L’amica di famiglia (1 di 2)

Ma quella la conosco, mi dico notando una signora di una certa età, che in quel momento mi dà le spalle. Siamo nell’anticamera di uno studio medico: lei sta parlando con la segretaria al banco accettazione.

“Signora Maria, che piacere vederla, come mai da queste parti?” Le solite frasi banali di introduzione a un incontro occasionale.

“Antonio, caro, è vero: da quanto tempo non ci si incontra? da quando sei andato a vivere da solo….” Due anni fa ho piantato l’Università e mi sono messo a lavorare. Sono un consulente finanziario. Con i primi guadagni e l’aiuto – a denti stretti – dei miei ho affittato un bivani, in un quartiere che sta dall’altra parte della città rispetto alla casa dove sono nato.

“Abiti da queste parti se non sbaglio…”

“Sì, a poche centinaia di metri. In questa zona ho molti clienti.”

“Il lavoro va bene, quindi… “Non mi lamento. Il portafoglio è discreto. Guadagno già abbastanza.”

“Tua madre parla sempre di te. Così giovane, ma hai già successo…” Ho ventitre anni, un appartamento mio, la macchina, un conto in banca che comincia a crescere, un fisico sportivo, non faccio fatica a rimorchiare: sì, in questo momento vado alla grande!

“Ma come mai sei qui?”

“Devo fare fisioterapia: mi sono stirato un tendine giocando a tennis. Ma lei, piuttosto, cosa ci fa in questo centro? E’ lontano da dove abita…”

“Mi hanno consigliato questo posto: devo fare delle applicazioni laser sulla pelle. Noi vecchietti….” ride.

“Bè, allora, arrivederci, ci rivedremo qui se gli orari coincidono.” Sorride:

“sì, a quanto pare sono gli stessi. Ciao.” E’ davvero passato molto tempo da quando l’ho vista l’ultima volta, sicuramente a casa dei miei. Lei e il marito, che è un medico e che più grande di lei, sono vecchi amici dei miei genitori: per quanto vada in là con la memoria, hanno sempre frequentato casa nostra con una certa assiduità, anche se non li definirei intimi. Sono benestanti e senza figli Lei ha qualche anno più di mia madre, diciamo 55. Non mi pare sia cambiata molto in questi anni. E’ una donna di classe, sempre curata e composta. Bassina, con un fisico minuto. Non sono mai stato in confidenza con lei, ma, fra le amiche di mia madre, l’ho sempre considerata la meno antipatica. Torniamo a incontrarci qualche giorno dopo nello stesso modo. La noto io per primo e mi avvicino salutandola:

“Buon giorno”.

“Buon giorno a te, come va?”

“Mi fa un po’ male il polso”, dico con una smorfia, ruotandolo.

“D’altra parte, spero che un po’ di dolore significhi che la fisioterapia fa effetto.”

“Non ti preoccupare, un ragazzo sano come te torna a posto in un baleno.” La signora Maria mi osserva:

“Ma come sei elegante!”. Ho un blazer blu, pantaloni grigi, camicia e cravatta.

“Sa. è per il lavoro. Vado a trovare i clienti nelle loro case, devo presentarmi con un abbigliamento formale.”

“Stai molto bene. E pensare che eri un ragazzino tutto sbrindellato.” dice ridendo. Questo commento mi fa un po’ arrossire. Cerco di dare l’immagine del giovane professionista in carriera, ma temo di apparire un po’ ridicolo agli occhi di questa donna che mi ha visto crescere.

“Ho un appuntamento fra mezz’ora. Posso offrirle un caffè?”

