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Giornalista

Beppe Franchini guardava dal finestrino del taxi il paesaggio solare, abbacinante.
Stava lasciando la parte greca di Cipro per raggiungere quella turca. Non è che Beppe, a ventotto anni, fosse un gran giornalista, di quelli che poi raccolgono i loro articoli in volumi, e nemmeno grande, a dire il vero, era il suo quotidiano. Però, signori miei, pensava in quella dannata calura, l’importante è cominciare, saper cogliere l’occasione al volo. Questo è il mio colpo fortunato e non me lo lascerò certamente sfuggire. “Dal nostro inviato speciale Beppe Franchini” leggeva con la fantasia. E manco a dirlo, la testata era quella del “Corriere”.
“Faccia attenzione” gli avevano detto i militari greci al posto di blocco, “dall’altra parte sono banditi, rubano tutto. Nasconda la macchina fotografica, non faccia capire che ha denaro. Cosa vuole, sono turchi… ”
Lasciò quei soldati in uniformi lavate e stirate e, un centinaio di metri dopo, trovò quelli turchi, con barba dura sul mento e divise rattoppate. Però cortesi, con dolci occhi da capretto.
Il taxi correva su strade deserte, mangiate da polvere e sole. Ad un tratto superò una vecchia avvolta in un nero barracano maschile: dal finestrino, Beppe, di professione giornalista nonché all’occorrenza inviato speciale, ne scorse un attimo, voltandosi, gli occhi color giaietto.
– Non passano corriere di qui? – domandò in inglese al tassista.
– No, signore. C’è un treno la mattina poi basta. La nonnina si farà parecchi
chilometri a piedi. So ben io dove sta… – rispose l’uomo in inglese approssimativo.
– Torna indietro, le diamo un passaggio noi.
Il tassista fece retromarcia fino ad affiancare la vecchia, poi prese a parlottare fitto con lei (in greco? in turco? in un dialetto misto? ). Pareva far fatica a convincerla. Infine a donna, dopo un’occhiata da corvaccio all’inviato speciale, si decise e salì, nera nel suo barracano, accanto all’autista.
– Va a Mavros, sette chilometri più avanti – annunciò questi. – Solo che bisogna entrare un po’ all’interno. Potremmo lasciarla alla svolta, sullo stradone…
– No. Davanti alla porta di casa sua. Io non ho fretta.
Era mezzogiorno, l’afa gli passava sul volto come una lingua; tutt’intorno pietraie e siepi incipriate di polvere. Tassista e vecchia parlavano fra loro senza problemi, però a bassa voce; in lontananza un bagliore di mare, qualche vela.
– Fino alla porta di casa? – domandò il tassista nel suo inglese simile ad un
latrato.
– Sì.
Il taxi svoltò in un viottolo terroso, con cespi di more impolverate, e buche, ciottoli grossi come un pugno. Dopo un paio di chilometri si fermò davanti ad una casupola bassa, di mattoni e calce. L’autista si voltò.
– Abita qui – disse. – Suo figlio maggiore, Omar, lavora in Francia, e lei è andata in città a riscuotere il vaglia.
– Va bene, partiamo pure – disse l’inviato Beppe Franchini, con un piacere da giovane marmotta per la buona azione compiuta.
– Lei vuole invitarti a mangiare qui. Difficile convincerla del contrario: è gente col proprio orgoglio, se riceve una gentilezza deve renderla. Sono… siamo fatti così.
– Allora, devo fermarmi?
– Sarebbe una cortesia molto apprezzata.
– E tu?
– Vado da mia madre, una decina di chilometri più avanti. Tra due ore torno a prendervi, signore – disse, controllando l’orologio.
Beppe Franchini scese, anche se ne avrebbe fatto volentieri a meno, e seguì la vecchia in casa mentre il taxi ripartiva in un nuvolone di polvere.
Una grande stanza divisa da un tramezzo in legno, semplice ma linda, con forte profumo di formaggio. O di latte acido.
