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Cinque contro una

La piazzammo in mezzo, dentro al nostro cerchio di cazzi snudati e pronti all’uso, e ci demmo da fare, come Cristo comanda, come comandava la fame di figa che ammorbava la coscienza; e via a dargli dentro con la mano! a tutta birra! quasi che ne di pendesse della nostra vita! Boccalarga invece era sola, però all’altezza, valeva per dieci, che dico, per venti! pronta all’uso e smaniosa, non vedeva l’ora di assaggiarci tutti. Spalancò le fauci mostrando d’essere capace di riceverne almeno tre insieme, e, manifestando la più grande modestia, ne imboccò uno, il primo che le capitò a portata di labbra, certamente quello più prepotente o più audace del mucchio. Lo succhiò gustosamente. Non le bastò la razione di cazzo che aveva dentro, ne desiderò un altro pezzetto, cosicchè procedette con la testa, le labbra tutte in fuori, risucchianti, e procedette, e continuò, andò innanzi, e insistette a risucchiare e a mandarselo dentro (un altro pezzetto, e un altro ancora), finchè il maschio, sentendo il morbido della gola contro il meato, emise un gemito di apprezzamento, e ringraziò il cielo per il gran bene che stava ricevendo. L’uccello per quanto lungo e fremente, dentro quella specie di forno in forma di bocca, parve poter scomparire, coglioni inclusi. Invece no, non scomparve, i coglioni rimasero fuori. Quasi fuori. Perchè, veramente, anche quelli a momenti risucchiava dentro. Succhiando la bella lanciava occhiate assassine intorno, come a voler dire “vedete quanto sono porca? “. QUANTO MI Dò DA FARE? COME MI Dà GUSTO CIUCCIARE GLI UCCELLI? COME LO FACCIO BENE? Succhiava e succhiava infatti, proprio come una porca e dandosi da fare, esibendo maestria e gradimento, socchiudendo gli occhi e mugolando scompostamente; mentre il fortunato a cui toccava lo splendido trattamento si torceva, emetteva sibili di apprezzamento, e aveva esclamazioni del tipo:
– Ahaa! che porca! la bocchinara! come succhia! Mi sta letteralmente divorando! Mi vuol tirar fuori anche il cervello! Noialtri, in attesa del turno, vedendo e sentendo, dai a menarcelo! dai a strapazzarlo come folli! Andavamo come treni in discesa! Le mani quasi non si vedevano tanto scivolavano veloci. Con lo spettacolo che continuava ad offrire la puttanona ci era impossibile fare altrimenti. Lei, che aveva un sacco di cuore, e altrettanta voglia, fece su e giù con la testa un po’ di volte, strofinò l’uccello all’interno delle gote, esibì sfacciata le guance gonfie di cazzo, lo estrasse, lo lappò ben bene con la sua lingua larga da supertroiona e passò al prossimo. A chi tocca adesso? chi ha voglia di farsi divovare vivo? Il prossimo ero io, l’ultimo della mia specie. Cazzo grosso e cervello fino, lavoravo di mano e di testa contemporaneamente, ci tenevo a darmi tono, scegliere pure, non lo metto a disposizione delle prima bocca che si apre per accoglierlo. è l’unico che ho e credo meriti di trattarlo con attenzioni e una certa prudenza. Alla tipa però lo affidai volentieri e senza esitare. Avevo notato quanta buona volontà ci mettesse nel pasteggiare il grosso bastone di carne e così sapevo che mi avrebbe riservato un degno trattamento, un trattamento adeguato alle mie risorse e all’altezza delle mie aspettative: adeguato allo stato di assatanamento a cui mi (e ci) aveva ridotti. Infatti. Non appena lo ebbe in bocca cominciò a compiere acrobazie tali con la lingua chè desiderai non smettesse più. La avvertii infatti che impazziva sul glande, roteata in modo magistrale, che picchettava la punta del cazzo, che stuzzicava il filetto, che lisciava la canna… non potei evitare di regalargli qualche sospiro di soddisfazione. Contenta di sè, per il lavoro egregio che andava facendo; e gratificata dai miei sospiri, deliberò di pro cedere oltre, di mostrarmi qualche numero speciale. Roteò ancora la lingua sul glande e d’improvvisso ve la spiaccicò sopra con energia, la avvolse per intero, ignoro come fece, se fu vero o solo mia impressione, e stringendo la preda con forza mi portò all’apice della congestione. Stupendo. Eccezionale. Mai neppure immaginata una cosa del genere. A momenti me ne venivo anzitempo. Se ne accorse e questo la calmò un pochino. Non desiderava certo doverne perdere uno subito, all’inizio, proprio nel momento in cui cominciava a prenderci gusto. Continuò lo stesso a fare la superporca, ma in modo meno esagitato, meno plateale. Divenne persino gentile, pensosa quasi, gustosamente interessata alle fusa che faceva il mio micione, teneramente succhiottato dalla bocca. Stette un poco a occhi chiusi, assaporando l’arnese e mugolando dolce dolce, chè pareva quasi pronta a venirsene pure lei, le narici che fremevano, le guance incavate nel risucchio, l’espressione adorante, e sospirò rapita, un profondo sospiro di adorazione che elevò l’anima di ognuno. Considerammo (e c’era di che considerare! ). A quella tipa il cazzo piaceva, ma piaceva veramente! e anzitutto le piaceva prenderlo in bocca! non era una bocchinara qualsiasi, ma una credente del cazzo, una che del cazzo aveva fatto la propria religione, e con spirito religioso gli si accostava. Considerammo e ammirammo, e cominciammo a emanare fumo dalle orecchie. Mi venne una voglia bestiale di trapassarla da parte a parte. Di ammazzarla a colpi di uccello. Di ingolfarla di sborra. Di farglielo tanto da aprirla in due. DI VENIRLE SUBITO IN BOCCA, QUANTOMENO! Non stetti a ricamarci su oltre. Diedi sfogo alla voglia pazzesca che avevo dentro. Afferrai la bestia da ingoio per i capelli e spinsi fino in fondo, fin dove mi riuscì a spingerlo, vagamente speranzoso di darle anche i coglioni, di farlo entrare tutto. Una parola, farlo entrare tutto! Era troppo lungo anche per una come lei, certamente lungo per qualsiasi donna, un buon terzo della canna restò fuori, e naturalmente i coglioni, i quali ardevano dal desiderio di andare a sbattergli contro il mento. Spinsi ancora, facendole rinculare la testa, ma invano. Riuscii solo a soffocarla, e indurla a ritrarsi.
