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Segretaria tutto fare di un giudice

Era ormai diverso tempo che rinunciavo a tante cose…uscite, vestiti, parrucchiere…non sapevo più che scuse inventarmi con Luca per non lasciare che pagasse sempre lui. Ormai mi imbarazzava essergli di peso anche se continuava a dirmi che per lui era solo un grande piacere potermi offrire qualcosa di bello. Mille annunci, telefonate, ma sembrava che non servissi proprio a nessuno, che nessuno mi volesse. Non appena dicevo quanti anni avevo, era come se stessi ad un passo dalla pensione.. eppure avevo solo 36 anni ! Ero fuori dal limite dei contratti di formazione, perciò, poco conveniente… Fino al giorno in cui ricevetti un suo sms che diceva:

“Preparati cucciolo… ho una bella notizia per te… un lavoro… ti chiamerà la persona interessata tra poco… un bacio e in bocca al lupo! ” Il suo sms scorreva sul display del telefono su e giù, senza che capissi più quale fosse l’inizio e quale la fine. Non potevo crederci!!! Di lì a poco squillò il telefono. Una voce distinta, con un leggero accento napoletano che lo rendeva ancora più inusuale per me, mi chiedeva se fossi io la persona di cui gli aveva parlato un suo amico. Emozionata, tremante, cercavo di dare risposte dalle quali non trapelasse la mia ansia, ma tutto il mio impegno crollò quando mi disse:

“Sono un giudice, ed ho bisogno di una persona che si occupi della stesura delle sentenze. Sono a Roma nei fine settimana per poter consegnare le sentenze di lunedì. Andrebbe bene per Lei? ” dovetti rispondere alla sua domanda in fretta, prima che mi interrompesse…

“signora, so che a lei servirebbe un lavoro fisso ma per il momento posso assicurarle solo qualche weekend, poi si vedrà…” La mia soggezione nei confronti di un uomo così importante filtrò soprattutto dai ringraziamenti. Esagerati, a ripensarci. La mia prima sensazione: WOW sarò la segretaria di un giudice!!!! Sapevo di essere attraente, ma con classe, nel mio tailleur grigio perla molto chiaro, con la gonna sopra il ginocchio che avvolgeva le forme, senza lasciare che la mia persona venisse involgarita dal piccolo spacco sulla coscia sinistra. Una camicetta nera aderente con le maniche in nude-look spezzava il tono chiaro insieme alle scarpe nere con tacco alto e cinturino intorno alla caviglia. Mi specchio e mi chiedo se il giudice possa mai immaginare una donna così, al suo servizio. No, non avrebbe mai immaginato! Lo leggevo dentro i suoi occhi che rimasero attaccati al tailleur all’altezza dei miei fianchi mentre, sinuosi, si muovevano verso il divano di pelle bianco dove mi pregò di sedermi, e lì, affondarono insieme, nella bianca “sofficità” dei cuscini. Era così come l’avevo immaginato al telefono, vicino alla settantina, asciutto, distinto. Lui si siede di fianco, nella parte stretta a “L” del divano, dalla quale ha un’immancabile, perfetta, ideale, angolazione per guardare lì dove la mia coscia diventa nuda, dove arriva il bordo di pizzo nero delle mie calze da “un milione di dollari”, che avevo comprato per un nostro incontro e che ho pensato fosse l’occasione adatta per indossarle. Dove si è mai vista la segretaria di un giudice in collant ? ! Lì, dove si unisce il cielo alla terra. Lì, all’incontro perfetto dei sensi. Lì, dove nasce e muore un uomo. È lì che i suoi occhi trovarono la pace e il tormento. In breve, tra lunghe pause, mi spiega come sarà il nostro lavoro,

“ma prima si passa alla pratica e prima si capisce il lavoro”, mi dice, come se avesse fretta di togliermi da quella posizione che lo tormenta. Ci sediamo fianco a fianco, intorno al tavolo di cristallo dove è già acceso un pc portatile. La sua voce si fa calda, cerca in tutti i modi di tranquillizzarmi sull’assenza di difficoltà che ci sarà nello svolgere il lavoro. Mi starà vicino e mi controllerà per le prime volte, dice, fino a quando avrò preso confidenza con la terminologia, dato che il pc, per me, è uno strumento che ormai conosco benissimo. Già… mi starà vicino… Come sarà il suo