“Perché no?” La scorto a un bar poco distante. Ci sono i tavolini così ci sediamo, uno di fronte all’altro. Ha uno strano, enigmatico sorriso. La scruto interrogativo:

“Perché sorride?” “Niente, Penso a quanto sei diventato diverso. Ora che sei un bel giovanotto, mi è difficile dimenticare quando eri un bambino.” “Spero di non averla delusa, crescendo”

“Assolutamente no. Anzi ti preferisco così: un uomo fatto, disinvolto, con una posizione, anche bello. Non avevo dubbi che lo saresti diventato, ma mi fa lo stesso effetto adesso che ti ho davanti.” Rido per nascondere il leggero rossore che mi imporpora il viso. Non se ne sarà accorta, ma la signora Maria mi ha fatto due complimenti in due frasi.

“Lei è troppo buona…” La guardo. Porta con nonchalance i capelli con riflessi d’argento, un po’ corti, che non le arrivano a toccar le spalle Sul viso, truccato con leggerezza, le rughe si vedono, intorno agli occhi, alle labbra, sul collo e sotto il mento, ma vi campeggiano un paio di vivacissimi occhi azzurri. Indossa un tailleur impeccabile, giacchino con reverse, camicetta, gonna, calze scure e scarpe a punta con i tacchi. La sua immagine conferma il mio ricordo di una donna sempre vestita con gusto inappuntabile. Ma, non potendo evitare di guardarle dato il modo in cui le ha incrociate accavallandole, scopro invece sorpreso che ha delle gambe piuttosto belle: insospettabilmente ancora snelle e tornite, dalle caviglie alle ginocchia appena scoperte dall’orlo della gonna. Come estimatore delle gambe femminili mi rallegro che la moda consenta anche alle signore di mezza età di indossare gonne al ginocchio. Chiaccheriamo di banalità per un bel po’ e mi ritrovo a cambiare giudizio: piuttosto che “meno antipatica” la signora Maria è decisamente simpatica e allegra, con quella sua voce sottile e la risata che sembra il trillo di un campanello. Con lei si conversa piacevolmente, visto che a un certo punto mi accorgo di essere in ritardo per il mio appuntamento di lavoro.

“Devo proprio scappare” le dico.

“Certo. D’accordo. Continuiamo la conversazione un’altra volta, visto che ci vediamo spesso adesso…” dice indicando lo sguardo l’ambulatorio poco distante. Pago il conto e con galanteria le tengo la sedia mentre si alza.

“Grazie, sei anche un giovane beneducato. Un fiore raro.” Un paio di giorni dopo, uscendo dalla mia seduta, non la vedo ma la segretaria, che mi conosce, mi porge un foglio ripiegato dicendo:

“Lo ha lasciato una signora per lei”. Nel biglietto c’è scritto:

“Mi hanno spostato la seduta che adesso finisce prima. Ti ho aspettato per un po’ ma devo andar via. Alla prossima. Maria” La seduta successiva me la trovo, infatti, che mi attende nella sala d’aspetto.

“E’ stata molto gentile ad aspettarmi”, esordisco io educatamente,

“ma non doveva sentirsi in obbligo”.

“Nessun obbligo. Mi faceva piacere vederti. Non è che abbia appuntamenti di lavoro, io. Una volta che arrivo fin quaggiù la mattinata è bella e persa.” Mi seggo vicino a lei. Noto subito che è più truccata dell’altra volta.

“Ho ingannato il tempo leggendo questo” e mi porge un opuscolo sul Viagra.

“Bè, pare che sia efficace per chi ha dei problemi” esclamo tanto per dire qualcosa.

“Potrei provarlo con mio marito. Ma dubito degli effetti: in amore ci vuole la voglia, oltre la …. meccanica.” Lo dice abbassando per un attimo lo sguardo. Quella improvvisa confidenza, peraltro detta con tono naturalissimo di chi dica cosa ovvia e risaputa, mi spiazza. Certo, mi dico: il marito dovrebbe avere settantanni, un’età in cui è probabile essere già in disarmo. Non sapendo cosa dire, svio il discorso:

“Non le ho mai chiesto come fa ad arrivare quaggiù da casa sua. E’ lui che l’accompagna?”

“No, no. Prendo i mezzi pubblici o altrimenti un taxi.”