– Ehi!
– protestò sfacciata, con un piglio da passeggiata archeologica.
– Gli accordi non erano mica questi! Pensavo che voleste annegarmi di sborra, non soffocarmi col cazzo!
– Abbi cuore,
– replicai in tono blando, confidando che fosse veramente pietosa.
– Anche i superdotati hanno i loro diritti!
– Se è per questo anche le superdotate! fiche in succhio e bocche da pompini! ma mica è giusto assassinarle per questo, perchè sono buone e si prestano! mica giusto dar loro in testa!
– Sbagli, gioia, te lo stavo solo spingendo in gola!
– Ohoo! che bestia! Vai via con questo cazzone da mulo in amore!
– Ahaa! dai! che dovresti saperlo come ci si arrangia con i cazzi troppo lunghi!
– Sissignore che lo so! gli si taglia via un pezzo! Mostrò i denti. Aham! Si avventò come per addentarlo. Ritirai svelto il cazzo. La sorciona rise, un riso profondo di gola, pieno di soddisfazione (un brivido supplementare di eccitazione mi percorse la schiena), e passò oltre. Passò al terzo. Capitò peggio, con uno che l’aveva lungo e grosso più del mio. Non se ne lasciò impressionare. Nè imbarazzare. E neppure condizionare. Lo afferrò disinvolta alla base, prima con la sinistra, una presa salda, decisa, e poi con la destra (idem come so pra), una mano accanto all’altra, e annullò così parzialmente gli effetti della lunghezza; l’ 1/3 che rimase fuori era ampiamente alla portata di qualsiasi gola; spinse allora le labbra in fuori, le insalivò abbondantemente e lo fece sguazzare lì in mezzo, traendo un effetto sonoro ed erotico eccezionale (il tizio così gratificato, ne disse mirabilie; promise un litro di sborra, al meno, come premio! ); infine immerse il mostruoso randello di carne nella bocca e lo elargì di un bel succhiotto.
– Ecco!
– esclamò staccandosi e contemplando beata la sua opera.
– Così si fa! In effetti il giovanotto che si portava in giro quella specie di batacchio pareva al settimo cielo; e noi pure, goduriosa mente guardoni, cazzi in resta, trionfanti, la trovavamo così appassionata che, a parte l’aspettativa sublime di finire in quella specie di forno che aveva per bocca, ci sarebbe bastato il solo spettacolo della sua bravura a renderci felici.
– Guardate quant’è rosso!
– esortò ancora Boccalarga mostrandoci il cazzo, non bastandole evidentemente le provocazioni di cui ci aveva elargiti (come se, poi, ci fosse bisogno di esortarci a guardare! ).
– è durissimo! Sembra un pezzo di legno! Era vero. Era durissimo, duro quanto un pezzo di legno. Così pareva, almeno. Ma soprattutto era grande, enorme, una specie di manganello cresciuto troppo sulla punta. Lo mostrò a noi perchè dava soddisfazione a lei. Se lo rimirò un cinque secondi, incantata come una ragazzina delle elementari davanti a una torta alla crema e poi prese a lapparlo. Lo fece con il suo solito stile: mettendocela tutta. Estrasse la lingua, esagerando per ostentarsi (ne tirò fuori un palmo quasi), e leccò per bene, come meglio poteva. Lo lavorò a lungo, e lentamente, affinchè fosse possibile seguire passo passo le fasi dell’operazione, chè non ce ne sfuggisse una, il minimo particolare.
– Sono una mangiatrice di cazzi!
– commentò soddisfatta a un certo punto.
– Una vera porca di bocca! Un’altra come me non se ne trova, neppure a cercarla in tutta Roma! Replicammo emettendo ruggiti di eccitazione (vi fu anche un’improvvisato coro discorde di “baldracca! “, “bocchinara! “, “troiona! “). Ci piegammo in avanti, accellerando il ritmo delle mani, parossisticamente tesi verso il gran finale, verso quel diluvio apocalittico che ci aveva mossi a quella festa, che ci stava nella testa, e ci rendeva gli occhi brillanti e le mani agili e veloci.
– Mi piace il cazzo!
– confessò la troiona.
