Stavo studiando, o meglio ero seduto alla mia scrivania davanti al libro, quando il campanello suonò facendomi prendere uno spavento. Fu come un brusco strattone datomi dalla realtà: allora mi alzai dalla sedia per correre in bagno a guardarmi allo specchio. Ero tutto spettinato, la barba lunga di due giorni ed ero vestito”da casa”, cioè con dei jeans vecchi, una felpa ancor più vecchia e sopra una camiciona a scacchi da montagna. E fuori poteva esserci il postino, oppure qualcuno che era venuto a trovarmi, oppure di peggio… Tutto ciò sembrava tanto la storia della mia vita: una perenne attesa, mal vestita, di qualcuno che quando arrivava ti coglieva sempre impreparato e quindi ti lasciava subito dopo.
Ormai era passato parecchio tempo dalla scampanellata e dovevo per forza uscire sul terrazzo in quella metà mattina, mentre me ne stavo tranquillo a casa mia, senza nessuno che mi controllasse, a vagabondare con la mente e a far finta di studiare… ingannando anche me stesso.
Cercai di dimenticare il mio aspetto impresentabile, aprii la porta e uscii sul terrazzo: il tipo, un giovane venditore ambulante di colore, stava guardando verso gli altri appartamenti. Aveva evidentemente suonato tutti i campanelli per vedere se almeno qualcuno avrebbe avuto la gentilezza di rispondere. Io ero l’unico che era uscito. Considerai per un attimo se svignarmela, ma ebbi pietà e dissi:
“Sì?”
Lui allora voltò la testa e guardò dalla mia parte, sorridendo e aprendo la borsa.
“Compri qualcosa ?”
Vedevo la chiostra di denti bianchi che risaltava sul nero assoluto della carnagione e dei capelli cortissimi. Sembrava anche simpatico, così a prima vista. E anche un bel ragazzo, mi sorpresi a pensare. Alto sul metro e ottantacinque, robusto.
“No”, gli dissi.”Non mi serve niente”. Si dice sempre così.
“Dai, per piacere, compra qualcosa. C’è roba buona”.
“No, veramente, scusa, ma non mi serve niente”, ribattei. Stavo per girarmi e tornare dentro, quando ebbi ancora un moto di pietà (o qualcos’altro: adesso me lo chiedo) e gli proposi:
“Se vuoi ti posso dare qualche euro…”
“No!”smise di sorridere.”Io non accetto carità!”
“Ok, va bene, allora ciao”, lo salutai, ma non ebbi il tempo di voltarmi perchè lui disse ancora con un tono stavolta molto meno duro di prima:
“Però ho fame… Mi dai qualcosa da mangiare?”
Io non risposi; seguitai però a guardarlo e intanto pensavo che non avevo mai aperto a nessuno di loro, ma che era affabile e non troppo invadente.
Notai anche che nessuno degli altri inquilini era ancora uscito fuori, e inoltre nessuno passava sulla stradina di periferia dove è situato il mio palazzo. Ad un tratto mi tornò in mente tutta la pornografia che inquinava il mio cervello e la mia anima, e mi sorpresi a pensare al suo sesso. Sesso nero: ne avevo visti di enormi, in foto. E chissà se anche quel ragazzo…
Soggiogato da questi pensieri, col cuore che già correva a mille, dissi un”sì”strozzato e andai ad aprirgli la porta.
Lo aspettai in cima alle scale: lo vidi salire portandosi faticosamente appresso la borsa, con la sua chiostra bianca di denti di nuovo in mostra.
Sorrisi molto imbarazzato, e non parlai per non far rumore ed evitare che gli altri inquilini del palazzo sapessero che l’avevo fatto entrare, se c’era davvero qualcuno a casa quella mattina.
Richiusi svelto la porta alle sue spalle, e mi domandavo perchè mai stessi prendendo tutte quelle precauzioni visto che non stavo facendo niente di male. Era una buona azione che gli altri non avevano il coraggio di compiere, mi ripetevo. Ma dentro di me si era già accesa una maledetta lampadina, e io la conoscevo bene: per una volontà debole come la mia quell’idea era quasi impossibile da spegnere.
