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“Credo che non abbia più senso, né scriverci, né sentirci. Non ha più senso. Cercavo una parvenza d’amore. Non è stato così. ” Alice scriveva rapida, sul foglio bianco di carta spessa, che aveva comprato sotto casa scegliendola con una cura maniacale. Le piaceva consistente, difficile a piegare e a far entrare nella busta.

Scriveva con calligrafia rapida, precisa. Guardava le letterine sul foglio, come ragnetti neri che scendevano dalla punta della penna per sdraiarsi sulla carta. Non ha più senso, ripeteva, non ha più senso, il senso, i sensi, la pelle, il languore. Ancora adesso ripensava all’incontro, e avrebbe voluto macerare il foglio con i suoi denti, inumidirlo con la sua saliva, masticarlo con la sua lingua, mangiare la carta, le parole, mangiare lui, lentamente, morso a morso, fino a sentirlo mugolare e gemere, e dire basta, ti prego basta, e trionfare su di lui.

Aveva bussato con le piccole dita sul vetro opaco del locale su strada. Vediamoci così, si erano scritti e promessi, ci vediamo senza conoscerci prima se non sulle lettere. Niente foto, niente descrizioni, qualcosa di sommario. E lei scendeva adesso da quel taxi, dove l’autista aveva parlato e parlato, in dialetto stretto, guardandole le cosce bianche che uscivano dalla lunga gonna rosso prugna. Aveva accavallato apposta le gambe, gli stivali neri lucidi che sembravano quelli della sua bambola, da bambina. Le calze nere, agganciate in alto al reggicalze, la pelle inumidita la sera prima con una crema. Mi toccherà, lo so, e se mi tocca voglio che senta il morbido della mia pelle, pensava Alice mentre sistemava i vestiti sul letto per la partenza. Adesso nel taxi giocava a far strusciare una coscia contro l’altra, a sentirsi da sola il calore della carne. Il tassista parlava, rideva, e l’occhio si coglieva all’angolo dello specchietto, che scivolava dritto sulla coscia. Forse, magari, mi guarda e nei pantaloni gli diventa duro, pensò comprensiva e dispettosa Alice. Il tempo di un pensiero, era arrivata.

“Non ti voglio più” continuava a scrivere, risoluta, cocciuta, non convinta. Lo voleva ancora, ma era inutile anche gridarlo, mettersi davanti alla finestra aperta e gridarlo. La finestra, dove avrebbe voluto affacciarsi, era alla sua destra. Lei scriveva, e ogni tanto alzava lo sguardo per aggiornarsi sul tempo, sul colore del cielo, sul momento del giorno. La stessa finestra da dove, finito di lavorare, si sporgeva per fumare una sigaretta, l’ultima della sera.

Ora mi affaccio e fumo, gli aveva annunciato anche quella notte lontana. Dove vai a fumare? Guardo il giardino di notte, è bellissimo, aveva risposto. Allora sei lì, e dietro di te ci sono io le aveva imposto di pensare lui.

Come in un film guardato dalla poltrona di una sala Alice si era trovata spettatrice. Sdoppiata. Partecipe. Protagonista. E spettatrice. Sono lì con te, Alice, ripeteva lui. E mentre lei guardava ipnotizzata il video luminoso, ancora più spettrale nella notte silenziosa, seguiva le parole scritte in rosso da lui, rispondeva sì sì, sei qui con me, e si sentiva liquefare tra le gambe, un senso di caldo e di scioglimento improvviso, inarrestabile.

Sono dietro di te, tu come sei vestita? la incalzava con le parole. Sono scalza, ho una camicia da notte blu, corta, di seta, e sopra un golf grigio.

Allora sei affacciata, stai fumando, io sono dietro di te e ti comincio a toccare le gambe, dalle caviglie alle cosce, salgo piano e ti accarezzo tutta.

Sì sì, si trovò a digitare Alice, un automa, un robot, le mani che andavano per conto loro e lei le guardava imbambolata.

Ti accarezzo e sollevo piano la camicia da notte. è corta Alice? Dimmi, è corta? E sotto cos’hai? Lui non si fermava. Le paroline rosse come formiche cannibali le andavano addosso, la mordicchiavano, le iniettavano veleno paralizzante, le girava la testa, le mani gelate in quella notte estiva.

è corta, e sotto ho le mie mutandine, come sempre.

Di che colore? Nere? Traforate? E sotto hai la fica nera, ricciuta, oppure ti sei depilata da poco?

Alice ricordava l’immagine del ghiaccio estratto dal freezer. Quando tiri fuori il ghiaccio, si diceva sempre, guarda come comincia a gocciolare. è l’impatto del calore fuori, lui si scioglie. Tra le sue cosce l’impatto delle parole rosse sul video, lanciate da lui, erano come il calore del mondo, su un pezzo di ghiaccio estratto dal freezer. Gocciolava. Abbassò lo sguardo, forse le goccioline bianche si potevano anche vedere, attraverso quel pezzettino di stoffa nera di cotone.

Sdoppiata. Le dita andavano veloci, rispondevano ai suoi comandi, e c’era una seconda parte di lei che obbediva, toccava, scopriva, allargava, esplorava.