– Specialmente quando sono grossi e duri, pronti a schizzare. Vorrei averne sempre qualcuno da ciucciare. Meglio se due o tre, o cinque, come adesso. Andrei avanti più a sborra che a pane, se potessi! Ma non si può, il pane bisogna mangiarlo comunque e lo stomaco più di tanta roba non riceve! Fummo solidali con lei nel suo rammarico. Davvero, peccato! Sarebbe stato bello altrimenti presentarlesi un paio di volte al giorno e dicendole: “ti abbiamo portato il pane quotidiano”, sfoderare i cazzi e dare il via alla festa! Sarebbe stato edificante, un’azione da libro cuore, degna di essere citata nelle prediche Pasquali e riportata sui libri di testo! Per dimostrare quanto fosse autentica la sua predilezione per i cazzi di buon calibro, lappò di nuovo quello che aveva per le mani, sospirando ed emettendo versi estasiati, tenui e febbrili. Smise di lappare e prese a tormentarlo sul meato, che picchettò con soffici colpetti in punta di lingua. Il fortunato si torse.
– Ahaaa!
– fece a più riprese. E poi:
– Mi stai facendo morire.
– Questo è niente!
– replicò lei ridendo.
– Adesso vedi! Adesso ti faccio morire! Soffiò sopra l’uccello, se lo strofinò sotto il naso, tentò di infilarlo dentro, dentro anche le orecchie, lo fece danzare nuovamente contro le labbra, con le labbra lo percorse a lungo, su e giù, dandogli aperta dimostrazione di quanto potessero essere soffici, umide, carezzevoli; e quanto avide, oscene, prepotenti. Lo succhiò ripetutamente incavando esageratamente le guance. Lo tormentò con i denti e lo graffiò con le unghie. Lo strinse infine con tutta la sua forza, con atto simile a quando di spremere un tubetto di dentifricio, quasi che con quell’atto di stringere volesse spremerlo sull’istante, e riceverne subito la sborra in faccia. Quando credette di averlo cotto e rosolato a puntino lo lasciò andare di colpo, lo contemplò con occhi sfavillanti (il cazzo sussultava invocando la pietà di altre carezze, la misericordia di essere condotto dove voleva, all’unica meta che fosse capace di concepire: l’orgasmo! ); gli diede una schicchera, un ultimo colpo di lingua, e passò al seguente. Al quarto. Il quarto tentò il mio stesso colpo, ma senza attendere in convenevoli. Glielo infilò direttamente in gola. Essendo di dimensioni più modeste, quasi vi riusciva. Quasi. Ne restarono fuori un paio di dita, la parte più grossa; tant’è che la donna ingolosita, approvò l’atto, e si sforzò di favorirlo; e nella speranza di avere il meglio del boccone, gli andò generosamente incontro con la testa, riuscendo però a malapena ad arrivare a sfiorare il pelo del pube con le labbra. Fu lo stesso impressionante vederla alle prese con quella gran canna, di cui la maggior parte le era sparita in bocca. La estrasse. Lo contemplò. Sorrise. Fece boccuccia e gli diede un bacio. Un bacio quasi casto, da bambina alle prese col bambolotto preferito. ERA UNA BAMBINA ALLE PRESE COL BAMBOLOTTO PREFERITO. Un po’ tanto porca, se si vuole, ma troppo entusiasta PER NON ESSERE GIUDICATA CON UNA CERTA INDULGENZA. La giudicammo con indulgenza. In quel momento in cui, i testicoli pieni, non vedevamo altro che il piacere che sapeva darci, dismettemmo le nostre ristrettezze mentali da maschi e fummo tutti per lei, suoi estimatori. Totalmente, senza riserve, con animo sincero. Le eravamo grati, per quello che stava facendo. Eravamo grati e ammirati. Ammiravamo estasiati infatti l’uccello di turno, bello, superbo, orgoglioso, felice del trattamento che subiva; lo ammirammo combattuti da opposti sentimenti. Da una parte smaniando dalla voglia che continuasse a “trattarlo”, per assecondare la nostra gioia di guardoni; dall’altra smaniando dalla voglia che venisse a “trattare” noi, noialtri cavalloni in fuga sulle strada dell’orgasmo (andavamo al galoppo, infatti), lì pronti a far la parte dei maschioni, quelli con i coglioni pieni di broda e la decisione sufficiente a trovare la donna adatta e capace di scaricarceli. L’uccello era stupendo, rosso, congestionato, lucido di saliva. Sussultava in modo tanto violento che quasi sembra dovesse sfuggirle dalle mani della sorciona; la quale, da parte sua, cavallona in fuga sulla strada dell’orgasmo, ansimante per averlo tenuto dentro troppo a lungo senza respirare, non resistette oltre, desiderò esibirsi ancora, perciò ne reintrodusse un pezzetto e prese a pasteggiarlo in modo civettuolo.
– Buono!
– ammise contenta.
– Ha un buon sapore. Lo risucchiò nuovamente dentro tutto. Ci parve quasi di vederla, di sentirla, mentre gli riservava la sua ricetta speciale per cazzi in furore, la lingua che roteava impazzita, i denti che davano strette assassine, i succhiotti che producevano deliziosi vuoti pneumatici… le mani corsero ancora più veloci sulle canne, se possibile. Ci irrigidimmo attaccati ai nostri uccelli, consapevoli di essere a un passo dal gran diluvio finale, quel diluvio ideato più volte nei nostri cervelli, concordato con la sorciona, ed ora splendidamente in procinto di essere realizzato. Ero stato io a proporre la faccenda. Conoscevo di vista la miciona e sapevo fin troppe cose su di lei. Perciò era andato diretto, subito al sodo. Era il metodo migliore con lei (ma pareva lo fosse con tutte), quello che produceva frutti più fecondi.
– Che ne dici?
– avevo chiesto subito dopo averle presentato gli amici.
