I.
A ottobre il sole è resina da sciogliere
sugli occhi, Nicoletta: la foschia
s’alza dalla cavetta di marina
di casa tua. Che difficile mare
è questo che s’affoga nei canali
prendendoci le scarpe. Non scintilla
a cielo chiaro che allunghi vociare
di bimbi a riva. Qui è presto silenzio
torbido in grumi. Tu coi tacchi a spillo
sei principessa puttanella. Un bacio
non basta a ripararci dalla tenebra
mostruosa – ma giocando inganneremo
lo sfacelo che sguscia per le strie.
II.
Addolcita nel macero degli anni
Sonia rimane ragazza. Sue figlie
già sanno uomo e sentendosi sagge
le sgridano gli amori – gli adulterî.
La rossa volpe sa che l’esultanza
è la grazia preziosa che si guasta
se la riponi. L’impeto non sta
nello scrigno di casa. La pianura
è densa di profumi e di spiragli
che aprono scorci brevi sull’immenso.
Sonia sta vigile a suggere linfa
di vita che se no si perderebbe
nel quotidiano sacrilego spreco.
III.
A un’ora di tramonto fuggivamo
lungo le dighe quadrate con l’erba.
Dopo fatto l’amore giù per gli argini
si dilatava, ubertoso e lascivo,
l’odore del tuo inguine, Francesca:
restavi aperta e venivano mosche
chiamate dagli umori. Non ti dava
nessun fastidio. Nuda come terra
ti univi un poco al fluire del tempo:
sul confuso orizzonte di laguna
si faceva armonia, da ricordare
tornando nella notte ai rumorosi
viali del lido impavesato a festa.
Torino, 17 ottobre 1996 FINE