1. L’udito.
“La voce, guarda, la voce è l’unica cosa sensuale che ha”, sussurrò Ubaldo al suo compagno di banco, Guido, accennando col capo a Saravítt che, in piedi alla cattedra, rispondeva a un’interrogazione di filosofia, all’ultima ora di una mattina di scuola di febbraio, al liceo ginnasio Baraldini, sul margine dei quartieri residenziali della grande città. Il compagno rispose:
“Ma va, cosa dici, non vedi quant’è figa?”.
Saravítt si chiamava Sara, ma essendo stato Sara un nome troppo di moda giusto quei diciott’anni prima, in classe c’erano addirittura quattro Sare, e allora tutti avevano preso l’abitudine di distinguerle aggiungendo al nome le prime lettere del cognome, e così c’erano Saravítt, Saragózz, Saramázz e Sardemá (quest’ultima pagava il de nobiliare del cognome con la caduta della a finale del nome).
“Sarà figa, ma è fredda”, aggiunse Ubaldo. E Guido lo sfotté:
“Dici che è fredda perché non te l’ha data…”.
“Sì, perché, a te invece l’ha data? Non conosco nessuno che se la sia fatta. Ma poi comunque non è questo il motivo, una può essere vergine e sensuale, però Saravítt è la negazione della sensualità… tranne che per la voce”, ribatté Ubaldo, e continuò elucubrando: “Certo però che la voce è importante, è la cosa che una può nascondere di meno”.
“Pensi che Saravítt abbia una sensualità nascosta, che ci ha occultato per tutti gli anni della scuola?”.
“Potrebbe. Ha una voce che quasi me lo fa rizzare, e poi invece si muove come un’imbranata, non guarda nessuno e si veste nel modo più insipido”.
Intanto, la campanella squillò, la mattinata di scuola era finita. I due compagni continuarono il discorso uscendo, e poi sulla strada, che ne avevano un bel pezzo da fare insieme verso casa. Guido cambiò in parte discorso, dicendo:
“Lo sai che quel demente di Mirko ha organizzato il campionato di rimorchiaggio, e all’interno del campionato di rimorchiaggio ha messo il grande slam delle quattro Sare?”.
“Demente davvero, come sempre. L’amore non è mica uno sport”.
“A volte però conquistare una ragazza è un gioco; e lui, gioco per gioco, ha stilato le classifiche. E il premio del grande slam, un premio specialissimo e segreto che sa solo lui ma dice che vale un fracco, andrà proprio a chi riuscirà a scopare con tutte e quattro le Sare della nostra classe”.
“E come fa ad accertare i risultati? Tutti le sparano grosse, che si sono fatti questa e quella, ma poi bisogna vedere se è vero”.
“Dice che sa lui come accertare, e che comunque il giudice arbitro è lui”.
“Quel ragazzo ci ha dei problemi”, rise Ubaldo.
“È probabile! Comunque, il grande slam delle quattro Sare non se l’è fatto nessuno, per ora. Marcello, il superfigo, se ne è fatte due, ma gli mancano Saramázz e proprio Saravítt”.
Ubaldo alzò le spalle:
“Saragózz se la sono scopata quasi tutti… Io due anni fa… E tu?”
“Io la scorsa estate. Sì, Saragózz è la più facile. Anche Sardemá non è tanto difficile: dopo ogni festa del sabato sera, in genere, almeno un ragazzo nuovo se lo porta a letto”.
“Sì, e Saramázz diciamo che è una prova di media difficoltà. Ma Saravítt, chi se l’è fatta?”.
“Io no di certo, anche se mi piacerebbe”, esclamò Guido.
“A me, vista così, non piacerebbe nemmeno”, rispose Ubaldo, e Guido lo interruppe in tono canzonatorio:
“Sì, fai come la volpe e l’uva!”.
“No, ti dico che a vederla così non mi tira. Solo la voce m’interessa”.
“Però hai ragione. Assomiglia alla voce di una di quelle del telefono erotico”.
“Ma va, quelle lì sono impiegate che arrotondano lo stipendio e non sono sexy per niente, parlano come l’annunciatrice della stazione, è pronto sul binario dodici regionale per Brescia… Ma va!”.
“In genere sì, hai ragione, però ne ho sentita una che invece è molto sensuale, e a ben pensarci ha la voce che assomiglia proprio a quella di Saravítt. Che sia lei?” rise Guido.
“Cazzate”, sbottò Ubaldo, “e poi non sapevo che tu ti facessi le seghe coi telefoni erotici; ma lo sai quanto costano le telefonate?”.
“Stronzo, è che mio padre ha l’abbonamento a una linea speciale – ehi, non dirlo in giro, adesso – una linea di quelle che si paga prima e poi si telefona un certo numero di volte, e io gliene ho scroccata qualcuna”.
Ubaldo cominciava a incuriosirsi. Esitò un attimo, poi chiese:
“Ehi, me la fai sentire anche a me questa che ha la voce che assomiglia a Saravítt?”
“Ah, allora te le vuoi fare anche tu le seghe col telefono, eh?”.
“Ma vaffanculo, sono solo curioso di sentire quella lì, no?”.
Guido gestì per qualche minuto il potere che si era improvvisamente trovato in mano, nicchiando e rifiutando, e alla fine acconsentì, e stabilirono che Ubaldo sarebbe andato a casa di Guido alle sette, quando il servizio di telefono erotico era già in funzione e il padre non era ancora rincasato. Ma aggiunse:
“Bisogna vedere se oggi c’è quella. Al telefono, dopo aver dato i codici segreti che ho fregato a mio padre, devi chiedere di Peggy, che ovviamente sarà un nome d’arte”.