– Tutti e cinque, va bene? Con la bocca! Credi di poterci riuscire? Lei, per tutta risposta, l’aveva socchiusa quella sua gran bocca da succhiatrice nata; s’era passata lasciva la lingua tra le labbra e aveva risposto sfrontata:
– TU CHE DICI! Ci posso riuscire? Avevo ignorato la domanda, troppo preso dal delirio personale che mi aveva spinto a formulare la proposta. Nella testa turbinava l’immagine di cinque grassi cazzi eruttanti e lei che non sapeva più a quale di essi attaccarsi.
– Rischi di annegare nella sborra…
– avevo mormorato suggestionato da quei pensieri. La lingua era tornata a passare tra le labbra. Gesù! da violentarla sull’istante quella tipa! da scendere in strada per reclutare qualche dozzina di passanti, e correte! al soccorso! c’è una pazza che non si riesce a domare! Correte tutti chè ce la mettiamo sotto! Forza, fatevi avanti, la da via gratis!
– Ci succhi e ci bevi,
– proposi ancora.
– La bocca spalancata, a fontana… Lei docile docile, per dimostrarci quanto fosse spudorata, più spudorata che consenziente, l’aveva subito spalancata la bocca, un vero forno, producendo in noi uno sconquasso erotico tremendo. Aveva estratto la lingua e tenendola ben bene fuori dalla bocca ci aveva mostrato come avrebbe fatto con noi, come ci avrebbe bevuto, offerta la bocca e fatta venire una sincope. Tenne la lingua di fuori proprio come se fossimo già in fase di orgasmo e mancasse un niente al primo schizzo.
– Un quarto a testa te ne daremo,
– promisi.
– Siamo in cinque e tutti e cinque con i coglioni pieni. Ti ingolferemo di sborra, credimi. Non saprai più come ingoiarla, dove spargerla, la roba che ti daremo. Non ti basterà lo stomaco, o l’intera faccia per prenderla tutta! Ti scolerà da ogni parte! Ti ci potrai fare anche il bagno, se lo riterrai opportuno! Non battè ciglio. Probabilmente non era alla sua prima sbocchinata collettiva. Doveva ben sapere cosa significasse essere inondata da una mezza dozzina di maschi! Era certamente consapevole, collaudata… Mi aveva fissato, e riso, una risata tutta di gola, una risata da vera troia, da troiona autentica, con il diploma di laurea, la lode e tutto il resto; aggiungendo, con espressione di sfida:
– Credi? Credi davvero non sia capace di ingoiare la roba di tutti e cinque? No, che non lo credevo. Anzi, ero sicuro del contrario! pure dieci era capace di berne; pure venti, uno dietro l’altro, come si favoleggiava fosse nei suoi progetti, e favoleggiava persino avesse fatto; uguale in questo alla stupenda Jo Squillo, la quale, si racconta, sognava di avere intorno un branco di punk assatanati che la imbrattavano dappertutto con la loro broda e poi la ripulivano a colpi di lingua. In cambio ottenevano un trattamento speciale con cui venivano spompati a turno, come si conveniva, una volta col culo, una con la fica, una terza con la bocca; oppure tutt’insieme con culo, fica, bocca (e mani) contemporaneamente; oppure ancora bevuti a turno, ma non uno alla volta, a coppia, anche in tre, via a schizzare dentro la bella bocca della cantante e a dargliene tanto da farle evnire l’indigestione.
– Oh!
– avevo esclamato, persuaso sull’istante dalla sua abile dialettica.
– Se pure lo credevo, ora non lo credo più. Potere puoi, ma il problema un altro: ti va? Nuova risata assassina. L’avevamo fissata spiritati. Ci fissò intensamente. Il suo sguardo era sceso e si era appuntato all’altezza del cavallo dei calzoni, là dove un malloppo notevole denunciava ampiamente il nostro stato.
– Hai capito, dì,
– avevo insistito, più per il gusto di dirlo, che per timore di equivoci.
– Tutta in bocca devi prenderla la sborra. Cinque venute. Da morirne annegata! Aveva sorriso. Un sorriso tiepido, saputo, provocante.
– Non vi preoccupate. IO NON MI PREOCCUPO. Inghiotto rapidamente, se necessario. Comunque annegare nella sborra è sempre stato il mio sogno… La frase ci era piaciuta, per cui avevamo deciso di dimostrarle la nostra ammirazione in modo acconcio; e afferrandola tutt’insieme senza riguardi le strizzammo le carni per bene, fino a farla strillare. Non avevamo perso tempo in ulteriori, inutili cerimonie. Le avevamo subito offerto i cazzi e lei s’era data da fare, trascinandoci in breve fino al punto in cui eravamo.
– Cazzo!
– esclamai.
– Sono cotto! Boccalarga mi fissò minacciosa.
– No!
– impose con energia.
