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Il bivio

Perché definire incesto qualsiasi rapporto eterosessuale con un discendente o un ascendente, o con un affine in linea retta, ovvero con una sorella o un fratello?

Tale termine, incesto, è entrato in uso corrente intorno al XIV secolo, derivandolo dal latino ‘incestus’, cioè in-castus, non casto.

Quale rapporto sessuale può definirsi ‘castò? Cioè vergine, sessualmente continente?

Quando si parla di ‘complesso di Edipò ci si riferisce alla ‘attrazione inconscià, sessualmente parlando, verso la propria madre Giocasta.

Edipo, infatti, non solo non sapeva che Giocasta, o Epicasta, figlia di Meneceo e sorella di Creonte, nonché sposa di Laio, re dei Tebani, fosse sua madre, ma quella femmina (Giocasta) in un certo senso gli spettava perché lui, in una specie di duello, ne aveva ucciso il marito, Laio. Per tale, chiamiamola così, vittoria, Edipo divenne re di Tebe e sposò Giocasta, dalla quale ebbe due figlie.

Secondo una parte della mitologia e per la tragedia classica, essendosi scatenata su Tebe una tremenda epidemia, segno dell’ira divina, Edipo chiese a Tiresia, l’indovino, di illuminarlo, e da lui venne a sapere che la sua sposa era anche sua madre. Questa notizia condusse Giocasta ad impiccarsi ed Edipo ad accecarsi.

Attrazione inconscia, dunque, perché Edipo non sapeva.

Che dire, invece, dell’attrazione perfettamente consapevole sul chi sia l’oggetto dell’attrazione stessa?

Si può parlare in tale casi di ‘complessò?

E se due esseri legati da affetto intenso, assiduo, tenerezza, comprendono che ciò conduce anche ad attrazione sessuale, i legami sanguineo-parentali che li legano perché dovrebbero costituire ostacolo?

Ci si è arrampicati sugli specchi per cercare una ragione.

Si è detto che tali rapporti violano antichi tabù sessuali.

Inventati da chi?

Non vi è spiegazione in sede storico-antropologica e psicologica, asserisce Herbert Maisch nel suo ‘Inzest’, del 1968. Claude Levi Strass parla di divieto non esistente in natura ma inventato da una certa cultura. Ne ha trattato Lewis Henri Morgan, USA, concludendo che tale tabù ha perduto, dal punto di vista sociologico, la sua vitale importanza sociale pur conservando alcune riserve.

Rapporti sessuali tra fratelli e sorelle vengono da alcuni considerati morbosi, con ciò volendo dire che sono anormali, ossessivi, assillanti.

Anormale nel senso di eccezionale?

Ossessivo perché insistente?

Assillante perché intenso, prolungato?

E allora?

A parte la eccezionalità, cioè scarsa presenza del fenomeno, perché l’attrazione sessuale non è sempre insistente e intensa?

Usiamo ancora questa strana parola, incesto.

Il Codice Penale italiano, art. 564, punisce chiunque, in modo che ne derivi pubblico scandalo, commette incesto con un discendente o un ascendente, o con un affine in linea retta, ovvero con una sorella o un fratello.

Sembra abbastanza chiaro che non è reato la congiunzione carnale, ad esempio, tra fratello e sorella, ma solo il ‘modò, perché se avviene nel segreto dell’alcova, senza che altrui ne abbia notizia, amen!

Comunque, nessuna punizione è prevista in Portogallo, Lussemburgo, Belgio, Turchia…

In merito al ‘pubblico scandalò è necessario che le coscienze siano turbate e sdegnate.

Anche quelle degli adulteri, dei ladri, degli usurai, dei pedofili…. ?

A parte i motivi pseudo giurico-morali, se ne sollevano anche in ordine a possibili danni al patrimonio genetico della discendenza, per sommatoria di eventuali patologie trasmissibili. Non si parla, logicamente di caratteristiche positive, né si accenna alle numerose terapie genetiche che oggi fanno da diga al trasferimento di caratteri negativi.

Troppo lunga premessa, forse, ma serve a chiarire le cose.

^^^

Io e Marina viviamo a Bruxelles da alcuni anni, e siamo allietati da Marco e Luisa.

Una vita calma, serena, che si può certamente considerare felice.