Alle sette Ubaldo era al telefono in casa di Guido e aveva già chiesto di Peggy, ed era stato fortunato, Peggy era in servizio e attaccò:
“Ciao, bello stallone, sei nuovo? Guarda che oggi sono molto in calore. Io mi chiamo Peggy, e tu?”.
A sentirla pronunciare cose così stupide, suonava strana, però era davvero la voce di Saravítt, Guido aveva ragione, ci assomigliava moltissimo, sembrava lei. Rispose:
“Io mi chiamo… mi chiamo Stallone, come hai detto tu, chiamami così che va bene”.
“Oh, e ce l’hai davvero così grosso, come quello di un cavallo? Oh, mi sembra di sentirlo tutto dentro. A me piacciono i cazzi molto grossi, sai? Però so far godere anche quelli piccoli, io sono una vera artista, sai? Sto dimenando la lingua, adesso, senti, brrrr, la senti sulla tua cappella?”.
A Ubaldo sembrò proprio Saravítt, e fu preso da una curiosità insaziabile, perché, come s’è capito, Saravítt gli era tutt’altro che indifferente. Guido gli aveva spiegato che le telefoniste dei telefoni erotici per nessun motivo accettano appuntamenti, ma sapeva anche che in certi ambienti le parole “no” e “per nessun motivo” avevano un significato relativo. Si lanciò:
“Senti, Peggy, io vorrei provarla meglio la tua lingua su tutto il corpo, perché non ci vediamo da qualche parte?”.
“Oh, stalloncino bello, non lo sai che questo è vie-ta-tissi-missi-missimo? Non te l’hanno spiegato? Se fai queste proposte devo mettere giù il telefono”.
Ubaldo lanciò la sfida folle:
“Cinque milioni. Ti prenoto stasera alle dieci una camera all’albergo Eden, sai dov’è? Ci vieni e chiedi la stanza prenotata per Peggy, ti aspetto in camera, cinque milioni. Stasera alle dieci”.
“Si matto e non capisci, devo mettere giù, amore bello, perché non stai al gioco, puoi aspettarmi un’ora, devo mettere giù, ciao ciao, ehi, c’è qualcun altro in linea?”, strillò la ragazza, e la telefonata s’interruppe. Guido esclamò:
“Ma sei scemo davvero, Ubaldo, che cazzo fai?”.
“Guarda che sono puttane, quelle, dare la voce o dare la fica è lo stesso, e una puttana non resiste a cinque milioni. Era obbligata a dire di no, per il suo contratto di lavoro, perché se no li arrestano per favoreggiamento, ma io dico che stasera ci viene, mi ha fatto anche capire che viene alle undici e non alle dieci, ha detto “puoi aspettarmi un’ora”. Per me è la voce di Saravítt”.
Guido rise:
“Ma va in mona, ci assomiglierà, figurati se una nostra compagna fa il telefono erotico”.
“Io dico che è lei, Saravítt l’insospettabile”, ribatté Ubaldo convinto.
“E allora stasera prendi una camera all’Eden e aspetti una che, ammesso che arrivi, e io non ci credo nemmeno tanto, viene a riscuotere prima di tutto cinque milioni, e tu quanto hai in tasca?”.
“In tasca ho cinquantamila lire, ma se dico a mio padre che esco a cena con una ragazza lui magari me ne dà altre cinquanta, e così ho quel che basta per la camera: l’Eden non è un albergo di lusso, è un alberghetto clandestino, ci ho portato una volta Loredana, quella della terza D, hai presente?”.
“Ho presente, e complimenti per Loredana che è una gran figa, non sapevo che te la fossi fatta, ma stasera, se quella viene, tu hai bisogno di cinque milioni, se no ti trovi in un pasticcio di merda”.
Ubaldo tacque per un momento, poi disse:
“Se quella viene e non è Saravítt, sono un po’ nella merda, alle prese con una puttana incazzatissima che vorrà farmela pagare in qualche modo…”.
“Appunto”, si inserì Guido. Ubaldo continuò:
“Ma se quella non viene, avrò solo sprecato cinquanta o sessantamila lire, mi pare che la camera costi così. E se invece viene ed è Saravítt, come penso e credo, allora, quando le dico “ciao Sara sono Ubaldo”, tu credi che lei abbia ancora la forza di chiedermi dei soldi? Piuttosto mi scongiurerà di non dire niente a scuola!”.
Guido sospirò:
“Sei matto come un cavallo, altro che stallone. Comunque, auguri. Poi mi racconti domani, se non ti avrà spaccato la faccia l’amico della puttana. Ma poi neanche, no, io credo che quelle lì del telefono non vadano agli appuntamenti. Starai lì a menartelo da solo in una stanza e tornerai a casa da solo con qualche soldo in meno, ecco tutto”.
I due amici si lasciarono, Ubaldo andò a casa e disse a suo padre che doveva uscire con un’amica, e il padre, che come tutti i padri aveva piacere di favorire gli amori del figlio maschio (più rari sono i padri che favoriscono, con giusta parità, gli amori delle figlie femmine), gli sganciò cinquantamila lire, come previsto.
Ubaldo era molto sicuro di sé. Lui la voce di Saravítt erano anni che se la studiava, non poteva confondersela. Quella ragazza, così insignificante a scuola, così restia a mescolarsi con gli altri della compagnia, sempre goffa e riservatissima, aveva una voce che non quadrava con tutto il resto. Al telefono erotico doveva essere lei. Aveva una doppia vita, sicuramente. Tantopiù che della sua famiglia non si sapeva nulla. Chissà da che ambienti veniva.
Alle dieci Ubaldo era nella camera cinque dell’albergo Eden, e il portiere, di sotto, sapeva di dover mandare alla cinque la ragazza che sarebbe venuta probabilmente verso le undici e che avrebbe chiesto la camera prenotata per Peggy.