– Aspetta! Rallentai il ritmo della masturbata. Il caldo bruciante dello sperma accennò ugualmente ad affacciarsi oltre i testicoli. Bloccai del tutto ogni movimento. Appena in tempo. Tra mano e pensieri lascivi, mi ero decisamente portato al capolinea. Strinsi i denti, combattendo per lunghi secondi contro l’orgasmo. Una sofferenza atroce, una battaglia cruenta che solo l’occhiata ammonitrice della sorciona mi permise di vincere. Av rei rovinato l’intera scena altrimenti. L’avrei rovinata alla sorcia (che ne avrebbe avuto uno in meno) e a me stesso, che mi sarei perso il meglio della goduta collettiva. Gli altri infatti, se pure anche loro prossimi alla meta, avevano ancora parecchio da lavorare per arrivare a scaricarsi. La donna controllò che ottemperassi al suo monito, rimboccò il quarto, e prese a muovere la testa come fin’ora non aveva fatto. L’atto essenziale, tipico, del bocchino. Su e giù con il capo. Ma non piano, gustandoselo, come fa la maggior parte delle donne; ma all’impazzata, quasi che intendesse distruggerlo. Lo estraeva e lo immergeva nelle fauci a velocità supersonica, in un vortice di versi, guaiti, squittii, e suoni liquidi. Tremendo. Desiderai e temetti di poter subire il medesimo trattamento. Mi parve quasi di sentire i denti che rigavano la pelle! Da averne la pelle arrossata, il cazzo pesto e sanguinante! Fui scosso da un brivido voglioso/impaurito. Lo stesso brivido che scosse il tipo che prestava l’uccello.
– Puttana!
– ansimò costrui torcendosi.
– Me lo sta lessando! La puttana si arrestò di botto, il Coso ingolfato fino in gola, la labbra avidamente tese verso il pube, tese ad ingoiarlo tutto, ingoiare anche quel paio di dita che restavano fuori. Le labbra rimasero in posizione di stallo un attimo, apparentemente impossibilitate a procedere; l’attimo si consumò e cominciarono ad avanzare. Avanzarono, avanzarono… lentamente, impercettibil mente, ma avanzarono. Avanzarono di mezzo centimetro, poi di uno, di due, muovendosi oscenamente intorno alla canna, il viso con tratto, la glottide in piena attività. Ancora un centimetro, un’altro! Lei ebbe una gemito profondo soffocato, una contrazione della gola, si spinse decisamente in avanti e il cazzo scomparve tutto, TUTTO, ingoiato dalla favolosa puttanona. Sparì veramente tutto. Neppure un millimetro rimase fuori. Le labbra affondarono nel folto della peluria. La sorcia, apparentemente imperturpabile, tenne dentro, ficcato in gola, il gran batacchio per un tempo che parve, lun ghissimo, eterno. Da parte sua il possessore del cazzo si torse, ansimò, chiese misericordia.
– Cristo! Mi sta ammazzando di piacere!
– ammise. Nossignore, non lo stava ammazzando. Lo stava beatificando invece, lo stava mandando direttamente in Paradiso senza neppure farlo passare per il via. Gli stava rinfrancando lo spirito mentre gli tormentava la carne. In breve, lanciò anche lui in orbita, alle soglia dell’orgasmo. La benefattrice se ne accorse e si sbrigò a tirarsi indietro. C’erano ancora tanti giochetti da fare prima di dare il via ai fuochi d’artificio! C’erano tanti sfizi da prendersi! e tanto piacere da offrire! Si tirò indietro e restò a contemplarlo palesemente appagata dai risultati conseguiti. Il pisello era violaceo, pronto a schizzare, completamente ricoperto dalla saliva. Lei lo succhiottò in punta e rise di felicità.
– Non c’è male,
– commentò orgogliosa.
– Maturo al punto giusto! Ma non cercò di mangiarlo. Si diede al quinto. Si volse all’ultimo e gli si offrì a bocca spalancata. Il quinto azzardò chiedere il medesimo trattamento.
– Anche a me tutto,
– disse.
– Fino in gola! Lui l’aveva altrettanto lungo del quarto, cioè non immenso, di misura dignitosa, però grosso il doppio, il che lo rendeva una specie di tappo mostruoso che invano la bella cercò di imboccare. Per quanto l’avesse larga, spaziosa, accogliente, per quanto la spalancasse, non bastò, la chiostra dei denti funse da barriera, e si dimostrò insuperabile.
– Madonna!
– disse Boccalarga dopo ripetuti tentativi.
– Sembra quello di un asino! Questo è per cavalle, non per donne! Lo accostò di nuovo alla bocca e riuscì ad averne la punta.
– Bisogna che ti contenti, piccola, puoi dargli solo piccole lappatine,
– mormorai eccitato.
– è troppo grosso! Dovette contentarsi, infatti. E anche il tipo a cui era attaccato. Dovette contentarsi di alcune slinguate voluttuose e di bei colpi di polso, la mano ben stretta intorno al cazzo, una sapienza da sacerdotessa del sesso, il sorrisetto solito con cui le donne svolgono quella bella funzione. E dovette contentarsene al quanto, se dopo un po’, specialmente quando lei si spalmò la canna sulle guance, andando poi a grufolare in mezzo ai coglioni come una vera scrofa, iniziò ad ansimare e ad ammettere che era bello, che gli piaceva, che non doveva smettere, che lei era stupenda come pompinara. Lei apprezzò i complimenti e intensificò le cure. Lo afferrò con i denti di lato e strinse un pochettino. Addentò ancora in varie parti e gli massaggiò le palle. Infine un gran succhiotto sulla punta e il lavoro venne concluso e perfezionato con alcuni bacini lievi e convinti sullo scroto e lungo la canna. La via Crucis ricominciò da capo, col primo, quello che aveva dato il là alla festa. Lo prese e se lo tenne al caldo il bocca per un po’, agitando la testa, succhiandolo e masturbandolo. Un paio di minuti di dedizione e lo lasciò andare. Fu nuovamente al mio, tutta per me.
– In gola!
– chiesi/ordinai in tono strozzato.