“vicino”? Cominciamo. Lui detta la sentenza con tono regolare, mi dà il tempo di muovere le mie dita sulla tastiera e di ritrovare i tasti che sembrano scomparsi, a volte, tanta è l’agitazione nel cercarli, rapida. Piano, piano mi ammorbidisco. La mia schiena non sembra più d’acciaio ma si abbandona alla spalliera della sedia dove trova, inaspettato, il suo braccio. Le sedie si toccano per consentire al giudice di avvicinarsi…al monitor…respirare il mio profumo…controllare lo scritto…appoggiare la sua spalla alla mia…rileggere e riflettere. Mi sento in imbarazzo, ora ancora di più, da quando ho preso coscienza che il suo braccio avvolge la mia spalliera. Ero in imbarazzo anche dal momento in cui, accavallando le gambe, lo spacco della gonna ha tradito quel meraviglioso pizzo chantilly delle calze. Sentivo aumentare in me quel timore reverenziale che non sapevo dove mi avesse portata, ed in lui il livellarsi degli istinti al pari di tutti gli uomini che si lasciano infuocare dalla vista di due cosce tornite e sode, guarnite da pizzi e stringhe che hanno viaggiato, strusciando tra loro, nella metro zeppa di gente. Tra una pausa e l’altra prendeva il codice, se lo poggiava sulle gambe, lo sfogliava, e tra una pagina e l’altra, sapendo di avere la mia attenzione sul codice sulle sue gambe, noncurante, si sfregava con la punta delle dita, la punta di qualcosa che stava prendendo forma dentro i suoi pantaloni. Fu quando scrissi una frase, non ricordo quale, anzi sì, una banale

“via xx settembre” che tutto capitolò… Di colpo s’avvicinò al monitor, sostituendo la sua figura alla mia nel riflesso dello schermo, con tale scatto che m’ impaurì, e disse:

“No! Non ci posso credere! ” D’un tratto mi prese un crampo allo stomaco. Che avevo combinato? Dio mio, che figura avrò mai fatto? E lui, che scoppiò in una risata euforica:

“sei la mia prima assistente che scrive in modo corretto questa caspita di via!!! Sapessi quanti “orrori” di ortografia ho dovuto correggere fino ad oggi! ” e dicendo questo mi abbracciò, ed io finii impietrita, con la faccia sul suo colletto zuppo di dopobarba. Ci rimasi incollata finchè non decise di mollare la presa. Lentamente allentò la sua stretta, come chi sa che ormai la preda non fuggirà. Mi prese le mani, sorrideva, mi fece un sacco di complimenti su come si stava trovando bene a lavorare con me e che gli era stato detto, che si sarebbe trovato bene, in tutto, con me. Fu quel

“in tutto” che finì per farmi tornare un pezzo di ferro, tremante, cercai qualche parola per togliermi d’impaccio, per tutti quei complimenti ma non venne niente e mentre le sue mani, con dentro le mie, ora si poggiavano nel punto esatto in cui finiva la mia gonna, finalmente mi disse, avvicinandosi al punto che sentivo l’odore del suo dentifricio:

“stai tranquilla, rilassati, abbiamo concordato tutto, dovere e piacere…vieni…” Lo guardavo avvamparsi negli occhi, lo sentivo pigiare le nostre mani sempre più su verso il pube. Ora eravamo uno di fronte all’altra. I miei occhi bassi, spaventati. Avevo capito di cosa si trattasse il mio lavoro. Avevano concordato? Concordato cosa? Non feci in tempo a pronunciarle nella mente quelle parole che mi prese per mano e mi guidò lungo un corridoio stretto e buio spezzato in due punti da un fascio di luce che proveniva dalle stanze annesse. Mentre mi guidava cercavo di fargli resistenza, lo supplicai, tremavo… Non potevo essere stata venduta…Non volevo! Doveva essere il mio lavoro di segretaria di un giudice! Lo volevo! Rivolevo tutta la mia dignità, tutto il mio entusiasmo, e la mia buona volontà. Mi aggrappai ad una speranza, un equivoco, lo gridai.