Beppe, ogni volta che incontrava il volto della vecchia, sorrideva, non potendo in alcun modo comunicare con lei. Questa, senza togliere il soffocante barracano, gli indicò una sedia impagliata su cui si lasciò cadere. Poi stese sul tavolo una tovaglia a quadroni e cominciò a deporvi terrine: formaggio di capra, gallette, olive verdi e nere, peperoni sott’olio, capperi. E un fiasco di vino.
La vecchia gli parlava sorridendo nella sua bocca sdentata, come se fosse inverosimile che qualcuno non comprendesse la sua lingua o dialetto che fosse. Ma in realtà, l’inviato era in ciò carente, e tanto per darsi un tono, oltre ai sorrisi mormorava qualche “sì, certo”, oppure, “okay”, “c’est incroyable”, da buon giornalista cosmopolita che tutto conosce, tranne quel gotico ed in fin dei conti, assai poco diffuso linguaggio.
Intanto mangiava, tracannava anche qualche bicchiere di vino per sciacquare via la polvere dalla gola, quando, inattesa, da dietro al tramezzo spuntò una ragazzona nera, che poteva avere forse vent’anni, dai lunghi occhi chiari e labbra gonfie, che sembravano tinte con succo di ciliegia.
La vecchia li presentò nel suo astruso dialetto (e Beppe, preso alla sprovvista, non seppe mormorare altro che “enchanté”), poi discretamente uscì, chiudendosi la porta alle spalle. Sedette su una panca al sole, lei ed il suo barracano nero.
Beppe Franchini, nell’occasione inviato speciale, sorrise alla ragazza (lunare, con folte sopracciglia e diffusa peluria), la ragazza (lievemente baffuta ma di un bianco luna) sorrise al sudato ed un po’ bevuto giornalista, gli tese la mano e se lo trascinò con ferma dolcezza dietro il tramezzo. dove, alto, largo, imponente, troneggiava un bianco lettone.
Quivi, a scanso di equivoci, si stese, sollevando la gonna su quel tanto di bianchi cosciotti che baluginava tra calze (nere) e nero sottanone.
Che fare? Beppe Franchini, travolto da emozioni e fumo di vino, vedeva doppio, e doppio sentiva se stesso: due facce allucinate e spianti. Sennonché la ragazzona si puntò l’indice sulle prorompenti mammelle e sillabò invitante: “Zora”. Forse il suo nome. O magari: vieni qui.
– Io Beppe Franchini, inviato – disse stupidamente l’inviato Beppe Franchini.
Poi, trovandosi ridicolo così all’impiedi davanti a quell’invitante garbuglio di carne ed indumenti, si lasciò scivolare sopra di esso, subito accolto, avviluppato, inghiottito. Dal finestrino, quasi un’alta feritoia aperta nella parete, filtrava un surreale raggio di sole che si posava indulgente sulle nude e galoppanti natiche del giornalista. Finché, improvvisi come schiocchi di frusta, si levarono fino al sofftto turchi gridolini di piacere e italico ansito.
Giacque stordito, Beppe Franchini, mestamente pensando che quello appena compiuto non era un servizio sotto al quale mettere la sua firma di inviato speciale. Cominciò a ricomporsi, si levò in piedi, ancora ansante, lanciando occhiate fuggitive alla gran massa immobile sul lettone.
Quando se ne uscì un po’ stranito, abbandonando la soda odalisca, ritrovò, accanto alla panca, vecchia col barracano ed autista.
– Mangiato bene? – domandò questi.
– Bene.
– Buon riposino?
– Buono.
– Allora andiamo?
– Sì – rispose l’inviato, ancora fiutando nell’aria torrida odore di capra e sudore, nonché di olive.
La vecchia sorrise, con un dito benedicente gli toccò la fronte, con l’orgoglio, negli occhietti neri, di essersi sdebitata del passaggio in macchina con signorile magnanimità.
Ancora un nuvolone di polvere, more gessose sulle siepi, poi, più avanti, il barbaglio accecante del mare. FINE

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