“Ho qui la macchina: dovrei andare verso le sue parti. Vuole che l’accompagni?”

“Saresti molto gentile, ma non devi disturbarti.”

“Nessun disturbo.”

“Sono sicura che allunghi di molto per essere carino con me” In realtà ha ragione: ho un appuntamento di lavoro, è vero, ma portarla a casa significa fare un giro lunghissimo. Tuttavia insisto: sarà stato quel fugace accenno ai problemi con il marito, ma ho proprio desiderio di farle una gentilezza.

“Accetto solo perché ho piacere di stare in tua compagnia” dice alla fine. Una frase educata, ma il tono sembra convinto e scopro che mi fa piacere pensare che sia vero. Uscendo le tengo aperta la porta a vetri dell’ambulatorio e, nel passare, per un attimo la mia mano si ferma sulla sua schiena. Al contatto, per quanto istantaneo, ho come un tuffo al cuore, un brivido elettrico lungo la schiena. Alla macchina, apro la portiera aspettando che lei si accomodi. Non posso fare a meno di notare che la gonna è forse anche più corta dell’altra volta e nel sedersi le ginocchia, velate di nylon blu scuro, restano scoperte.

“Però la signora Maria alla sua età si sente il coraggio sfoggiare la minigonna!” penso fra me e me sorridendo facendo il giro della macchina per entrare al posto di guida.

“Un giovane come te per fortuna non sa che farsene” dice all’improvviso.

“Di cosa?” “Del Viagra, no?” La conversazione di pochi attimi prima mi è già uscita di mente, diversamente da lei, evidentemente. Che posso rispondere? Un po’ imbarazzato me ne esco con una banalità:

“Fino a una certa età le funzioni sono integre, poi declinano.”

“Per voi uomini”, ribatte pronta, “per le donne non cambia niente, anzi in alcuni casi il fisico è anche più vitale.” Mi sta lanciando un messaggio? Mi chiedo se voglia farmi capire qualcosa. Che sia insoddisfatta del marito? Ma perché lo viene a raccontare a me. Turbato e dubbioso, cambio ancora una volta discorso:

“Ecco, stiamo passando proprio sotto il mio appartamento. E’ qui”, indico un portone, “al secondo piano.”

“Il tuo rifugio” commenta poi mi chiede com’è. Per un po’ le spiego com’è composto e parliamo di metri quadri, di affitti, di case e quartieri dove vivere. Parlando con lei ogni tanto mi volto a guardarla. Sarà che nella mia coupè i sedili sono molto inclinati, ma lei ha assunto una posizione quasi sdraiata: la cosa non mi interesserebbe, se così la gonna non fosse risalita abbondantemente sopra le ginocchia.

“Se vuole può raddrizzare lo schienale”

“No, no, sto comodissima in questa macchina” risponde e, anzi, si mette ancora più comoda con il risultato che la gonna risale un po’ di più. Lei riporta prontamente l’orlo giù, ma non tanto velocemente da non avermi fatto intravedere una striscia appena più scura della calza, indizio che mi fa subito pensare che la signora Maria non indossi collant.

“Tua madre ti viene a trovare spesso?” L’improvvisa introduzione di quella nota mi distoglie da pensieri potenzialmente compromettenti.

“All’inizio sì: era convinta che da solo non me la sarei cavata, così cercava di capitare con ogni pretesto. Ma le ho detto di smetterla e di lasciarmi la mia libertà.” “La libertà! Per voi ragazzi significa fare ciò che vi pare e piace. Ai nostri tempi la parola libertà nemmeno esisteva.”

“Non faccio niente di speciale. Ma non devo rendere conto ai miei di tutto quel che faccio, tutto qui.” “Eh! non voglio nemmeno pensare a come la usi la tua libertà! Povera donna!”

“Povera donna, chi?”

“Tua madre! E’ sempre preoccupata per te. Mi fa ridere perché è convinta che tu viva più o meno allo stato selvaggio.”