– Tutto! Fino ai coglioni! Non confidavo di essere esaudito. Invece mi esaudì. Sorrise, ammiccò, lo lappò gentilmente sulla testa e disse:
– Ci provo. Il tuo è veramente troppo lungo. Sai, non è che abbia così tanta pratica… Bugiarda! Non aveva pratica, diceva! Ma se era la migliore bocchinara d’Italia! Se inghiottiva gli uccelli con una disinvoltura che neppure una artigiana dei prostiboli poteva vantare! Se ne aveva presi così tanti da perderne il conto! Se aveva ricevuto più sperma lei in gola che Messalina nella fica (a parte che pure Messalina con la bocca, non scherzava mica! )! Ahaaa! Impossibile ragionare con le donne! Impossibile cavare un ragno dal buco. Solo sperma dai coglioni (e altra roba su cui qui non interessa attardarsi). Sperma dai coglioni e palpate micidiali, di quelle che poi ti rimangono nelle mente per anni, e che non riesci più a scordare. Quanto a ragionare però, se decidevano di non farlo, non ci ragionavi proprio! Doveva andar bene a loro ragionare (e allora, tremendo! erano cavoli tuoi, ti mettevano all’angolo in un amen! ); altrimenti se ne uscivano con le assurdità più incredibili, pretendendo per altro, pena giorni e giorni di musi ingrugniti, che le prendessi pure sul serio. Senza contare che il mio non era poi così lungo come voleva far credere. Non certo TROPPO lungo. Solo lungo (e grosso in proporzione). Lungo e basta. Bugiarda doppia, dunque. Tripla anche, probabilmente. Doveva esserlo (devono esserlo! ). Altrimenti come farebbero a sopravvivere le sorcie di buona qualità assediate come sono dalla legione di maschi prepotenti e assatanati che si aggira per il mondo?
– Per una come te?
– articolai a fatica, gli occhi piena della sue bella labbra pronte al risucchio.
– Per una come te questo è niente!
– Va bene,
– consentì sardonica.
– è niente. Venti centimetri di niente. Vediamo che effetto fanno a ficcarseli in gola! Detto fatto, imboccò l’uccello, agitò il capo un paio di dozzine di volte, prima lenta, lenta lenta lenta, sorbendo l’uccello un centimetro per volta, gustandosene la grossezza e il sapore, poi veloce, sempre più veloce; finchè, al termine di uno dei tanti affondi, si arrestò di botto, come aveva fatto prima col quarto, fremente, le labbra tese, proiettata verso il boschetto che circondava il palo, bel praticello nero entro cui ambiva arrivare a brucare. Assistemmo di nuovo a quei straordinari movimenti del viso e della glottgide, i lineamenti deformati, le mascelle incalzanti, con cui preparava l’immissione dell’uccello in gola. Alcuni secondi di preparazione e iniziò ad avanzare. Sentii subito la pressione morbida intorno al glande, qualcosa che lo avvolgeva tutto, una sensazione di caldo intenso, di pressione ineffabile, quale neppure in una fica stretta avevo mai sentito. Neppure in un culetto fresco e accogliente. Lì nel culo, la pressione si esercitava principalmente alla base dell’uccello; o nel punto preciso in cui lo sfintere stringeva l’uccello; qui la pressione si esercitava sulla sommitea, nel punto in cui il cazzo era più sensibile, ed era una pressione variabile, soggetta alle contrazione della gola, e ai movimenti con cui la bagasciona si aiutava a procedere. Avvertii un piacere grandissimo, profondo, un piacere che mi portò sull’orlo del deliquio. Entrai in uno stato di beatitudine tale che desiderai durare eternamente in quello stato, desiderai restare nell’eternità dei tempi dentro la bocca di quella meravigliosa succhiatrice che mi gratificava dei suoi servigi. C’era qualcosa di morbido che comprimeva il glande, lo stringeva e lo tormentava. Una guaina che pareva inventata per lui, una guaina capace di avvilupparlo e stimolarlo tutto. Stimolato e avviluppato il glande si gonfiò, si gonfiò e si gonfiò, pretese di esplodere. Digrignai i denti e cercai di pensare ad altro. Ma cosa, con quella specie di idrovora attaccato all’uccello? L’idrovora non si contentò di quel che aveva già avuto. Volle ficcarselo fin nell’esofago. Lo volle tutto, veramente tutto. Riprese perciò ad avanzare, ed avanzò, avanzò lungo il percorso accidentato, lungo però non più di sette/otto centimetri (quel che era sfuggito ai suoi reiterati affondi), ma che doveva parerle impossibile da coprire; avanzò e strabuzzò gli occhi, le mandibole enormemente dilatate, la base del pene che le costringeva a dilatarsi ulteriormente. Trattenemmo il respiro, ammirati ed eccitati, quasi incapaci di connettere. Io perchè cercavo di tenere insieme l’anima coi denti (più che l’anima la marea montante dello sperma). Loro che cercavano di spremerla agitando i palmi a perdifiato. Avanzò ancora. Avanzò gloriosamente. Tuttavia non raggiunse la meta. A un certo punto fu costretta a fermarsi. Era troppo, apparentemente troppo per lei. Dovette ritirarsi. Si ritirò e l’estrasse di bocca. Tossì quando lo ebbe fuori. Trasse un paio di respiri molto profondi. Poi tornò ad occuparsi di LUI, l’uccello, per gratificarlo di nuove delicatezze. Lo contemplò con occhi accesi, quasi commossa. Le piaceva che fosse tanto lungo da renderle impossibile inglobarlo tutto.