“Non c’è nessun equivoco bambina, il tuo compagno è stato molto chiaro nel descrivermi i tuoi pregi ed i servizi che avrei potuto pretendere, in fondo ho già ben pagato il tuo uomo, ora resta solo di soddisfare le mie esigenze”. Aveva organizzato tutto. Ci avevamo riso un sacco di volte quando gli dicevo, con un tono provocatorio, che sarei stata disposta a tutto pur di guadagnare qualcosa. Ma un vecchio! Come sarebbe potuto essere con un vecchio? Quello era il mio lavoro, e mi sentivo costretta, in trappola, piegata al volere dell’uomo che amavo. Ormai non potevo uscire da quella situazione. Pensavo a quanto si fosse fatto pagare il mio Luca, e che se fossi stata carina col giudice, chissà, magari mi avrebbe pure trovato un buon posto, ma mentre pensavo lui si era già sbottonato i pantaloni e senza parlare cominciò a masturbarsi. Non c’era niente che mi eccitasse in lui, compresi quei boxer a righine bianche e rosse dal quale aveva tirato fuori qualcosa ancora informe, eppure appena mi spinse a sedere sul coperchio del water ebbi la sensazione di essere fradicia del mio liquido. Sentivo la voglia pulsarmi nel clitoride, gonfiarlo. Ero lì a lavorare col giudice… Sentivo il suo odore e la voglia di farmelo succhiare, visto che i tentativi per indurirlo da se erano svaniti. In piedi, davanti a me, all’altezza della mia bocca, eccolo il suo cazzo… ma com’è il cazzo di un giudice di quasi settant’anni? È avvizzito, guarnito alla base da una peluria bianca e grigia. Ma non appena lo accolgo tra le mie labbra sento che la pressione aumenta, si gonfia, è duro… Entra e esce dalla mia bocca, avvolto dalla lingua che succhia con piacere il cazzo di un giudice… Stavo perdendo le forze, ma ormai il peggio era passato, ero stata più coraggiosa di quanto potessi pensare. Ora tutto il resto a venire poteva scorrere liscio. Infatti dopo neanche un secondo sentii la sua mano intrufolarsi nella mia camicetta e stringere il capezzolo… non sapeva che quella potesse essere la chiave per farmi diventare un vera troia… Appena lo strinse tra le sue dita cominciai ad agitarmi. Succhiavo ancora, ma ora sembravo volessi farlo venire in bocca, tanta era la mia foga… Aveva innescato un meccanismo senza freni inibitori, dove poteva chiedere tutto. Fu così che mi prese per i capezzoli, mi spinse ad alzarmi e a sedermi sul piano di marmo del lavandino… così, presa per i capezzoli raggiunsi la massima eccitazione mi liberai del perizoma e lo supplicai di infilare la sua faccia tra le mie cosce. Sentii il suo naso premere sui peli del mio sesso finché iniziò ad annusare la mia parte umida ed io a desiderare di godere. Mi prese per i fianchi e lo spinse dentro, fino al cervello, con le mie cosce che s’aprirono al massimo. Un dardo infuocato conficcato nel ventre fece esplodere, in pochi minuti, la mia lussuria in un lungo gemito. Mi morsi le labbra, lo guardavo con la sua pelle flaccida, eppure il mio piacere non voleva finire li… Avevo cominciato un lavoro impegnativo che sapevo bene come portare a termine. Lo tirò fuori gocciolante del mio liquido e non me lo feci chiedere. Mi inginocchiai ai suoi piedi leccando le gocce che scorrevano dal suo sesso ancora turgido, voglioso di ritrovare un piacere conosciuto. Ma in quella posizione fu subito spinto a dare vita al più porco dei suoi desideri… All’improvviso mentre mi avvicinavo per ricominciare a succhiarlo, mi zampillò addosso un liquido caldo, abbondante, che prese a sgocciolarmi lungo il seno, sul ventre e tra le cosce. Ma non la finiva più…continuava, e dall’odore capii che il giudice mi aveva pisciato addosso… la più alta dimostrazione di superiorità…

“ed ora succhialo fino a farmi venire, cagna”…queste le sue uniche parole prima che di colpo il suo seme caldo m’invadesse il palato. Mi venne il vomito, cercai di resistere, ma per ogni attimo in più che avevo il suo schifo in bocca, era un conato in più… Feci finta di pulirmi col braccio e mi liberai del giudice, almeno dalla bocca. Il mio lavoro per oggi era finito. ci rivestimmo. Lui ritrovò subito il contegno e l’aspetto distinto che me lo aveva fatto piacere, ed io ci misi un po’ di più a riappropriarmi della mia dignità… la dignità di una donna che era passata dal bisogno, al dovere, al piacere, allo schifo. Verso se stessa o verso il giudice, era lo stesso… Fu una sorpresa trovarti ad aspettarmi sotto il suo portone, ma a pensarci bene, non più di tanto. Era normale che mi fossi venuto a prendere per chiedermi delle mie imprese. Per sapere e per godere di nuovo dentro di me, al racconto di quel che ero stata capace di fare, certo, che ti avessi fatto fare una bella figura. Lo avevi fatto apposta no? Solo per soddisfare i tuoi desideri, per dimostrare il tuo potere su di me. Avrei voluto vomitarti tutto lo schifo che avevo provato. Ma stranamente durante tutto il viaggio mi hai chiesto solo come era andata, se fossi soddisfatta del mio nuovo lavoro, con una luce negli occhi che non nascondeva la gioia e la soddisfazione di aver fatto qualcosa di bello per me. E fu allora che mi si gelò il sangue. Fu quando ti chiesi:

“quanto ti sei fatto pagare per farti scopare la tua donna da un giudice? “, che i tuoi occhi s’avvamparono di rabbia e odio, che capii di essere stata ingannata. Fu allora che ti abbracciai sentendo d’amarti più della mia vita, perché non m’avevi venduta, e mai l’avresti fatto. FINE

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