Martina è sempre stata molto dolce, tenera, comprensiva. Non remissiva, perché ha un caratterino che in certe circostanze mostra tutta la sua vivacità e volontà, ma sempre in modo molto controllato e razionale. è continuamente pronta ad ascoltare, riflettere, e se ritiene che l’interlocutore abbia ragione non tarda a dargliene atto.

Per nulla permalosa.

è tendenzialmente romantica, sentimentale, desiderosa di coccole, gesti affettuosi, carezze, e prodiga nel donarne.

Ho solo tredici mesi più di lei.

Io sono nato a dicembre, lei a gennaio di due anni dopo. Entrambi del ‘Capricornò, e la nostra intesa smentisce chi afferma che una coppia dello stesso segno difficilmente vada d’accordo.

Mi è stato raccontato, dai genitori, che appena cominciò a sillabare, il primo nome che pronunciò fu il mio. A suo modo, d’accordo, perché per lei ero Alo, la sua traduzione di Paolo.

Più tardi, voleva essere imboccata solo da Alo.

Tracciava intricati segnacci su un foglio di carta e me li porgeva attendendo il parere di Alo. E quando glielo restituivo, baciandola, mi sorrideva incantevolmente.

Né io né lei abbiamo mai frequentato l’asilo. Tata Lena era tutto per noi, e allorché cominciai ad andare alla prima elementare, passava tutto il tempo a chiederle quando sarei tornato. Al rientro mi dava la manina e mi accompagnava a cambiarmi.

L’anno successivo andammo insieme, ci dividevamo nell’atrio della scuola, lei alla prima femminile, io alla seconda.

E così fu per anni.

Il quaderno lo mostrava a me, se aveva bisogno di chiarimenti, o faceva finta di averne necessità, si rivolgeva a me.

Mi confidava piccoli mali, spesso inventati, per farsi coccolare, confortare.

Faceva del tutto per essere al centro della mia attenzione, del mio interessamento per lei.

Come non voler bene a una così deliziosa bambina?

Quando, grandicella, le chiesi cautamente se le piacesse qualche ragazzo, mi disse di sì, avvampando in viso, ma non volle assolutamente confidarmene il nome.

Ogni volta che dicevo di andare al cine, affermava che sarebbe stata felice di poter vedere quel film, proprio quello che piaceva a lei. Come non contentarla? Se c’era qualche scena un po’ paurosa, si stringeva a me. A casa mi ringraziava con un bacio. Abbracciandomi.

Era piacevole quel suo bacio, quell’abbraccio. Sentire le sue labbra sul volto, e la punta delle sue sempre più prepotenti tettine stringersi a me.

Una tenerezza senza fine.

All’università volle assolutamente scegliere la mia stessa facoltà.

(O faccio quella di Alo o mi fermo qui! )

Marina era molto bella, almeno per me. La più bella tra le tante ragazze che incontravo quotidianamente. La più dolce.

Glielo dicevo sempre che era la mia biondina preferita.

E mi sorrideva, carezzandomi, mentre sempre più attraente diveniva il suo corpicino perfetto.

Non era un’attrazione fisica favorita dalla quotidianità del vivere insieme, da una promiscuità esistente da sempre. Era un preciso sentimento, per quella ragazza che per caso era mia sorella.

Un’attrazione fiorita dopo essere passata per l’affetto, per l’amore fraterno che, ingigantendosi, s’era arricchito con l’incanto della fisicità.

Insomma, le altre ragazze non mi interessavano, ero convinto che mai avrei potuto vivere senza Marina, lontano da lei.

Quel suo guardarmi, poi, come fosse in perenne ammirazione di me, finiva di persuadermi e confermarmi dell’indispensabilità di lei nella mia vita.

Era stata tesissima per preparare il suo primo esame universitario. Aveva voluto ripassarlo con me, che la interrogassi a lungo.

Lo superò brillantemente.

L’avevo accompagnata.

Mi abbracciò con trasporto.

Tornammo a casa.

Complimenti da tutti, ma il rilascio di tensione fu difficile.

Pregò i nostri genitori di esentarla dall’andare a cena dagli zii, e quando dissi che sarei rimasto anche io, a casa, per farle compagnia, le si illuminarono gli occhi.

Tata Lena preparò la cena, perché la colf era in libertà.

Cenammo allegramente tutti e tre.

Lena disse di essere stanca e che preferiva riposare. Baciò Marina congratulandosi ancora con lei. Si ritirò nella sua camera.

