Per i dolci occhi di Laura

Ho sbocciato tra le mie mani l’ultima rosa. Aveva i petali rossi e vellutati, come le mie mani. Erano teneri e molli, scarlatti, come le mie labbra, sì, quelle con cui sospiro queste parole. A molti, potranno sembrare un po’ malinconiche, ad altri, appassionate. Sono parole di una donna sussurrate a un’altra donna. I miei lunghi capelli sciolti, rossi come il fuoco, si sollevano lievi per l’aria calda del termosifone. Sto alla finestra, la mia rosa in mano, e i miei occhi azzurri e grandi osservano le ultime gocce di pioggia del meriggio, che picchiano appena ai vetri della finestra. Vi rimangono intrappolate, come gocce di perla. Ho i tacchi a spillo, sapete? Porto le mie deliziose scarpe scamosciate col tacco a spillo, mentre vi parlo, e la gonna nera, attillata, che non arriva a coprire il ginocchio. Sembra di velluto. Accarezzo i miei capelli con la bella mano, dalle unghie dipinte di rosso, e dalle dita lunghe, fatte per accarezzare, e penso a lei. Oh, sì, a lei, lei, lei, e soltanto lei. Ho preso un foglio bianco, sto scrivendo una lettera. E quando il mio amore la leggerà, forse, sarà troppo tardi per ritornare insieme. Oh, no, no, no, non sarà perché la morte è venuta a separarci, ve l’assicuro. Ma per altre passioni, che si insinuano nei nostri cuori, e li trasformano in carbone o in rubini. Mi ero quasi dimenticata di esser donna, insieme a lei. E come avrebbe potuto esserlo una ragazza di appena venticinque anni, amante della vita di città, dei trucchi, dei rossetti e dei bei vestiti? Una ragazza di città a cui piacevano molto anche i fidanzati. E quella perla si era tuffata come argento nello stagno della mia vita. Amavo le sue ciglia, nere e lunghe.

Amavo i suoi seni prorompenti, e le sue voglie. Toccavo le sue gambe lunghe e vellutate, che lei tanto amava accavallare, e ornare con belle calze a rete nere. Si era fatta tatuare una farfalla, e amava tanto mostrarmela, al ristorante, sollevandosi la gonna quasi fino al pube. Amavo il suo sorriso, le sue labbra rosse, che così spesso toccavano le mie, amavo i suoi capelli, che accarezzavo con le mani nude, e se le sussurravo qualche cosa nell’orecchio, era soltanto per annunciarle qualcosa che avrei voluto facessimo assieme a letto, più che per raccontarle qualche barzelletta rovente. Passeggiavamo mano nella mano. A volte, ci fermavamo dietro le siepi di rododendri, per amoreggiare.

Erano cose da poco, cose da giovani donne: baci, abbracci, carezze, sussurri affettuosi. E se qualcuno ci vedeva, a noi non dispiaceva affatto. Anzi, godevamo, se i passanti ci fermavano a osservarci, e i nostri giochi diventavano ancora più spinti. Ci capitava di sederci assieme sulle vecchia cara panchina, sotto i tigli, e allora, la fantasia volava, come le nostre mani. Oh, le mani! Lei mi fece sentire le sue in più occasioni. Accadde al cinema, al ristorante, una volta, a fare shopping, al parco e, naturalmente, sulla nostra panchina preferita. Mi alzava la gonna sfacciatamente, senza nemmeno chiedermi il permesso, dopo avermi accarezzato le belle gambe accavallate, o avermi toccato il seno. Sapeva dove mettere le dita. Mi penetrava con il medio o l’anulare, o anche con il pollice, vagava lungo le piccole labbra, dopo avermi aperta quasi con violenza, stuzzicava incessantemente il mio clitoride, senza dargli pace. A volte, sentivo le sue unghie, ed era come un gelo, sulla pelle. Sapevo di essere glabra, liscia, e così un giorno le chiesi di mangiarmi. E lei mi fece sentire i denti d’avorio, lunghi, penetranti, e bianchissimi. Quasi svenni per il piacere.