– è troppo lungo,
– ripetè contrita massaggiandosi le mascelle.
– Non ce la faccio.
– Dai riprova,
– l’esortai.
– Sono sicuro che puoi. La mia era una sicurezza tutta interessata. Non ebbe udienza, infatti. Boccalarga scosse la testa in segno di diniego. No. Non era il caso. Non se ne parlava nemmeno!
– Mi sloghi la mascella, amico,
– commentò.
– Senza contare il rischio che, così lungo com’è, finisca dritto in mezzo ai succhi gastrici. Non sarebbe piacevole per te, credimi. La marmaglia rise. Continuò a fregare con la solita lena gli uccelli.
– Ahaa!
– feci.
– Non esagerare! Non è così tanto lungo! Lei fece segno di no. Non le andava di soffocarsi con il mio aratro di carne.
– Fatti scopare un poco in bocca, almeno! Su questo non si lasciò pregare. Apprestò subito la bocca. Schiuse notevolmente le labbra, la lingua che faceva capolino tra di esse e mostrò di essere pronta. Pronta a essere scopata in bocca. Le poggiai una mano dietro la nuca e la trassi verso l’uccello. Lei, Dio l’abbia in gloria, tenne le labbra ferme, bene in fuori, offrendomi un imbocco ideale, e l’attrito giusto per per mettermi di godere della faccenda. Gliene infilai dentro una metà e mi ritrassi. Bello. Stuzzicante. Tornai a infilarmi dentro e a ritirarmi. Ancora più bello, più stuzzicante. Ci presi gusto. Le andai dentro e fuori muovendo i fianchi come se la scopassi, sbattendole all’indietro la testa. La scopavo in effetti. Solo che al fondo non sentivo il collo dell’utero, ma la tensione della gola. Solo che non era la morbida guaina della fica a spremermi, ma le labbra imbronciate della sorcia. Solo che l’atto che commettevo era parecchie volte più libidinoso che non una semplice scopata e mi colpiva fin nei precordi. Andai avanti e indietro una ventina di volte e dovette fermarmi, i coglioni nuovamente in procinto di schizzare. Lei si staccò, fece ciao con la manina, e passò oltre. Aveva il secondo giro da completare. E aveva anche fretta di completarlo. Fu efficiente, rapida, un po’ precipitosa (si vede che anche lei stava agli sgoccioli). Se l’infilava in bocca, muoveva un po’ la testa e un po’ le mani, se li strofinava sulle guance, sui denti, sul collo, li lappava convenientemente, li lasciava e riprendeva col prossimo. Completò il secondo giro e ricominciò col terzo. A due tre per volta, senza attardarsi, ancora più veloce. Uno lo succhiava, altri due se li lavorava con le mani. Divenne progressivamente avida, frenetica, insaziabile. Non le bastavano tre contemporaneamente, li voleva tutti, tutti e cinque. Ci insegnò ad accoppiarli a due a due, e lei dai a lisciare il doppio fallo, che non poteva stringere, passandoci sopra lascivamente il palmo. Con la bocca poi continuava a succhiare. Le coppie di falli si formavano e si disfacevano in continuazione. A un certo punto smise di lavorarle con le sole mani e si contentò di averne due per volta, ma tutte e due in bocca. Ne uscirono dei doppi bocchini formidabili, durante i quali si estrinsecò in carezze, baci, succhiotti, manipolazioni di ogni genere. A un certo punto si alzò e pretese di essere baciata.
– Slinguatemi,
– chiese/impose/pregò con voce di miele, da gattina in succhio.
– Voglio che sentiate il sapore che ho dentro… Si attaccò a me e feci come chiedeva, la slinguai in profondità, eccitatissimo, sentendo che gli altri ansimavano, letteralmente travolti dallo spettacolo. Lei divenne arrendevole, molle, fu difficile tenerla in braccio. La lasciai andare e scivolò giù ai miei piedi. Anche il suo braccio scivolò giù e si fermò in mezzo alle coscie, dove a tratti era andata a pasteggiare, per darsi sollievo, e per TENERLA BUONA. Ma non poteva più tenerla buona. Dovette darle qualcosa. Gliela diede. Sotto i nostri occhi incantati la mano corse veloce e la fica fu felicemente contentata. Lei poggiò la guancia contro il mio pube e chiuse gli occhi. Emise alcuni gemiti lunghi, lunghi, che ci colpirono al cuore, gemiti sommessi alitati dalle labbra schiuse, mentre con la guancia si strofinava contro la pelle serica del pene, appagandosi della sua durezza. Fu un orgasmo lieve, delicato, che sorprese. Assolutamente inaspettato in una come lei. Da lei ci aspettavamo grandi scene, torcimenti, smanie, escandescenze, urla di piacere. Invece niente. Inarcò il corpo, miagolò come una gattina alla sua prima esperienza e si acquetò contro la mia coscia. Quando scosse il capo e riaprendo gli occhi sorrise, ormai era fatta. Eravamo pronti a venire a cascata.
– Eccomi,
– dissi alla bella porgendogli l’uccello.
– Sto venendo. La sorciona prontissima corse ad imboccarlo a bocca spalancata. Sostituì la sua mano alla mia e ansimando come una cagna invocò lo sperma.
– Sì! Sì!
– gridò a gran voce, facendosi finalmente riconoscere come la puttana che era.
– Vieni! Schizza! Sborra! Sborrami in bocca! Una vera maiala di bocca la tipa! Strinse la carne in basso, risalì con la mano, come ad attrarre a sè lo sperma e mi imboccò per bene, succhiando alla disperata.