Andai a sedermi in poltrona, di fronte alla TV, senza accenderla.

Marina venne a mettersi sulle mie ginocchia.

“Cullami un po’, Alo, mi sento giù. ”

L’abbracciai e la carezzai delicatamente.

“Perché giù, biondina, hai superato un esamone. Brava. ”

La baciai sulla guancia.

Si strinse come una gattina che fa le fusa.

“Non lo so. Sono giù. ”

Aveva messo le braccia intorno al collo e poggiato la testa sulla spalla.

La cullavo, lentamente, carezzandole il fianco, la coscia, la gamba. Sentivo di volerle un bene da morire, avrei fatto del tutto per sentirla un po’ allegra.

Che bella, la mia sorellina, adorabile.

La baciai ancora. Si voltò un po’, col viso, e le sfiorai le labbra.

Era la prima volta che sentivo un desiderio travolgente, di sentirla ancora più vicina a me.

La mano fu sotto la sua gonna, e carezzava, sempre cullandola.

Poi salì verso il grembo, dove le gambe si univano, e le dita cominciarono timidamente a frugare tra i suoi riccioli d’oro.

Lasciava fare, accompagnava il mio cullare col lento dondolio del suo corpo.

Mi accorsi che sentivo distintamente le sue natiche sode quasi dischiudersi sulla mia patta impazzita.

E le dita proseguivano, carezzavano, s’intrufolavano.

La sua bocca era vicino al mio orecchio.

“Piano, Alo, piano… è bello… ma ricordati che sono vergine. ”

Come potevo ricordarlo! Lo immaginavo, lo speravo, in quel momento ne gioivo, e quella confessione così dolce e tenera mi faceva ancor più eccitare.

Le mie carezze furono caute, ma decisamente indirizzate a darle piacere.

Si rilassò, la splendida fanciulla, e palpitava, mi baciava, piccoli baci golosi, inesperti, semplici.

Poi mi abbracciò stretto, vibrò come le corde di un’arpa. Si abbandonò ansimante.

Voce rotta dall’affanno.

“Non sapevo, Alo, che poteva essere così bello. Ma ho sempre saputo che sei bravissimo, in tutto, anche in questo. ”

Malgrado l’eccitazione, prepotentissima, non pensai affatto di scaricarla in lei.

Seguitai a baciarla, a carezzarla.

Dopo qualche minuto, si alzò.

Bellissima, di fronte a me, con un viso inebriato e gli occhi splendenti.

Misi le mani sotto il vestito, sfilai le mutandine, l’attrassi a me.

Era come incantata, inebriata.

L’afferrai per le natiche e con la lingua m’intrufolai nel suo sesso rorido e fremente.

Sentii il bocciolo del suo clitoride palpitare.

Mi prese la testa tra le mani e la stringeva a sé.

Il piacere andava montando. Il grembo era percorso da irrefrenabili onde, e sentivo con la lingua le contrazioni dell’orifizio della sua ancor illibata vagina.

Così, fino a quando non resse, e dovetti sorreggerla, quasi in deliquio.

La mia eccitazione e tensione era tale che dovetti correre al bagno, stringendo il fallo per non insudiciarmi del liquido che stava per irrompere.

M’arrangiai alla meglio e tornai da lei.

Era seduta in poltrona, con la testa rovesciata sulla spalliera e gli occhi socchiusi.

Mi tese le mani.

“Ti adoro, Alo, da sempre. E sono la donna più felice del mondo. ”

Aprì gli occhi, mi guardò intensamente. Strinse le mani.

“Voglio essere tua, Alo, solo tua. Ho conservato per te la mia verginità. Devi essere tu a coglierla. ”

Si alzò e m’abbracciò, piangendo

L’accompagnai nella sua camera, l’aiutai a spogliarsi, come una bambina, a indossare il suo pigiama. Le rimboccai le coperte, rimasi vicino a lei, carezzandola, fin quando non si addormentò.

Tornai a sedere il poltrona. Accesi la TV.

^^^

Era così.

Marina ed io ci amavamo follemente, una meravigliosa, travolgente follia della quale iniziammo a parlare con limpida e serena consapevolezza.

Ci amavamo.

E ciò, logicamente, comprendeva tutto.