Lo feci accomodare e poi presi del pane e del prosciutto dal frigo e gli feci un panino. Mentre tagliavo il pane gli davo le spalle: ero in piedi mentre lui si era accomodato al tavolo della cucina. La sua borsa era posata vicino alla sedia.
Non sapevo bene cosa dire, ed ero tormentato dai dubbi su quello che stavo facendo. Ma in mezzo al mare continuava ad avanzare, inarrestabile, la pinna di uno squalo… un pensiero cattivo: peni enormi, neri come la notte, dai larghi glandi color amaranto, che entravano, allargavano, infilzavano, impalavano e poi spruzzavano litri e litri di liquido bianco su facce estasiate dal diluvio latteo. Presi tempo anche con me stesso: mentre mangiava gli chiesi da dove veniva (“Zambia”) e notizie su come si era sistemato qui (“dormo in una stanza con altri due amici”). Si chiamava Oumou. Verso la fine del panino cominciò lui a chiedere di me, così apprese che avevo già trent’anni ma che studiavo ancora. Ora il panino era finito e lui si stava già alzando in piedi per andarsene.
“Ora o mai più”, pensai. Sapevo che stavo facendo la cosa più sbagliata del mondo, ma un’occasione così chissà quando mi sarebbe ricapitata. La parte di me ancora saggia pensò:”Sì. l’ultima occasione, ma per degradarmi al grado zero! Pensa ai tuoi genitori, pensa ai tuoi amici, pensa!”Il cuore scoppiava, il respiro era corto, non sapevo dove guardare… ma qualcosa mi muoveva, qualcosa di invincibile, qualcosa di ineludibile come un coltello ben conficcato nella mia schiena.
“Senti… Io non voglio farti la carità. Però i soldi ti servono. Che ne dici di fare qualcosa per me e io poi ti pago?”
“Un lavoro?”, i suoi occhi si illuminarono. Non aveva ancora capito bene.
“Diciamo così…”, dissi. Ero molto imbarazzato: la voce mi tremava, sapevo che sbagliavo eppure una forza irresistibile ancora mi spingeva e non avrebbe smesso mai, fino al soddisfacimento del suo bisogno.
“Io… ho una curiosità”, gli dissi riuscendo finalmente a guardarlo in faccia.”Voglio sapere se… ce l’avete così grande come dicono tutti”, e mi torcevo le mani mentre lo dicevo. Ecco, il dado era tratto. Ora non potevo più tornare indietro.
Udendo le mie parole il sorriso si spense sulla bocca e disse:
“Ah… Non era un lavoro, allora. Vuoi sesso. Sei frocio tu?”
Io frocio. Due parole che non dovrebbero mai essere messe vicino. Però me l’ero domandato anch’io migliaia di volte. Così mi affrettai a rispondere quello che dicevo anche a me stesso, e negai:
“No! E’ solo curiosità. Perdona se te l’ho chiesto, scusa”.
Ecco fatto, almeno avevo provato: avevo fallito e ora mi sentivo una merda.
“Ora vai via, però”, gli dissi. Avevo fretta di liberarmene e pensare a qualcos’altro, qualcosa di positivo che risollevasse la mia autostima.
Ma quando alzai lo sguardo dalla mattonella che stavo scrutando per evitare
di guardarlo in volto, vidi che, in piedi a gambe divaricate, si slacciava i pantaloni. Non ebbi la prontezza di spirito per fermarlo, forse perchè il mio spirito non voleva certo fermarlo.
La mia bocca si aprì un po’ quando lo vidi abbassarsi i boxer bianchi all’altezza delle ginocchia dove stavano anche i suoi jeans impaccati: stava mettendo in mostra un biscione incredibile, che andava gonfiandosi ma che pendeva ancora verso il basso dato il notevole peso, e oscillava di qua e di là come un pendolo che stregava la mia volontà.