– Ohooo!
– feci sentendomi morire. Stavo veramente venendo. Un calore inaudito, bruciante, attraversò tutto l’attrezzo e godetti la contrazione con cui fu espulso il primo getto denso, abbondante, salato. Il getto la colpì in pieno, sul retro del palato, un colpo da rinculo, e in effetti rinculò col capo.
– Uhhhmmm!
– fece lei deglutendo prontissima, vorace. Schizzai ancora in rapida successione costringendola a deglutire alla svelta per non restarne intasata, mentre gli altri, consapevoli di essere all’epilogo, uggiolarano come tanti cuccioli:
– A me! A me! In bocca! Presto, non ce la faccio più! Fu costretta a lasciarmi, che ancora stavo schizzando, per offrire le fauci aperte a una coppia di forsennati che le si rovesciarono dentro insieme, liquido perlaceo a fiotti, ne vidi il primo scarico e mezze labbra e rabbrividii di nausea ed eccitazione. Il quarto, pure pronto a sparare, la colpì di lato sulla guancia. L’altra la decorai io con i miei ultimi spasimi. Lo sperma che riceveva fuori scese denso sulla spalla e sul seno: quello dentro scivolò quasi tutto in gola e da lì nello stomaco. La donna infatti deglutiva vistosamente, frenetica, quasi sopraffatta dal fiume di roba che le si riversava dentro, ma riuscendo comunque a farvi fronte; nello stesso tempo, pietosa come solo certe donne sanno esserlo, continuò a masturbarmi, accompagnando il mio orgasmo fino al termine. I due in bocca finirono e lei si offrì a quello che le aveva impiastrato la guancia destra. Giunse appena in tempo per averne gli ultimi getti e poi si dovette contentare degli spasmi finali, e di lappare qualche goccia di seme dalla mano dell’uomo stretta intorno all’uccello. Venne poi a ripulire il mio e si ritirò soddisfatta.
– Ahaaa!
– esclamò.
– Quanti sapori tutt’insieme! Restava il cazzo di grandezza doppia, quello che non era riuscita a prendere in bocca. Gli si pose davanti, labbra bene aperte, anzi spalancate e mostrò com’era ridotta.
– Dai,
– sollecitò il maschio.
– Lo vedi quanta sborra? Non vuoi metterci anche la tua? Lui divenne rosso di eccitazione, balbettò qualcosa e si diede alcuni colpi di mano tanto feroci chè temetti volesse levarsi via la pelle a furia di smanazzarsi.
– Su,
– insistette allettante la donna presentandoglisi a labbra spalancate,
– vieni. Sborra! Riempimi la bocca. Pure tu come gli altri, fammi fare indigestione! Fissando il tapino con occhi assassini si portò davanti al viso la mano con cui mi aveva masturbato e che era ben bene intrisa di sperma. La lappò con intenzione. Se la passò poi sulle spalle, sulle tette, ovunque sentisse la presenza dello sperma, lo spazzolò ben bene e se la riportò alla bocca per lambirla. Leccò le dita come una bambina golosa alle prese con un barattolo di marmellata.
– Voglia anche la tua,
– affermò decisa.
– Lo sai no? Lui annuì e fece comprendere, dal tipo di colpi secchi con cui si fece, che era arrivato. La mano compiva armai dei gesti lunghi, solenni, forieri della prossima tempesta, andando dall’apice alla base, con velocitè e impegno, con dedizione e ritmo. PAF! PAF! PAF! faceva il pugno incontrando il soffice del ventre. Aveva ricevuto meno di tutti, e più di tutti perciò era durato; ma ora anche lui era al dunque. E dunque!
– Ohooo!
– gemette inarcandosi tutto. Schizzò. Uno schizzo feroce e male diretto che colpì il volto della donna come uno schiaffo. Lei si avventò in avanti, poichè non intendeva perderlo, e riuscì a catturare il secondo schizzo, sparato con dovuta precisione. Non gli altri però, in quanto non potendo tenerselo dentro, e agitando l’uomo la mano masturbante, sparse il seme ovunque, sul naso, sulla fronte, sulle gote, tra i capelli. Di tanto in tanto lei riusciva a catturarne un mezzo sorso che scolava lungo la canna e lo inglobava golosa leccandosi le labbra. Completò l’opera ripulendo il grande arnese, spremendolo, facendosi scolare sulla lingua le ultime gocce. Ogni volta che ne riceveva uno emetteva un verso di soddisfazione.
– Buono,
– affermò convinta alla fine.
– Buono il sapore dello sperma. Peccato voi maschi ne abbiati così poco da dare.
– Beh!
– intervenni.
– Questa volta non ti puoi certo lamentare. Ne hai fatto il pieno!
– Il pieno?
– fece lei.
– dici?
– Non mi dire che ne berresti dell’altro!
– NON MI DIRE CHE NON NE AVETE ALTRO! Ci fissammo interdetti. Fissammo la sorcia. Boccalarga sorrideva serafica, il volto impiastrato, le mani pure, la bocca che sembrava un cesso. Mostrò la lingua. La lingua era il peggio. Due cessi. Non si vedeva il rosso della carne, ma solo il traslucido bianco dello sperma. L’esibizione ci convinse. Davanti a quella lingua ogni commento era superfluo. Ogni Maschile limitazione impensabile. Vana ogni considerazione di opportunità e merito. Non c’era che una risposta da dare. La demmo. Afferrammo gli uccelli mezzi mosci e riprendemmo ad andare. FINE

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