Il piacere di essere insieme, di carezzarsi, di baciarsi, e l’attesa di coronare questo amore con la fusione dei nostri corpi che, però, avevamo deciso dovesse essere un punto di partenza e non d’arrivo della nostra vita.

Non era infatuazione del momento, ma profondo convincimento, certezza, che avremmo dovuto condividere gioie e avversità della nostra vita. Noi eravamo una coppia perfetta.

‘La coppià.

Follia che non ci fece bruciare le tappe, che ci suggerì, anzi, come procedere.

Io la desideravo, lei mi desiderava.

Prima cosa: quando, dove, come.

Non era la ricerca di uno sfogo sessuale da affrontare con le solite precauzioni meccaniche: il profilattico.

Ma non si poteva rischiare, in quel momento, una gravidanza.

Quindi, individuazione di farmaci anticoncezionali sicuri e non nocivi.

Quando tutto fu chiaro, decidemmo quelle che sarebbero state le nostre nozze, con tanto di viaggio, anzi il nostro ‘viaggio di nozzè.

Inventammo una gita universitaria a Venezia. In aereo. Tre giorni.

Curammo ogni particolare, anche quelli che potevano costituire motivo di un qualche puritano disagio. Marina, inoltre, disse che avrebbe voluto conservare per sempre, come una reliquia, la testimonianza della sua ‘prima voltà.

Non so dove l’avesse trovato, ma mi mostrò una specie di corto asciugamano di morbido lino che sarebbe stato il suo ‘corporalè da custodire religiosamente.

Preparazione a un rito della massima importanza, una vera e propria iniziazione. Concetti forse anacronistici, miti d’altre generazioni.

Marina aveva una sua particolare mistica, e il suo convincimento le diceva che non poteva essere ‘malè il bene, l’amore, che univa due esseri.

Non accettava supinamente, passivamente, quelli che considerava pregiudizi illogici di uomini frustrati.

Per noi non poteva esservi stato civile a registrare il nostro intendimento, che tanto meno avrebbe potuto avere la forma ‘sacramentalè.

Anzi.

Ma il Signore della bontà e del perdono come ci avrebbe giudicato?

Marina, un po’ a modo suo, era ‘credente e praticantè.

Mi condusse nella nostra piccola e raccolta parrocchia, al primo banco.

La chiesa era completamente vuota, data l’ora. Si inginocchiò, mi fece segno di sedere. Rimase a lungo col volto tra le mani, immobile.

Quando si rialzò e sedette al mio fianco, il suo volto era serio, raccolto.

Volle andare a Villa Borghese, al lago, su una panchina nascosta dalle siepi.

Mi prese la mano, si voltò verso me.

“Lo sapevo ancor prima di chiedere di essere soccorsa nella decisione.

Mi è stato mostrato un bivio: una strada illuminata, lunga, in fondo alla quale vi é luce, un’aurora; l’altra tenebrosa, breve, e termina in un precipizio.

Ho imboccato la strada scura, inciampavo, cadevo, mi ferivo, e presto ero al baratro che mi aspettava. Sono tornata indietro.

Mi sono avviata per la via della luce, tra aiuole fiorite, musica deliziosa, e sono andata verso la fonte di quel sole, sei tu, ci sono io, dei bambini festanti. ”

Lo sguardo era nel vuoto, lontano, incantevole e incantato.

Si strinse a me, ci baciammo.

“Andiamo a Venezia Alo. ”

Aereo del pomeriggio, stranamente in orario perfetto. Eravamo sereni, distesi. Il motoscafo ci portava all’albergo, sul canal Grande, poco discosto da San Marco, di fronte alla chiesa della Salute.

Marina volle salire per ‘darsi una sistematà, e poi di uscire, subito, prima della chiusura della Basilica.

Raggiungemmo subito la piazza, dal retro, l’attraversammo, entrammo nella chiesa di San Marco.

Marina mi prese per mano e mi condusse in fondo, a sinistra, dinanzi all’immagine antica della Madonna.

Rimase a pregare, in silenzio, sempre tenendomi la mano.

Fece il segno della croce.

Uscimmo.

“Quella è la ‘Madonna del Pargolò, Alo, dove le spose pregano per avere un figlio dal loro amore. L’ho fatto anche io… ”

“Ma… ”

“Lo so che non è il momento, ma io voglio avere figli da te, sono e sarò la tua donna… ”

Non capivo quel suo modo di interpretare la religione. Comunque.