“Ti piace, vedo”, mi disse.”Quanto mi dai ?”
“Tutto quello che vuoi se me lo lasci toccare”, risposi mentre facevo qualche passo verso di lui. Non sapevo nemmeno che cosa stavo dicendo: gli avrei promesso anche di essere suo schiavo se mi avesse lasciato prendergli in mano quella mazza nera anche un solo istante.
“Toccalo pure, allora,”disse.
Io ero già vicino: glielo afferrai alla base con la mano destra. Era caldissimo e ancora morbido: sentivo pulsare le sue vene e presto la mia mano non sarebbe più riuscita a circondarlo tutto. Lo sollevai e poi lo presi anche con la sinistra, più vicino alla cappella.
“E’… stupendo…”, mormorai. Lui sorrise. Io cominciai ad accarezzarlo facendo scorrere le due mani a cilindro sul cazzo. Ora Oumou si stava davvero eccitando e ce l’aveva duro come il ferro: lo lasciai andare e, miracolo, quella colonna nera se ne stava eretta da sola. Erano venticinque centimetri a dir poco.
A questo punto lo afferrai deciso e lo masturbai, guardando quel serpente boa nero andare e venire fra le mie mani. Oumou taceva e, quando ebbi il coraggio di guardarlo, vidi che aveva socchiuso gli occhi e che sorrideva.
Ebbi l’impulso di baciarglielo, e fu in quel momento che realizzai che il suo odore non era dei migliori. La pulizia di Oumou non era delle più facili da mantenere, viste le condizioni di vita, e oltretutto in quella mattina di primavera faceva già caldo e il sudore di un nero ha un odore decisamente penetrante alle nostre narici.
“Oumou”, gli dissi,”vieni in bagno”. Non ebbi bisogno di spiegargli altro. Lo condussi verso il bagno trascinandolo per il fallo,
come se fosse stato un asino alla cavezza. Quando passai davanti allo specchio del salotto, e vidi che mi trascinavo dietro un ragazzo nero tenendolo per il pene, mi resi conto sia del fatto che mi stavo mettendo in un guaio e che la mia coscienza mi avrebbe impedito per sempre di vivere in pace, e sia che volevo lavarglielo alla svelta e tornare davanti allo specchio per guardarmi mentre glielo succhiavo. Il solo pensiero riuscì a farmi avere un erezione istantanea, tanto che presi a massaggiarmi il pube attraverso i pantaloni.
Giunti in bagno feci scorrere l’acqua e, trovata la giusta temperatura, gli avvicinai il fallo al getto. Notai che il color carbone risaltava ancor più sullo sfondo della ceramica bianca del lavabo. Lo insaponai con una mano e iniziai a strofinarlo in tutta la sua incredibile lunghezza, ricoprendolo di schiuma calda e confortevole. Non potei resistere oltre: abbassai pantaloni e mutande e con la sinistra mi masturbai furiosamente mentre proseguivo in quella che, iniziata come opera di pulizia, si stava trasformando in una sega vera e propria. Speravo che Oumou mi avrebbe toccato, ma invece si limitò a guardarmi e a sorridere.
Poi smisi, perchè continuando l’avrei fatto venire direttamente sul lavandino e non era il caso, visto che volevo godermelo ancora. Lo risciaquai e poi, afferrato il mio asciugamano personale, gli tamponai il sesso delicatamente, asciugandolo in ogni suo dove con la stessa delicatezza e rispetto che avrei adoperato per un oggetto di cristallo. Gli dissi di andare ad aspettarmi in salotto e intanto mi denudai.