Passò un’ora a pensarci, Ubaldo, fra timore ed eccitazione. Si fecero le undici e un quarto, le undici e venti, e cominciava a venirgli il batticuore e a prenderlo la delusione, ma alle undici e venticinque, ecco, il portiere bussò e disse:
“La signorina Peggy”.
Eccola dunque. Ubaldo attese qualche secondo prima di alzare lo sguardo verso la porta, e vide…
Vide Susy, della terza B. Vide Susy che, a sua volta, lo guardava a bocca aperta, e dissero tutti e due insieme:
“Cosa ci fai tu qui?”.
E poi:
“Ma sei tu che hai parlato al telefono erotico?” esclamò Susy.
“Ma non eri tu al telefono erotico!” esclamò Ubaldo.
Susy alzò le braccia agitatissima:
“Quella stronza di Sara! Come ha fatto a non riconoscere te?”.
“Saravítt, no? Io l’ho riconosciuta benissimo, infatti”.
Si calmarono un poco, e furono necessarie tutte le spiegazioni. Sì, Saravítt lavorava tre pomeriggi alla settimana al telefono erotico. Non era la sola, altre quattro del liceo lo facevano. Tutte insospettabili. Lei no, Susy non andava al telefono erotico. A volte al telefono gli uomini facevano proposte di incontri. Le ragazze ufficialmente non potevano accettare ma a volte, su certe proposte e certe cifre e se era in albergo che è un posto sicuro, accettavano facendo finta di non accettare. A volte andavano loro stesse all’appuntamento. A volte non potevano, e allora passavano l’occasione a un’amica, come appunto a lei, a Susy.
Ubaldo si compiacque di avere indovinato il gioco, si dispiacque di non avere davanti Saravítt, che tuttavia era comunque smascherata in quanto zoccola a tutti gli effetti, e non poté fare a meno di commentare a voce alta ma controllata (si era in un albergo, di notte):
“Ma frequento un bel liceo di troie!”.
Susy conosceva Ubaldo abbastanza bene, e sapeva che non era tipo da ricatti violenti. Ma quella sera aveva comunque lui il coltello dalla parte del manico: il rischio per lui di far sapere di essere andato a puttane era nulla al confronto del rischio per lei e per le altre di far sapere di essere puttane, perché, ancora oggi, in questo campo, ci sono due pesi e due misure, alla faccia dell’emancipazione. Susy lo ammansì:
“Certo è successa una cosa strana, incredibile; però, su, non trasformiamola in un dramma. Io e le altre lo facciamo per avere dei soldi in più, magari per andare avanti a studiare, e poi certo anche perché non ci dispiace. Sai, c’è un’eccitazione pure nel farlo per soldi. Io stasera ero tutta frizzante all’idea di un uomo che mi pagava cinque milioni. Era una bella serata, che mi immaginavo, una cosa diversa dalla solita noia. Cinque milioni! L’hai sparata grossa, bastardo che sei!”.
“Ne avresti dati metà a Saravítt?”.
“Ovviamente, è lei che ha preso l’occasione e mi ha chiamata, no? Però che stronza a non riconoscerti al telefono, che stronza!”.
“Puttana e anche ruffiana, appaltatrice di figa, la santarellina, sempre così dimessa, modesta, insignificante a scuola, Saravítt, che a nessun compagno del liceo l’ha mai data, che io sappia. Ma io la riconoscevo dalla voce che non era proprio così. Scommetto che a letto si trasforma in una bomba”.
“Eh, sì, sì, beh”, rispose Susy un po’ piccata, “ma sono una bella bomba anch’io, sai? Immagino che adesso la scopata la vuoi, e gratis. Però poi non dici nulla a nessuno, davvero davvero, eh?”.
Ubaldo pensò un attimo, poi disse piano:
“Io non sono un ricattatore. Però dato che fate sesso con gente che non avete mai visto prima, tu e Saravítt, e credo anche per molto meno di cinque milioni, insomma, da qui alla fine della scuola direi che sia tu che lei potreste allietarmi qualche sera, sì? E io sarò muto come una tomba”.
Susy pensò fra sé e sé che era andata ancora bene, e rispose:
“Patto chiaro amicizia lunga. Sono sicurissima che anche Sara sarà d’accordo, anche perché se no la strozzo. Con me vuoi cominciare stasera?”.
“Accidenti”, rise Ubaldo, “ho pagato la camera, vuoi che non la sfruttiamo? Fammi vedere come ti spogli, su!”.
Alla fine, fu una buona serata di sesso amichevole, dalla quale entrambi uscirono abbastanza contenti.
Il mattino dopo, Ubaldo strizzò appena l’occhio a Saravítt, già informata di tutto. La sera dopo toccava a lei, chiaramente, magari anche solo nella cantina di un amico, perché soldi per alberghi mica si potevano spendere sempre.
Guido si sedette nel banco con Ubaldo e gli chiese:
“Allora, non ti hanno spaccato la faccia?”.
“No, però avevi ragione tu, sono stato stupido. Non è venuta proprio nessuna ragazza”, replicò Ubaldo facendo il viso contrariato.
Guido, fraternamente trionfante, disse:
“Vedi, io le so queste cose. Quelle dei telefoni erotici non prendono appuntamenti. E poi che potesse essere Saravítt era proprio un’idea cretina, scusami. Come hai fatto a pensare che una del liceo facesse una cosa del genere? Solo per una somiglianza di voce al telefono? Hai una bella fantasia! Beh, ci hai rimesso qualche diecimila lire e una sera passata da scemo in una camera da solo, non è una tragedia. A proposito di Saravítt, sai che Mirko ha deciso di toglierla dal grande slam, e di dare il premio a chi si fa le altre tre Sare, e basta? Ha detto che se no il premio sarebbe restato di sicuro non assegnato, perché Saravítt è una che il liceo lo finisce vergine, Mirko ha occhio per queste cose e ci giura”.