Volle gironzolare, prendere l’aperitivo sotto i portici, bighellonare in ‘merceriè, consumare un leggerissima cena in un ristorantino dietro Rialto, e tornare, lentamente, in albergo.

Salimmo nella nostra camera con la bifora sul canale.

La cameriera aveva preparato sul letto la sua velata bianca camicia da notte, il mio pigiama.

Mi disse di guardare un po’ la TV, prese la camicia, andò nel bagno, ma prima aveva alzato la copertina del letto e manovrato un po’ misteriosamente.

Pensai bene di cambiarmi, mettermi in pigiama.

Ero nervoso, eccitato.

Apparve avvolta nella nube vaporosa della trasparente camiciola che lasciava intravedere il suo sorpicino magnifico, le sue tettine splendide, il culetto appetitoso, coi capelli biondi sciolti sulle spalle.

Andò al letto, si infilò sotto la coperta, mi guardò amorevolmente.

Fui pronto presto.

Tornai indossando solo pantaloni, sedetti sulla sponda, tolsi anche quelli,

Le fui accanto.

Le sfilai lentamente la camicia.

La camera era avvolta dalla penombra, solo la luce soffusa del lume sul suo comodino, filtrata attraverso il rosa pallido del paralume.

Era la prima volta che eravamo così, nudi, nello stesso letto.

Marina era supina, col viso girato dalla mia parte.

Ero sul fianco.

Le carezzai il volto, la baciai sulle labbra. Ricambiò, un po’ timidamente.

Abbassai un po’ la coperta.

Piccole tettine meravigliose, coi i capezzoli turgidi e quasi violacei.

Li baciai, li succhiai, mentre scostavo ancor più la coperta, fino alle ginocchia, e la mano le carezzava i riccioli dorati del suo grembo. Dischiuse appena le gambe. Le mie dita la conoscevano, l’avevano carezzata e carezzata, ora insistevano titillando il clitoride che sentivano protendersi vibrante. M’abbassai con la testa, le feci provare il noto tepore della mia lingua curiosa.

Marina si rilassava lentamente, sentivo le sue gambe stringersi attorno alla mia testa, lei allungò le mani, mi carezzò, mi attirò teneramente su di sé, mentre le sue gambe s’erano decisamente aperte. Il mio glande era vicino alla sua illibata vagina. Mi guardò negli occhi, fece un piccolo segno di assenso col capo. Entrai in lei, dolcemente, fermandomi un solo istante quando sentii la debole difesa del suo imene. Fu un attimo, appena un aggrottar di fronte, poi m’abbracciò, stretto, inarcando il bacino, accogliendomi palpitante.

“Sei bello, Alo! Dio, quanto ti ho desiderato, quanto ti desidero! ”

Agivo delicatamente, mi ritiravo e spingevo con lunghi movimenti, percependo le incantevoli contrazioni della sua vagina. Mi accompagnava con naturale istinto, e le sue manine, sulle mie natiche, mi dissero quando dovevo aumentare il ritmo, sempre più… sempre più…

Il suo respiro era sempre più marcato, un lungo gemito sfuggiva dalle sue labbra che baciavo e ribaciavo, il suo ventre era impazzito…

Muoveva la testa, di qua e di là.

“Alo, amore mio, Alo…… tesoro….. è bello morire così, di piacere, di voluttà… ”

Fo scossa impetuosamente da un orgasmo che sembrava averla sfinita, ma palpitò ancora, e le pareti rilassate della sua vagina furono percorse da un lungo meraviglioso fremito, quando si sentì invasa dal mio seme.

Volle che rimanessi su lei.

Il suo respiro andava tornando regolare.

Mi carezzava, rideva, piangeva…

“Ti voglio bene, Alo, ti amo…. ”

“Anche io, tesoro… sei bellissima…. Grazie… ”

“Sono io, che devo ringraziarti, amore mio, da sempre, e per sempre. ”

L’amore, la passione, il desiderio, trovarono sublime compimento in quella prima volta meravigliosa.

“Devo alzarmi, Alo… devo fare una cosa. ”

Mi misi supino sul letto.

Il fallo era ancora abbastanza eretto.

Marina prese la sua camicia da notte e con essa lo deterse, accuratamente. Aggiustò tra le sue gambe il lino che aveva messo sotto di lei, prima ancora di stendersi sul letto, si alzò. Mi sorrise, scomparve nel bagno.