Anch’io ogni tanto le facevo sentire le mie mani. E le mie erano sempre carezze, ma di fuoco, s’intende, ovviamente. Passeggiavamo un giorno nel giardino dei ciliegi. Era giugno e le fronde erano piene di ciliegie mature, rosse come la passione. Se ne sarebbero potute cogliere a mazzi, come fiori, fatti perché i loro petali fossero regalati uno ad uno al vento del piacere. Io mi ero travestita da giardiniere, anzi, da contadino, avevo una camiciona a quadri tanto buffa addosso, e i pantaloni. Tenevo in mano una campana di bronzo, del 1827, per far fuggire i merli. Avevo anche un cappello di paglia, che tanto mi donava, con i miei capelli rossi, lunghi. Mi mancava solo il forcone. Ero un vero maschiaccio. La mia amica invece era travestita da spaventapasseri. Aveva in testa un cappello nero, in mano teneva una bacchetta di legno, per spaventare le allodole, indosso portava una specie di manto nero, ma decorato di pizzo, che metteva in mostra le sue belle forme nude. Era tutta spogliata, sotto, profumava di lilla, e portava un paio di scarpe scollate col tacco a spillo. Io avevo due stivaloni neri, da donna, sempre col tacco a spillo, dimenticavo di dirvelo. Entrambe avevamo il rossetto sulle labbra. Di tanto in tanto, coglievamo qualche ciliegia. I fischi dei merli tingevano di magico quell’incontro. E fu allora, sì, travestita da contadino, che scoprii uno dei seni della mia amica, e lo presi in bocca. Succhiavo e succhiavo il nettare del piacere, mentre le mie labbra stringevano forte il capezzolo proibito e la mia lingua lo solleticava. La mia compagna quasi gridava di piacere. Volevo che qualcuno ci vedesse, volevo che fosse un maschio a godere di quella calda visione di fuoco. La contadina e lo spaventapasseri giocavano alle follie, sotto ai ciliegi. Un ragazzo si affacciò alla finestra della cascina e ci guardò…

Non disse nulla. Capitava spesso che lo facessimo davanti ai nostri maschi. Così, era ancora più bello che sul nostro letto, quando la penetravo con il mio tacco a spillo (perdonate, non sono un uomo). A volte, mi facevo guardare dalla mia amica mentre scopavo col mio uomo. Più spesso, però, capitava che fossi io a guardare lei, mentre si sbatteva con il suo lui. Ah, la mia cara e dolce amica, alta, con i capelli neri, lunghi, il body color nero perla, i tacchi a spillo, i seni prorompenti, le gambe sublimi! Una volta la osservavo dal buco della serratura, mentre lei si intratteneva nel bagno di un bar con il suo amico. Non vi nascondo che mi toccavo…

Lui l’aveva sbattuta contro il muro e lei aveva allargato le gambe, tenendone una piegata in modo da appoggiare la suola della scarpa col tacco a spillo contro il muro. Si era alzata la gonna quasi sopra l’ombelico, il suo maschio la sbatteva forte, io guardavo dalla serratura e godevo. Oh, cara, amica carissima, non ti dimenticherò mai! Non dimenticherò mai le tue belle calze a rete, a mezza coscia, che io srotolavo con le labbra scarlatte, come fossi un uomo. Non dimenticherò mai la tua bocca, che mi baciava anche lì dove sono più donna, e mi sussurrava favole di piacere. Ah, le tue labbra, che mi fecero morire! Spero che tu possa sentire il sospiro delle mie, mentre ti parlo. I nostri uomini ci avranno ancora, e so che quando accadrà per me, tu non sarai lì a guardarmi, come facevi sempre. Vorrei penetrarti ancora con i miei tacchi a spillo, vorrei farti gridare forte, come una volta! Lasciati spogliare dalle mie mani di fata, che sono più dolci di un uomo. Lo faremo ancora, attorcigliate l’una all’altra, come due cigni, in un sogno. FINE

About Hard stories

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