Hai la pelle che brucia, vero Alice? Lui era impietoso, come quei bambini che lei ricordava da piccola, prendevano le lucertole, aprivano loro la pancia, estraevano visceri e sangue raggrumato, ridevano, e continuavano. Impietosi, eccitati, maschi. I maschi. E loro bambine correvano via, lontano, con la mano premuta sulla bocca, per non vomitare. La lucertola si dibatteva, poi un guizzo e era ferma per sempre.

Lei ora si dibatteva, come la lucertola con la pancia al vento, lei con la fica scoperta, le mutandine che erano scese come per miracolo, da sole, si dibatteva dentro, voleva scappare, andare a letto, stringersi a lui, chiedere di essere salvata. Immobile. Incollata alla sedia, agganciata con le dita sui tasti. Forse le mie dita non vogliono che vada, si diceva stupidamente. Mi tengono qui loro, sono attaccate alla tastiera, la tastiera al tavolo, il tavolo al pavimento, e il pavimento alla casa, al mondo, a lui che ora è lontano, ma mi vede, forse mi vede.

Toccati il seno, Alice. è nudo, vero? Hai un seno grande, tondo, me lo hai detto tante volte, i capezzoli che si irrigidiscono appena sfiorati, e la pelle morbida. Sei grande, ma un seno non toccato dal tempo. Toccalo Alice, toccalo, te lo succhio come se fossi io a bere da te. Ora sono appoggiato a te, le diceva in un sibilo dal video, senza rumore ma vischioso come la resina degli abeti. Si appiccicava dovunque. Sono appoggiato a te e tu senti il mio cazzo duro che spinge sul tuo sedere tondo, in fuori.

Le mani sono sul seno, hai abbassato le mutandine e io comincio a toccarti la fica, da dietro. La apro piano.

Le cosce allargate, lo sguardo di vetro, lo sfondo della stanza sfocato. Alice era a metà. Si girò verso la finestra, alla sua destra. Era notte fonda, la luce della casa di fronte era appena un bastoncino giallo nel buio. I cani latravano lontani. Lei si vide alla finestra. Lei era lì, appoggiata coi gomiti a punta sul legno del davanzale interno, il vaso dei gerani sotto di lei, la camicia blu di seta alzata, i piccoli piedi nudi, le gambe aperte. Lei guardò Alice. Alice la guardò. Chiuse gli occhi. La mano cominciò a scendere dalla pancia al pelo nero, toccando le labbra ormai aperte e in attesa.

Solo un attimo, un attimo di esitazione. Non posso, si disse. Ho più di quarant’anni, ho due figli, ho lui che amo e che dorme nel mio letto, non posso non posso, potrebbe lui, adesso, salire le scale, sorprendermi nel buio, sarebbe la fine.

Mentre bussava sul vetro dello studio, pensava già di scappare. Era quell’uomo lì, quasi un ragazzo, pochi capelli castani, gli occhiali tondi, le mani non curate, quell’uomo che le aveva quasi annebbiato la mente una sera d’estate? Un momento, lui aveva già alzato lo sguardo, e spostata la sedia su cui era seduto, dietro ad una scrivania, le stava venendo incontro.

“Esci dai miei pensieri, anzi, sta già succedendo” scrisse alla fine del foglio, e lo piegò. Dentro, aveva incartato l’immagine di lei che si toccava leggendo le sue parole da uno schermo, di lui che apre la porta dello studio, di lei che era tornata a casa piena di odori… Quella sera si era condannata. Devo vederti, devo guardare negli occhi chi mi ha fatto dimenticare di essere quello che sono. Le dita infilate nella fica, uno stantuffo inarrestabile, l’altra mano che ancora riusciva a digitare, la testa piegata indietro sulla spalliera, i fianchi che scivolavano lenti sulla sedia impagliata, quel ruvido della paglia intrecciata sotto la pelle nuda dei glutei, il rosso e lo strusciare convulso, il piacere che arrivava, la carne irritata a sangue.

Che stai facendo? chiedeva crudele lui, non immaginava forse, perché devo dirtelo… lo sai lo sai, pensava lei che si sentiva inondare la mano dal liquido che le irrorava le labbra, lo sai… io non respiro più… respiro troppo forte, forse mi sentono.. non so chi sei, come sei fatto, magari orribile, le donne magari non le sai prendere, forse hai un uccello piccolo tra le gambe… più giù, più giù, devo prenderlo…

Alice era a gola piegata, la testa appoggiata alla spalliera, un sussulto tra le cosce umide. Che stai facendo, dimmelo, lui la interrogava sollecito, incessante, continuo, le parole che rotolavano non fermate dal video bianco. Ce le aveva sopra il seno, sulla pancia, tra il pelo che spuntava dalle dita ancora ferme sul ventre, dita intrecciate al pelo, come a chiudere l’ingresso della follia, l’uscita del piacere. Hai sentito che te lo mettevo dentro, hai sentito quanto è duro.

Alice guardava inebetita il monitor. Received, received, received, e lei non rispondeva. Ci sei? Chiese lui come risvegliato da un monologo che non si fermava. Ci sono, digitò lei, piano sulla tastiera. Ci sono. Domani vengo da te. FINE

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