, diafana. Gli carezzo la schiena con le dita ad artiglio, graffiandolo ma non in profondità. Respira velocemente e ha piccoli movimenti nervosi, come scosse di assestamento. Proseguo con lo stesso trattamento sul torace, infilando le mani fra il suo petto e il muro. Scendo sul ventre teso, morbido come quello di un animale. Uomo e bestia non sono così diversi. Il ventre è il loro punto debole, laddove la carne è più delicata e sensibile, tenera, la pelle è più sottile e traslucida, dove i denti o la lama affondano con più facilità, con maggior potere distruttivo. Nella discesa incontro la punta del suo membro eretto insieme alla soffice peluria scura del pube. Mi bagna con le sue lacrime viscose. Gli allargo le gambe sollevando di scatto un ginocchio che gli sbatte contro i testicoli. Grugnisce di dolore, ma resta immobile con le braccia che si allungano sopra la testa, rasenti alla retta di intersezione oltre la quale non può fuggire, limite estremo che gli è concesso.
Gli soppeso le palle con una mano e con l’altra gli afferro l’asta calda, dura come una sbarra di metallo rivestito di carne pulsante, e sangue e nervi. La mia volontà di offendere, di sconfiggere, di piegare mi rende simile ad un predatore. A un predatore femmina, animale ancora più pericoloso e crudele. Mordo le sue carni a sangue, gli strappo grida rauche di orgoglio ferito perchè il dolore che gli infliggo, la passività che gli impongo lo mettono in ginocchio, lo sottomettono come il piacere estremo che ormai questo gli suscita. Urla e piange godendo fra le mie mani. Ed è come se un getto caldo di lacrime liberatorie e riscattatrici fosse uscito dai suoi lombi. Allora l’uomo si volta e nel farlo abbassa le braccia e le serra intorno a me. Le sue labbra mi cercano e la mia lingua le deflora. Mani impazienti mi denudano il busto e ora il suo petto magro dai capezzoli irti sfrega i miei seni prosperosi come un magico acciarino. Vampe di fuoco mi salgono dal ventre anch’esso nudo e indifeso, ora che ogni indumento è caduto al suolo e viene calpestato dai lunghi piedi nudi dell’uomo che, ribaltando le sorti mi ha incastrata contro l’angolo, ma di schiena. Con la forza incredibile, insospettabile che anima chi si è solo creduto di annichilire col dileggio e la violenza, mi solleva. La posizione mi forza a chiudere le gambe sui suoi fianchi, per sorreggermi almeno in parte.
Una verga d’oro puro, lunga, che unisce la flessuosità del giunco alla durezza del bambù, mi trapassa e penetra tanto a fondo che me la sento risalire fino alla gola. Secchi colpi di reni mi squassano e mi fanno sobbalzare. Sono io adesso ad arrendermi di fronte alla rivincita dell’oppresso, alla sua risoluta rimonta. Incapace di sottrarmi allo straziante piacere che mi lacera le viscere e il cuore, godo di essere impalata senza pietà, marchiata da una nuova e totale mansuetudine che mi pervade, spingendo via il livore, la crudeltà assorbita come per contagio e rafforzata dalla volontà di far male, di veder soffrire ma soprattutto di sottomettere, di dominare. La remissività che cala sul mio essere incontra per un attimo quella che scivola via dal mio rivale, e per un momento siamo solo un perfetto equilibrio di forze e debolezze, di sostanza ed essenza, di pro e di contro. Pura reciprocità. Un ininterrotto fluire si instaura fra noi, libero scambio, osmosi perfetta, donazione. L’orgasmo ci spinge uno contro l’altro, fino ad annullarci in un rigurgito di piacere assoluto. Di più: in un afflato di tenero amore. Ma mentre io mi sdilinquisco tanto che non so più reagire, mi ritrovo in breve di nuovo a temere, vergognosa del piacere provato, della perduta supremazia, umiliata dalla perdita del potere, delusa, disingannata. Eccomi di nuovo a piegare il capo di fronte al nemico che avanza, che riguadagna terreno. E infatti l’uomo bruno ora mi ha distesa a terra e mi perfora con la sua asta rovente. Non mi da dolore il suo gesto, anzi mi trascina con sé verso una polla di nuova estasi a cui giungeremo velocemente, ma la sua non è volontà di darmi piacere, quanto di impormelo. Lo avverto nettamente. Il suo volto sembra illividirsi ad ogni affondo, e tanto lui riconquista la vetta scalando uno alla volta i gradini di pietra che portano al trono, tanto io vengo respinta verso il basso. Non voglio godere, è questo che mi trascina verso il baratro e che innalza lui. Cerco di spingerlo fuori, di allontanarlo, ma lui sorride sarcastico e mi trattiene con una forza inespugnabile.
Mi sforzo allora di non provare piacere, di isolare ogni innervazione, ogni fibra, di recidere i gangli che trasportano le onde delle sue stimolazioni al mio cervello. Ottengo solo di acuirlo maggiormente. Mi guarda annaspare nel monitor dei miei occhi, e mi porta ad un limite che mi serra la gola. Allora si scosta, esce da me e mi lascia aperta come una ferita, col ventre lacerato e pulsante, bisognoso di lui. Ride e si masturba, tiene acceso il motore della sua macchina infernale, ma vuole la vittoria completa, la resa incondizionata. Vuole che sia io a chiedergli di continuare. Cerco in ogni modo di opporre una qualche resistenza, di ribellarmi alla sua crudeltà che mi deride, di rifiutare questa estrema umiliazione, ma non ho più forze.