Quando mi ripresentai, Oumou stava guardando dalla finestra il panorama dei campi coltivati che si vedevano da dietro la mia casa. Mi dava la schiena:
non si era proprio preoccupato di alzarsi i pantaloni, per fortuna, e osservai per un attimo le natiche dure dai muscoli contratti. La mia immaginazione, però, tornò immediatamente a concentrarsi sul suo uccello, che potevo vedere riflesso in parte nel grande specchio appeso alla sua destra. Mi tornò in mente ciò che avevo pensato prima quando conducevo Oumou a lavarsi, e così, nudo, senza far rumore, lo raggiunsi da dietro e gli cercai subito il cazzo con le mani. Mi ero aspettato di trovarlo ammosciato ma, incredibile a dirsi, ce l’aveva ancora durissimo. Assaporai il contatto dei palmi con la pelle del pene che, appena lavata, aderiva perfettamente alla mia pelle. Era un contatto meraviglioso, mi veniva quasi da piangere per la felicità mentre lentamente lo masturbavo a due mani con la testa appoggiata contro la sua schiena: potevo sentire sui palmi delle mani ogni più piccola venuzza e nodosità di quel fallo prodigioso. E così, con il cervello e la forza di volontà stravolti dal desiderio, decisi di appagare l’ultima e la più grande delle mie fantasie.
Gli chiesi di girarsi, cosa che eseguì docile. Però poi disse:
“Io non ti tocco, e non mi hai ancora detto quanti soldi mi dai”.
Solitamente con i soldi non scherzo, ma mentre mi diceva queste parole io ero sempre intento a massaggiargli il sesso, concentrato solo su di esso e sulle sensazioni fantastiche che mi dava il tenerlo in mano. Però non intendeva continuare se non gli avessi dato quello che voleva. A malicuore lo dovetti lasciare per qualche secondo, e mentre tornavo in camera mia per prendere il portafoglio, già sentivo che mi mancava il contatto con quel tarello di carne nera. Mi sbrigai, e perso ogni controllo, svuotai sul tavolo del salotto tutti gli euro che avevo, senza neanche contarli. Lo fece lui, al posto mio, mentre io mi inginocchiavo il più veloce possibile davanti alle sue gambe divaricate e riprendevo possesso di quell’autentica spada sguainata. Non volevo, infatti, che giudicasse i soldi troppo pochi e mi allontanasse prima che potessi toccarlo di nuovo.
Non riuscivo a vedermi allo specchio, così cercai di sistemarlo in maniera che fosse di profilo mentre contava il denaro. Gli afferrai il pene turgido come se avessi in mano il bastone del potere, e poi lo guardai dal basso verso l’alto in attesa del verdetto.
“Sono pochi”disse. Forse fu il mio sguardo mortificato e implorante,
forse fu che aveva voglia di stare ancora un po’ a casa mia, o forse voleva solo farmi soffrire, ma dopo pochissimo aggiunse:
“Ma per stavolta va bene.”
Non aspettavo altro. Sempre tenendolo ben saldo con entrambe le mani, avvicinai il viso e sentii stavolta il buon profumo del sapone. Non pensai ad altro: gli slinguai il glande color caffelatte, assaggiando le goccioline di eccitazione che erano uscite e che avevano un gusto più aspro delle mie.
Poi chiusi gli occhi e aprii la bocca più che potei, avanzando lentamente finchè, quando la richiusi, avvertii la punta del sesso quasi nella gola. Lo assaporai per un attimo, poi ci giocai con la lingua e infine presi a muovermi con la testa sempre più velocemente avanti e indietro lungo l’asta nera. Quello che mi fece uscire definitivamente di senno fu l’aprire gli occhi e osservarmi nello specchio mentre, nudo, ero inginocchiato davanti ad un nero e gli succhiavo la mazza enorme come se mi avesse dato in bocca un gigantesco e dolce lecca-lecca. Vedermi così umiliato mi esaltò per contrasto: volli percorrere la scala della degradazione fino in fondo e così impazzii… feci uscire dalla bocca il suo pene, l’osservai un attimo che luccicava per più di un quarto a partire dal glande a causa della mia saliva, poi me lo strofinai sulle guance, sulla fronte, mi diedi dei colpi con esso sugli occhi e sul naso, lo tenni alzato e leccai i suoi testicoli immensi e glieli tenni in bocca, sentendolo finalmente guaire come un cagnolino.