“E fa bene”, rispose Ubaldo dondolando il capo con convinzione, “Saravítt è proprio la tipa che finisce vergine il liceo e magari anche l’università. È troppo ritrosa e imbranata, troppo. Anche se la voce…”.
2. Il gusto.
“La bocca non è stracca finché non sa di vacca”, dicono quei bauscia di Milano per spiegare che alla fine di una buona cena “bisogna” mangiare formaggio. Maurizio però dava alla frase un’altra interpretazione: lui il sapore di vacca lo voleva trovare sul ricciolo rosa che increspa il solco più soave nello sbocco del triangolo, lui voleva raccoglierlo con la lingua nella piega dell’ala d’ombra, dove il segno vigoroso di due cosce addita il punto al qual si traggon d’ogni parte i desideri degli uomini. E così ripeteva a Doretta, la sua compagna:
“È per me che lo devi fare, oltre che per te stessa. Su di te voglio trovare il mondo: voglio assaggiare ogni sera nella tua fica la tua giornata, e voglio che sia ricca, piena, forte”.
Doretta, che aveva ventitré anni, da due faceva la postina trimestrale, perché dopo ogni trimestre, sempre, le rinnovavano il contratto per un altro trimestre. Il lavoro le piaceva: girava quartieri di periferia, in bicicletta, distribuendo lettere, stampe e giornali, e per l’una, massimo l’una e mezza, aveva finito, e aveva il pomeriggio libero. Brunetta graziosa con l’occhio rapace e le tettine di burro, non aveva difficoltà ad accontentare Maurizio, trovando amanti diversi quasi tutti i giorni, in modo che lui dopo cena, sprofondando la testa in grembo alla sua ragazza, potesse esclamare “sei una vera vacca” e cominciare le congetture su chi era stato l’uomo di turno, e sulle altre avventure che leggeva nei sapori di lei. Così si eccitava e poi la montava, bisognava riconoscerglielo, da vero toro, la sua vacca; sicché Doretta non se ne sarebbe stancata mai.
Certe notti Doretta non si lavava nemmeno dopo, e accumulava così i sapori di due, tre, persino quattro giorni. Ma non riusciva a disgustarlo: arrivava sempre prima di lui lei, la vacca, a sentire il bisogno improcrastinabile di una doccia o di un bidè. Altri amanti, di bocca più fina, l’avevano invece rimproverata, qualche volta che era al terzo giorno senza abluzioni: “Doda, non ti lavi mai, tu, zozzona?”. E lei rispondeva per le rime, senza arrabbiarsi. Gli amici la chiamavano Doda o anche Do; invece Maurizio, il suo uomo, la chiamava sempre Doretta, tutto intero, perché gli piaceva quel nome un poco inusuale.
La sera, parlandole alla fica, fra un’esplorazione di lingua e l’altra, snocciolava lunghi monologhi, che si evolvevano secondo ciò che le sue papille gustative riuscivano a decifrare.
“Si sente ancora quello dell’altro giorno, ma che preservativo ha usato? Con un lubrificante che sa di conegrina, puah! Lo so che il preservativo ci vuole, ma ce ne sono di meno puzzolenti… Portali tu, non fidarti dei loro. Chi se ne frega se ti dicono troia, tu lo sei, sei troia e cagna e vacca, hai la potenza di queste femmine di animali, ma soprattutto della vacca, la vacca è la più forte. Oggi però ti sei strusciata con Cinzia, lesbicaccia, bambina mia, qui c’è il sapore di un’altra fica, avete mescolato i vostri succhi, eravate eccitate, vero? Sei andata tanto in bicicletta, c’è il sapore del cuoio della sella, avevi le mutandine a tanga, hai bagnato anche la sella della bicicletta, ci scommetto. E l’hai fatto nell’erba, l’erba si sente benissimo, erba già un po’ secca, gialla… Con chi sei stata dietro la cascina oltre la roggia? Fammi sentire, sei stata con uno giovane, ma questo qui il preservativo alla fine se l’è tolto e t’ha innaffiata, guarda, la traccia del suo seme sale, come sei impiastricciata, t’ha spruzzata fin fra le tette, doveva essere arrapato da morire, sì, vacca, Doretta, vacca, Doretta mia, mia vacca, tu sei il mondo, tu sei bellissima”.
Maurizio e Doretta andavano d’accordo. La domenica andavano al cinema. Maurizio, pur trovando la parte migliore del mondo da gustare fra le cosce di Doretta, non rinunciava ad assaggiare altre fiche, che trovava fra le colleghe di fabbrica o fra le donne dei bar dei rioni. Le altre ragazze con lui ci stavano, perché era un bel tipo, però lo trovavano strano, per quella sua predilezione a leccare (peraltro apprezzabile: quasi tutte avevano un orgasmo dalla sua lingua prima che dal suo membro), e per quel suo stare fisso, da anni, con una che, lo sapevano tutti, lo riempiva di corna – dicevano ancora così, benché ormai la mentalità, anche in periferia, si fosse aperta abbastanza, fino a trovare quasi normale che lui e lei, se erano d’accordo, si concedessero reciprocamente quelle “divagazioni”.
Quando la storia finì, fu perché Doretta trovò un tipo che le piaceva di più, e sentì anche il bisogno di cambiare ritmo di vita, e si lavò più spesso, e fu assunta stabile in un ufficio delle Poste. È così: la ruota gira, nulla permane. Maurizio patì per qualche mese, le telefonò ancora, infine si dedicò a una ragazza bionda che aveva già assaggiato tante volte prima, e che non era male, e che spasimava per lui. Tutto andò avanti senza grandi tragedie.