Non so distogliere lo sguardo dal suo cazzo lucido di me, dalla sua mano che va e viene, che lo scopre e lo nasconde, lo vela e lo svela. è un richiamo irresistibile, un canto di sirene. Sporgo i fianchi e lui ride ancora, non gli basta. Il viso mi si imporpora di desiderio e di vergogna, eppure devo, devo… Cerco di toccarmi ma mi blocca le mani con le sue, mi serra i polsi in una morsa d’acciaio. Così facendo si è chinato su di me e il suo membro lungo e teso e le sue palle pendenti di sfiorano, mi toccano, mi titillano ancora impregnandomi il sesso di fitte dolorose, continue. Ho un assoluto bisogno di lui, il mio essere dilaniato non resiste più, incapace di godere senza il suo naturale antagonista.
E allora cedo. Piangendo gli chiedo pietà, lo prego. Alla fine lo supplico senza ritegno, lo imploro di fottermi fino a farmi venire. Solo quando mi vede totalmente annichilita, torna ad affondare dentro la mia fica che sembra impazzire per gli stimoli troppo intensi che riceve. Mi penetra, mi sbatte, mi perfora, mi slabbra, mi tormenta, ma senza nemmeno più ricordarsi che sotto di lui, attorno al suo cazzo, c’è una donna, un essere umano. Il suo trionfo è già conseguito e consolidato, ora fotte per il suo solo piacere. Che io venga o meno non lo riguarda più. Ma è tanta la foga che lo anima, è così sfrenato il suo desiderio di mostro privo di sentimenti, che godo ancora prima di lui, sempre bloccata a terra dalle sue mani. Grido forte, arcuandomi verso il suo membro che si pianta di colpo fino ad entrarmi nell’utero dove svuota la sua lancia di una linfa che tutto è, fuorché vitale. Il mio violento orgasmo gli dà l’ultimo brandello di emozione positiva che è in grado di provare. Ora è tutto compreso nella sua carica, nel suo compito di dominatore che, ne è certo, gli spetta per razza, per nascita e per diritto di maschio.
Mi guarda e mi comprime fino a schiacciarmi. Non esce dalla mia fica bruciante, torna invece alla carica di nuovo, senza aver perso per un attimo il suo turgore e la sua furia. Anzi questa sublima nella certezza di avermi reso priva di ogni capacità di oppormi in alcun modo. Mi lima con tenera metodicità, ma è solo studiata maniera. La variazione di ritmo incendia il mio sesso già rovente, e vedo montare in lui l’esaltazione del possesso assoluto di un suo simile. La sua bocca si torce in un ghigno compiaciuto mentre spia la rinnovata eccitazione che riduce il mio intero essere, non solo il mio corpo vibrante, ad un implorante bocca che trema al pensiero di restare vuota, inappagata. Prosegue instancabile su di me, sfinita, e colpo su colpo le sue reni mi sfibrano del tutto. Gioca con me come il gatto col topo, quando mi sente sull’orlo dell’orgasmo, si sfila dolcemente e io sento il mio cuore stillare l’angoscia della mancanza. Gemo, e il terrore di morire mi si dipinge in volto. In risposta un sorriso affascinante quanto spietato. Forse affascinante perchè spietato. Mi aggrappo a lui e con le ultime forze me lo inchiodo dentro e contraggo la vagina. Gli strappo il seme che non vuole darmi, gli estorco un ultimo sorso di elisir di lunga vita e godiamo ancora, selvaggiamente, ma io sento sulla nuca, opprimente, la pressione del suo piede.

La stanza ha quattro pareti e quattro porte. Dietro a me la porta da cui sono entrata, davanti quella da cui è entrato l’uomo, quella dietro la quale si trovano i vestiti senza mostrine di cui è stato privato molto prima che attraversasse questa soglia. A destra la porta da cui uscirò, nuda e indifesa, impaurita dalla mia rinnovata debolezza, meschina, piccola, tremante, incapace di sollevare lo sguardo da terra dopo quello che gli ho chiesto supplicandolo senza ritegno. A sinistra la porta da cui fra poco uscirà l’uomo magro. La sicurezza granitica acquisita a scapito della mia dignità gli indurisce lo sguardo ormai disumano. Non c’è più traccia alcuna dei lineamenti ascetici che possedeva in sommo grado. I begli occhi bruni, grandi, che il terrore dilatava e che la graduale consapevolezza aveva reso fieri e nobili, sono divenuti gelide lame che userà per dissezionare le carni di una nuova vittima il cui sguardo perduto implorerà misericordia, ma lui non gliela concederà. Non solo. Mostrano anche intelligenza limitata, orizzonti chiusi, la grettezza del bruto. Prima di uscire però si vestirà con calma, indossando gli indumenti presi uno per volta dal mucchietto ordinato dove una divisa mimetica di ordinanza che gli calzerà a pennello, è stata riposta, piegata e stirata, dopo una doverosa sterilizzazione in autoclave. FINE

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