Sentii lo scorrere dell’acqua, un breve silenzio, e lei ricomparve, nuda, splendida.

Andò dinanzi allo specchio, si guardò attentamente, a lungo.

Si voltò verso me, mi sorrise.

“Peccato che devo prendere la pillola… per quanto ancora? ”

“Fin quando non potremo stare soli, amore. ”

Andò alla toilette, si girò e rigirò, si avvicinò al letto.

Sedette sulla sponda.

Era meravigliosa la mia Marina, la più bella del mondo.

Con naturalezza, si distese su me.

Il fallo, eretto, poteva sembrare un ostacolo, ma ella dischiuse le gambe, si fece penetrare con decisione, quasi con esperienza, e le riunì, stringendolo in se. Mi abbracciò, con le mani sotto la mia nuca.

“Voglio stare un po’ così. Peso? ”

“Il più incantevole del mondo. ”

“è bello averti in me, Alo. Mi piace. Senti? ”

E come se la sentivo. Mi suggeva voluttuosamente.

Cominciò con piccoli movimenti del bacino, mentre le mie mani le carezzavano le sode natiche seducenti, poi li aumentò sempre più, guardandomi in volto, scrutando le mie reazioni.

A mano a mano che il piacere s’impadroniva di lei, divenne sempre più frenetica, si alzò, pose le ginocchia sul letto, ormai era una cavalcata sbrigliata che il tocco delle mie mani sulle sue stupende tette rendeva ancor più piacevole.

Mi misi seduto, per sentirla ancor più vicina. Le succhiavo i capezzoli, carezzavo le natiche, la stringevo a me. Era una cosa indescrivibile.

Ora rovesciava il capo indietro, ora mi baciava sulla fronte.

I suoi capelli d’oro erano scossi qua e là, cadevano sul petto, incorniciavano il volto, lei li scostava.

E seguitava a cavalcare, fin quando non si gettò sfinita su me, baciandomi appassionatamente.

^^^

Non so dire quante volte, in quei tre giorni, facemmo l’amore. Perdutamente.

Perché noi ‘facevamo l’amorè, non erano semplici e ordinarie ‘scopatè liberatorie per l’appagamento dei sensi e basta.

Quell’essere l’uno dell’altro era il completamento naturale di due esseri che solo quand’erano così uniti formavano un tutto, .

Un tutto unico, irripetibile con infiniti altri esperimenti.

Appena tornammo a casa il nostro unico pensiero fu di trovare il modo per stare da soli, possibilmente lontani da tutti.

La buona stella ci arrise.

La Haute Ecole Francisco Ferrer di Bruxelles aveva messo in palio delle borse di studio, una per ogni anno di corso della facoltà ‘Ingénieur commercial’. Inviammo le domande, sugli appositi modelli, e fummo tra in vincitori. Dieci in tutta Italia.

I nostri genitori non sapevano se essere contenti o dispiacersi per la lontananza.

Un intero anno scolastico.

Alla fine decisero che era un’occasione da non perdere.

A Bruxelles c’era anche il MCE, Management Centre of Europe, importante istituzione, legata alle più importanti Multinazionali, e sarebbe stato opportuno prendere contatti, per il futuro.

La partenza, pur dolenti per allontanarsi da papà e mamma, fu per me e Marina un trionfo.

Le raccomandazioni si sprecarono: ‘vogliatevi benè, ‘non litigatè, ‘Paolo abbi cura di tua sorellà, ‘Marina non far arrabbiare Paolò…

Il regolamento del Ferrer prevedeva il rinnovo delle borse di studio a condizione che il profitto superasse un certo livello.

Marina ed io fummo sempre ai primi posti, tanto che dopo la laurea, sia a me che a lei, fu offerta la possibilità di intraprendere la carriera docenziale.

Nessuno ha mai saputo che siamo fratello e sorella. La omonimia era solo casuale.

Avevamo due minialloggi nella ‘hotelleriè del Ferrer, ma ne usavamo uno solo.

Quando, dopo la mia laurea e l’inserimento nel corpo insegnante ce lo potemmo consentire, prendemmo un grazioso appartamento, in fitto, ed andammo a vivere insieme, ufficialmente.

Fu allora che Marina smise di prendere la pillola.

E non manca, ogni tanto, di portare i fori a Notre Dame de la Sainte Famille. FINE

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