Però Doretta non trovò mai più una lingua capace di frugarla a quel modo, da farla arrivare al coito già esausta d’orgasmi orali; e Maurizio non collezionò mai più una lista così vasta di sapori sulla medesima fica. Ma la biondina nuova era brava a usarla lei, la lingua, e un giorno disse a Maurizio, staccandosi un momento da una vorticosa fellazione:
“Lo sai che il tuo coso ogni giorno ha un sapore diverso?”.
Maurizio sorrise e replicò socchiudendo gli occhi:
“Se vuoi, ti insegno come fare per avere anche tu un sapore diverso ogni giorno nella tua passerina”.
E pensò, ma non disse:
“Però, chissà se saprai di vacca, bambina!”.
3. L’olfatto.
“Il vento soffiava moderato ma sensibile, nella piazza semideserta, da me verso di lei. Sì, lei era sottovento, vicina all’angolo del bar, a una quindicina di metri da me che la guardavo, appoggiato allo spigolo dell’edicola già chiusa. Nemmeno un animale selvatico, dunque, avrebbe potuto percepire l’odore di Eliana. Eppure che cos’era, se non un odore, quello che mi eccitava le narici? E non c’era nessun dubbio, veniva da lei. La sera di luglio addolciva la città e attenuava i rumori. L’odore della pelle di Eliana entrava in me fortissimo, era un effluvio che sbuffava dall’orlo della sua minigonna, quasi lo vedevo…”
Nuto parlava con fervore, seduto al tavolino del caffè della Prosa, tormentando il bicchiere ormai vuoto. Anche Sergio, davanti a lui, accarezzava il suo bicchiere coi polpastrelli, lentamente, e lo interruppe:
“Esatto, quasi lo vedevi. Il fenomeno è spiegabile scientificamente: la vista di Eliana ti eccitava, e l’odore lo producevi tu stesso, era l’odore della tua pelle che si scaldava. Però”, aggiunse, preoccupato di essere stato troppo pedante, “in fondo era comunque Eliana a provocarlo, e quindi possiamo dire che era un suo odore, sì”.
Nuto si strinse nelle spalle, lasciò il bicchiere e appoggiò le dita sul tavolo, come per fermarlo. “Ero ormai preso, capisci, questo è il fatto. Avevo fiutato un’esca alla quale non potevo più sfuggire, e al cui amo d’altronde neppure potevo mordere, perché si teneva a quella distanza da me che favorisce il desiderio, ma nega l’appagamento”.
“Più che a un amo”, replicò Sergio con un sospiro solidale, “paragonerei Eliana a una rete: non prendeva un pesce per volta, ma anzi ne tirava su in grandi quantità, se non sbaglio”.
“Non sbagli, no; e questo mi faceva bruciare di voglia ancor più tesa e violenta. Ciò che negava a me, lo concedeva invece a moltissimi. E quando ebbe chiaro che io la desideravo, cominciò anche a stuzzicarmi e a deridermi in modo sottile. Non tentò mai di rendermi ridicolo davanti alla gente, questo no; però non perdeva occasione per attizzare la mia passione”.
“Già ti è andata bene”, esclamò Sergio convinto. “Una puttanella sedicenne, corteggiata da un uomo sposato di quarant’anni, può sputtanarlo per quartieri e città, e può anche cacciarlo in un mare di guai”.
Nuto alzò gli occhi a guardare il cielo che da rosazzurro stava diventando blumarino. “No, Eliana questo non l’ha mai fatto né a me né ad altri. A differenza di altre ragazze, che giocano con freddezza a farsi desiderare, e rimangono aride e spente, Eliana finiva a mescolare sé stessa nei fuochi che accendeva, s’inumidiva degli stessi sudori degli uomini che ansavano per lei. Perciò, pur motteggiando e scherzando e deridendo, da ragazzina, aveva in sé come un rispetto profondo per la passione, per la voglia, per gli amplessi. Aveva insomma, sia pure inconsciamente, per il sesso quel rispetto che tutti riusciamo ad avere soltanto per le cose che condividiamo veramente, per le cose che conosciamo dentro di noi: mentre per tutte le altre cose, per le cose esterne, al massimo il rispetto lo fingiamo, per correttezza”.
“Verissimo”, ribatté Sergio, “e forse proprio per questo ti ha affascinato tanto, a differenza di altre ragazze che avevi intorno e che pure non erano meno belle né meno fresche di lei. Eliana, puttanella sincera, che non si tiene in disparte dai fuochi che accende. Però a te si negava. Quale può essere il motivo? Non l’età, perché so che ha girato nei letti di cinquantenni e oltre. Non il tuo matrimonio, perché di uomini sposati se ne è fatti a decine. Non il fisico, perché sei un bell’uomo e dimostri dieci anni di meno di quelli che hai. E allora? Perché ti ha fatto penare tre anni, concedendosi alla fine solo per una via molto, mi dicevi, traversa e perversa?”.
“E, soprattutto, quando i suoi sedici anni erano ormai diventati diciannove, e il sesso per lei stava diventando anche un mestiere”, soggiunse Nuto inspirando forte e poi lasciando uscire lentamente l’aria dai polmoni.
“Questo ti ha tolto gran parte del piacere, immagino”.
“Diciamo che non ho mai avuto quella ragazzina, la ragazzina che mi mandava il suo odore controvento da un angolo all’altro della piazza. Il piacere che Eliana mi ha dato tre anni dopo è stato intenso, direi intensissimo; se non fosse, appunto, per il paragone con ciò che poteva essere tre anni prima”.