Me lo rimisi in bocca per quanto riuscii a farlo entrare, e intanto, preso da una voglia di godere irrefrenabile, mi menai il cazzo eccitatissimo e bagnato di umori come non mai. Lo sbocchinai abilmente tanto che il silenzioso Oumou, col respiro spezzato, mi disse che lo succhiavo davvero come le ragazzine del suo paese, ero davvero bravo. Ma il cuore mi batteva in gola e la pressione alzata dall’eccitazione, dal pericolo che correvo e dalla degradazione a cui mi esponevo, mi rendeva quasi sordo tanto che le sue parole le sentii come se provenissero da molto lontano. Alla fine venne colto da un tremito che partì dalle gambe e si trasmise alle natiche che avevo afferrato con una mano, mentre l’altra la usavo per masturbarmi. Io godetti per primo, schizzando di sperma il tappeto ad una distanza incredibile, e subito dopo Oumou venne. Io ebbi l’unico lampo di intelligenza dell’ultimo quarto d’ora quando lo feci uscire dalla bocca e lo masturbai perchè mi venisse in faccia, ma senza bere niente: era uno sconosciuto, e veniva dall’Africa. Di sensi di colpa di tutti i tipi ne avrei dovuti sopportare a bizzeffe nei giorni seguenti, senza che ci dovessi anche aggiungere la preoccupazione di essermi preso l’Aids.
Fu così che venne con una forza che cancellò tranquillamente il ricordo del mio orgasmo più copioso e devastante, spruzzandomi sul viso, la bocca e i capelli otto-nove fiotti di sperma più corposo e chiaro del mio. Ebbi il riflesso di chiudere gli occhi per non venirne accecato. Li riaprii quando lo sentii sfregare il suo sesso ormai calmo contro la mia spalla, per pulirselo dello sperma residuo, sperma che cominciavo a sentir colare dal viso sul corpo in rivoli abbondanti.
Oumou si rialzò i boxer e i pantaloni e si mise in tasca i soldi; riprese la borsa e, sulla soglia di casa, mi disse:
“Arrivederci. Se mi vuoi ancora mi trovi la sera al bar Milano in centro.”
Io, svuotato dall’orgasmo ed ancora inebetito, non mi mossi di un centimetro e non dissi una parola. Chissà che spettacolo orrendo devo essere stato!
Dopo una ventina di secondi, sempre in ginocchio vicino allo specchio con la schiena piegata all’indietro, ebbi il coraggio di guardarmi: il mio volto era una maschera di sperma, come pure il mio corpo; ero spettinato, con i capelli schizzati di bianco e gli occhi che non mostravano la minima espressione. Un sacco vuoto.
Mi ripresi pian piano, raddrizzando la schiena e alzandomi faticosamente in piedi. Era tutto finito, mancavano venti minuti all’arrivo dei miei dal lavoro e dovevo darmi da fare se volevo ripulire il tappeto da quel macello che l’aveva inzaccherato. Ma una cosa non avrei mai potuto ripulire: lo sapevo anche prima di iniziare, ma adesso ne ero conscio perfino dolorosamente… la coscienza, quella non mi avrebbe dato tregua.
Carezzai per un attimo l’idea di non muovermi, di affondare in maniera definitiva e completa nel più totale abisso: aspettare che i miei tornassero e mi trovassero nudo e pieno di sperma.
“Questa è la pazzia, muoviti adesso o rassegnati alla camicia di forza”, mi dissi e, per fortuna,
qualcosa nel mio cervello si mosse e comandò al corpo di fare altrettanto.
Mi avvicinai ancor più allo specchio e vidi cos’ero: un parassita che viveva alle spalle dei suoi genitori e che sperperava i loro soldi per succhiare il cazzo ai negri.
E quel che è peggio è che ne avevo ancora voglia.
FINE