Il cameriere si avvicinò al tavolo e Sergio ordinò altri due bicchieri di succo fresco d’albicocca. Si mise più comodo sulla poltroncina e disse:
“Capisco, certo. Raccontami qualche episodio dell’Eliana sedicenne”.
Nuto socchiuse gli occhi, come per riflettere o per scegliere l’episodio da raccontare, e cominciò: “Una sera sento il suo odore prima ancora di svoltare l’angolo, poi la vedo davanti all’androne di casa sua, che era ed è una vecchia casa di ringhiera, col portone sempre aperto perché se tentassero di chiuderlo probabilmente crollerebbe. È lì con un ragazzo, uno che ho già visto altre volte con lei. Eliana ha la solita minigonna: portava minigonne cortissime anche in pieno inverno, sembrava che non avesse mai freddo. Dunque, rallento il passo per guardarla, lei mi vede, se ne accorge. Allora abbraccia il ragazzo e lo spinge appena dentro l’androne, si accovaccia davanti a lui e gli slaccia i pantaloni”.
“Accidenti, gli ha fatto un pompino praticamente in strada?”.
“Sì. E non solo: accovacciandosi a cosce larghe, fa in modo di girarsi verso di me, e di farmi scorgere che non ha le mutandine, sotto la gonna che si rimbocca fin sulla pancia. Il ragazzo è un po’ sorpreso, ma neanche troppo, perché la conosce bene: si appoggia al muro, stiracchiandosi, e la lascia fare. Eliana ci si impegna, se lo fa scivolare in bocca fino alle palle e ci gira intorno con la lingua. Io sono lì inchiodato che non posso andare via. Sai qual era in quel momento la mia preoccupazione principale?”.
“Quale?”.
“Che non arrivasse qualcuno, dal marciapiede o da dentro la casa, a disturbarli”.
“O a disturbare te, piuttosto!”.
“Forse. Ma la sensazione era di timore per loro. Io in fondo ero solo un passante, c’erano cinque o sei metri fra loro e me”.
“E poi?”.
“Lui le è venuto in bocca, abbastanza in fretta, mi è parso, anche se non saprei dire quanti minuti fossero passati. Lei si è rialzata in piedi e si è pulita la bocca con la manica della giacchetta di panno che aveva indosso”.
“Che maialina!”.
“Maialina sì. E anche irriverente e talvolta blasfema. Una sera stava seduta con un ragazzo, un altro, sui gradini della chiesa del quartiere. Anche quella volta ho sentito il suo odore prima ancora di vederla, sai? Si avvinghiava al ragazzo, lo baciava. Mentre io passavo, si è alzata in piedi, è andata ad accovacciarsi contro il portone della chiesa e ci ha fatto pipì. Il ragazzo, pensa, si è spaventato, le ha gridato “ma sei scema” e se ne è andato di corsa”.
“Posso immaginarlo”, replicò Sergio. “I ragazzi sono sbruffoni, volgari, sboccati, però si terrorizzano davanti a molti tabù. E tu che cosa hai fatto?”.
“Sono rimasto a guardare. Lei si è girata, ha alzato le spalle, è venuta verso di me, mi è passata accanto. Allora le ho detto “sei bellissima”; lei ha fatto schioccare la lingua e ha tirato diritto. In quel momento il suo odore mi ha preso talmente che mi sono sentito cadere, sono rimasto in piedi per miracolo. Diverse ore dopo, me lo sentivo ancora addosso”.
Sergio sorseggiò un poco di succo, lentamente, per creare una pausa nel discorso, necessaria a guardare Nuto francamente negli occhi e dire:
“Non offenderti, ma io non ci credo. Non credo che tu potessi sentire il suo odore prima di vederla, o prima di sentire la sua voce, o prima comunque di sapere, in qualche modo, che lei era presente. Anche ammettendo che Eliana abbia un odore molto particolare (certe persone lo hanno), gli odori non viaggiano controvento, e non si muovono alla velocità della luce, e poi si disperdono e si mescolano. Io credo, ripeto, che quell’odore tu lo sentissi, sì, ma che venisse da te stesso, che fossi tu a produrlo con il tuo desiderio quando la vedevi”.
Nuto bevve a sua volta, scosse il capo e rispose:
“Immaginavo che questo sarebbe stato il tuo parere, e non voglio discuterlo troppo. Io resto però della mia idea: l’odore era reale. Posso concederti, al massimo, che il mio naso fosse, come dire, specializzato nel percepirlo, per una qualche misteriosa corrispondenza di sostanze”.
Sergio non insisté, e cambiò argomento:
“Ti avevo chiesto perché, secondo te, Eliana non ti si è concessa, a sedici anni, quando pure andava a letto con molti. Non mi hai risposto”.
Nuto si passò una mano sulla fronte e sulla guancia, lasciò scivolare negli occhi una nuvola sottile di malinconia o di rimpianto, e disse:
“Ragionandoci su dopo, ho pensato che i motivi siano stati soprattutto due, collegati fra loro. Il primo è che io ero veramente preso, innamorato di lei, la adoravo. Credo che lei lo percepisse, questo, e ne fosse in qualche modo spaventata. Gli altri uomini la trattavano più brutalmente da sgualdrina, e la durezza creava per lei una barriera di sicurezza. Il secondo motivo è che io, proprio perché innamorato, non osavo prenderla con quella forza rude, spavalda, alla quale lei era abituata. È poi anche una regola abbastanza generale che le ragazze cadano più facilmente nelle braccia di quelli che non le amano, no?”.
“Sì, certo”, convenne Sergio, “l’amore rende timidi e le ragazze, soprattutto le adolescenti, cedono meglio alla spavalderia che alla timidezza. Coi ragazzi timidi magari fanno lunghi teneri discorsi, ma coi ragazzi spavaldi scopano, e dato che per una donna scopare è sempre una cosa importante, abbastanza importante, ecco che si convincono di amare gli spavaldi, per avvalorare la scopata”.
Nuto rise:
“Hai detto bene. Benché Eliana scopasse molto con molti, era pur sempre un’adolescente, e sceglieva i suoi molti, alla fine, con gli stessi meccanismi con cui altre più morigerate adolescenti scelgono i loro pochi. La spavalderia affascina, e allo stesso tempo, come dicevo, tiene le distanze di sicurezza nei sentimenti”.
“È una bella storia”, commentò Nuto, “la tua con Eliana. Ma ora dovresti raccontarmi di quando, tre anni dopo, te la sei fatta. Mi avevi detto che è successo per vie… come avevi detto?”.
“Traverse e perverse”, sorrise Nuto. “Ma forse ho esagerato. Rispetto a ciò che poteva essere tre anni prima, è stato anzi un banale caso di prostituzione, benché alquanto raffinata. Ma il gioco che ho costruito con lei dovrà convincerti della realtà del suo odore speciale”.
“Ah, con quest’odore! Non so se mi convincerai, lo sai che sono un tipo molto razionale. Ma, fra l’altro, sapresti descrivermelo, l’odore di Eliana?”.
Nuto storse la bocca:
“Descrivere a parole un odore, così come un colore o un sapore, è sempre solo un gioco di approssimazioni e di similitudini. Posso provarci, ma non è garantito che l’idea che ti farai assomiglierà all’odore che sentivo io veramente. Comunque, ci sono due o tre versi di un poeta che ho letto, che mi ricordano l’odore di Eliana. Il poeta parla delle fiche… sì, delle fiche, proprio, delle ragazze che gli piacciono, e le chiama
le vostre fessure
umide come uno spacco di scoglio
dove un rigagnolo nutre conchiglie
e aggiunge che
odorano del mare
più vicino: dell’acqua che si scrolla
in mille sprizzi dalle reti alzate
o si versa dai secchi sulle vasche
del mercato del porto…”.
“Un tipo denso, il tuo poeta, per così dire. Già. Un odore salmastro, portuale, dunque?” domandò Sergio.
“Sì, ma con molta vita vegetale, anche; mettici dell’erba, oltre al pesce e al mare, e poi ancora qualcosa di più metropolitano, gli angoli trasformati in pisciatoi, però tutto in una tonalità molto azzurra, e con mille altri ingredienti ancora”.
“Va bene. Forse è un po’ semplicemente l’odore di una ragazzotta che fra le cosce si lava di rado – non offenderti se dico questo, è solo un’impressione”.
Nuto rise:
“Figurati se mi offendo. Di Eliana sono abituato a sentir parlare malissimo, come puoi immaginare”.
“Raccontami piuttosto com’è andato l’adempimento, alla fine, del tuo desiderio. Ne sono ormai molto curioso”.
“Oh, la partenza, ti dicevo, è banale: l’ho trovata in un bordello. Cioè, in una lussuosa casa di massaggi-estetica la cui tenutaria è amica della polizia, ovviamente. Ci sono andato per sentire qualche odore nuovo, in un periodo di stanchezza e di problemi, avevo appena lasciato mia moglie, sai. E invece ho sentito il suo, di odore, ben conosciuto, nella stanza dove la ruffiana mi ha fatto entrare, e c’era lei, Eliana, ad aspettare il cliente”.
“Eliana adesso fa il mestiere?”.
“Dice di prendere due o tre appuntamenti alla settimana, per mantenersi agli studi. Nonostante tutto è arrivata all’università, la ragazzina; dopo qualche bocciatura ci è arrivata. Poi balla sui cubi, posa per i fotoamatori, si spoglia nei locali notturni, insomma mette a profitto in vari modi la sua straordinaria capacità di seduzione”.
“Allora, semplicemente, l’hai pagata e te la sei scopata”.
“Era ciò che naturalmente avrei potuto fare. Invece dedicai l’ora con lei in camera, che pure mi era costata una bella cifra, alla conversazione. Le dissi quanto m’avesse affascinato tre anni prima; aggiungendo, ovviamente, che mi piaceva ancora tantissimo. E le parlai, finalmente, del suo odore. Lei fece l’offesa, esclamò “ma come, allora puzzo?”, rise, mi diede del pazzo. Intanto, io lo sentivo fortissimo, inconfondibile, il suo odore, benché lei si fosse lavata e deodorata a puntino, se non altro per ordine perentorio della ruffiana, che ci teneva al livello della sua casa. E le proposi un gioco, pur sapendo che ci avrei speso metà dei miei risparmi”.
“Accidenti! Che gioco sarà mai stato, così dispendioso?”.
“Ci mettemmo d’accordo con la tenutaria, che per un pomeriggio convocasse, pagandole quello che volevano, tutte le ragazze che poteva convocare: tutte le frequentatrici più o meno abituali della casa, più altre ancora che conosceva nei suoi diversi giri. Si sarebbero messe in fila nel salone, sdraiate sui tappeti, nude, in perfetto silenzio, immobili, lavate e deodorate a loro piacimento. Prima, io sarei stato perfettamente bendato al centro del salone. E avrei avuto in mano tre stelline adesive dorate di carta, di quelle per ornare i vetri alle feste. Seguendo solo l’odore, senza toccare nulla, sarei dovuto andare ad appiccicare la prima stellina sul corpo di una ragazza, appiccicare e via, senza palpare. Poi le ragazze si sarebbero rimescolate, sempre con me bendato al centro del salone. E io sarei andato ad appiccicare la seconda stellina. E così per la terza. Con la tenutaria a controllare la regolarità, come un arbitro. Solo a quel punto, dopo appiccicata la terza stellina, mi sarei tolto la benda. E avrei vinto il gioco io se e solo se tutte e tre le stelline si fossero trovate sul corpo di Eliana”.
“Un gioco di virtuosismo erotico olfattivo! Avrebbe successo in un circo, se al circo si potessero fare giochi erotici. Ma che cosa c’era in palio?”.
“Se avessi vinto io, avrei potuto fare l’amore con Eliana tutte le volte che volevo per un anno, gratis, o meglio, pagando solo la quota per la ruffiana, e neanche un soldo a Eliana. Se avessi perso, avrei pagato a Eliana l’equivalente di cento prestazioni, senza usufruire di nessuna, senza toccarla mai più – e nota che non l’avevo mai toccata, fino a quel momento, ancora”.
Sergio annuì:
“Sei riuscito a caricare di significato quella che poteva essere ormai solo una banale scopata con una puttana. Hai voluto in qualche modo recuperare l’importanza che Eliana aveva avuto per te. È comprensibile. Hai trovato un modo ingegnoso per farlo. Poi, se avessi perso, ti saresti fottuto anche l’altra metà dei risparmi, eh! Un bel rischio. Sì, proprio quello che volevi per debanalizzare la cosa, infatti”.
“A volte il tuo psicologizzare tutto mi irrita”, replicò Nuto, “ma lo accetto perché tu sei fatto così. La ruffiana protestò che il gioco era pericoloso, che far venire tutte quelle ragazze insieme poteva attirare troppo l’attenzione, ma insomma, la pagai bene e naturalmente accettò. Non si trattava di un gioco rumoroso, del resto, anzi, tutto doveva avvenire in silenzio, dato che solo l’odore, non la voce o altro, doveva guidarmi verso Eliana”.
“Ed Eliana, lei, fu d’accordo sul gioco?”.
“Eliana accettò immediatamente. Aveva conservato il suo spirito di sfida e d’avventura, anche se non faceva più pipì sulle porte delle chiese, e probabilmente nemmeno pompini negli androni”.
“Dunque la partita si giocò davvero”.
“Si giocò. La ruffiana trovò diciotto ragazze disponibili. Eliana si mise d’accordo con loro, ovviamente, per rendermi il compito impossibile. Profumi balzani, deodoranti per tutte, una confusione d’olfatto. Fu anzi così abile e maliziosa da incaricare una delle altre, una sua amica, di non mettersi nessun profumo e di non lavarsi per due giorni prima, pensando di trarmi in inganno e di spedirmi verso quella”.
“Diabolica! Ma da come sorridi, capisco già che fu tutto inutile contro il potere del tuo naso”.
Nuto infatti sorrideva disteso:
“Contro il potere del mio naso, forse; o contro l’assoluta unicità e potenza dell’odore di Eliana. Infatti vinsi, sì. Ma non fu neppure facile, perché l’atmosfera del salone era diventata un frullato irrespirabile di odori artificiali violenti. Però quell’odore li attraversava, era come un filo che partiva dalle cosce di Eliana e arrivava al mio naso, superando i mille disturbi della altre stupide puzze. Quando attaccai sulla sua pelle la terza stellina, Eliana esclamò un “minchia, ma com’è possibile?” che mi annunciò la vittoria prima ancora che mi togliessi la benda dagli occhi. Ti dirò: anche la ruffiana e le altre ragazze rimasero molto impressionate!”.
“Lo credo”, replicò Sergio, e poi aggiunse pensieroso e vagamente ammirato: “A volte una forte passione sembra vanificare persino le leggi di natura, rendendo possibili le cose impossibili”.
“Non farla poi tanto grossa”, scherzò Nuto, “alla fine si tratta solo del riconoscimento dell’odore di una fica, no? Non ho mica sballato la gravitazione universale o qualche principio della termodinamica!”.
“Certo, però è già abbastanza straordinario”.
“Insomma”.
“E il premio, un anno di scopate, l’hai incassato?”.
Nuto sorrise di nuovo, più soddisfatto e più malizioso:
“Ho incassato molto di più”.
“Come?”.
“Eliana adesso sta con me, abbiamo preso casa insieme. Oh, in tutta libertà, intendiamoci: lei continua a gestire a suo modo la sua vita, la sera va sempre a spogliarsi nei locali, e va anche alla casa d’appuntamenti, perché non vuole che io la mantenga: si sentirebbe prigioniera. Però abitiamo insieme, e il motivo che l’ha indotta ad abitare con me è che mi ama o, se preferisci, è innamorata di me”.
Sergio era davvero sorpreso:
“Accidenti, questo non l’avrei detto davvero. Innamorata di te. Dopo tutte le sue esperienze, e dopo che ti aveva respinto quand’eri innamorato tu”.
Nuto allargò le braccia respirando forte:
“Tutti i timidi appassionati corteggiamenti erano inutili e sarebbero stati inutili per sempre, ma la performance di riconoscere il suo odore al buio fra venti l’ha sedotta, l’ha sedotta di colpo. C’è rimasta presa. E così adesso io quell’odore me lo sono messo in casa, posso goderne ogni giorno”.
“Non voglio dire una cosa cattiva”, ridacchiò Sergio, “ma temo che adesso te ne stuferai!”.
Nuto si strinse nelle spalle, ancora tutto contento, alzandosi per andare alla cassa del bar a pagare i succhi:
“Può darsi. Ma per ora ne godo appieno. E poi lo scrivono persino le rivistine rosa, che la coppia funziona se il naso è d’accordo, no?”.
I due amici si allontanarono insieme. Era ormai scesa la sera, tutta carica di aromi.
FINE