“Bene! così ridete alle mie spalle.”, non abbandono il tono ciarliero, ma questa idea che non sia capace di mandare avanti una casa in realtà mi irrita terribilmente.

“Pensa anche lei che casa mia sia infestata da ragni e scarafaggi e i cassetti trabocchino di biancheria sporca?” La signora Maria, che si era persa a guardare attraverso il finestrino il traffico mattutino, si gira a guardarmi, me ne accorgo con la coda dell’occhio.

“No,” dice improvvisamente più seria,

“non lo penso. E non lo pensa nemmeno tua madre. E’ che a noi donne piace sapere che voi dipendete da noi. Per sentirci sempre un po’ mamme.”

“Comunque,” aggiunge,

“a giudicare da come è ben stirata la tua camicia o sei un bravo uomo di casa o c’è una mano femminile dietro.”

“No,” scuoto la testa, “nessuna donna mette le mani nei miei cassetti. Viene un paio d’ore la settimana una domestica a far le pulizie, ma le camicie me le stiro da solo,” preciso con orgoglio.

“Sicuro? non ci sarà una bella ragazza desiderosa di accudire questo giovane uomo?”

“No. E’ una scelta precisa. Se permetto a una ragazza di mettere la mani fra le mie cose, potrebbe illudersi di avere il diritto di fermarsi più di una notte. E questo non voglio.” Mi giro a guardarla con aria provocatoria, sotto sotto desideroso di trovarla scandalizzata.

“Idee molto chiare e precise, questo giovanotto…” è il suo commento. Per un po’ cade il silenzio. La osservo, mentre lei è tornata a girarsi verso il finestrino, persa in chissà quale pensiero. Mi chiedo che tipo di donna veramente ci sia sotto quell’immagine borghese. Non proprio felice e soddisfatta, scommetterei.

“Ai miei tempi,” soggiunge all’improvviso, “gli uomini non erano capaci di lavarsi da soli nemmeno un calzino. Avevano bisogno di una donna accanto per non morire di fame: prima la mamma, poi la moglie. E le donne erano educate per diventare prima mogli e poi madri.” “Non pensi che non sia in parte ancora così. Anch’io conosco tanti coetanei che escono dalla casa dei genitori solo per sposarsi. Ma la maggior parte degli uomini ormai sanno essere autosufficienti. E anche più bravi delle donne, In cucina per esempio.”

“In cucina? non dirmi che sai anche cucinare?”

“Certo,” rispondo punto sul vivo, “detesto la favoletta dello scapolo che non sa attaccare un bottone alla camicia e si nutro solo di scatolette. Io sono abbastanza bravo ai! fornelli. Parecchie … alcune ragazze che l’hanno provata, hanno fatto i compimenti alla mia cucina.”

“Questo davvero, Antonio, stento a crederlo. Cucinare richiede attenzione, pazienza. Da ragazzo mi pare fossi abbastanza maldestro.”

“Allora vuol dire che sono cambiato. Le assicuro che sono un discreto cuoco. Venga a fare la prova.”

“Dove?”

“A casa mia. Potrei cucinare, per darle una dimostrazione”,

“E’ un invito?”

“Perché no?” aggiungo. Lei improvvisamente scoppia a ridere. Ha questa risatina argentina, come un campanello, ma che in questo momento mi dà ai nervi, perché mi sento canzonato.

“Che c’è da ridere,” faccio serio,

“non sono all’altezza di invitarla a pranzo?”

“No, no,” dice smorzando il riso e poggiandomi la mano sul braccio,

“Non ridevo di te. E’ che credo sia la prima volta in vita mia che un uomo si offre di cucinare per me. E, devo confessarti, che non mi fido molto. Dovrò portarmi un panino?” e riprende a ridere. Mi fermo perché nel frattempo siamo arrivati alla fine del tragitto. Lei ridacchia ancora e le si vede il seno addirittura ballare sotto la camicetta.

“Accetti,” le dico, “se non dovesse piacerle quel che preparerò mi impegno a portarla in trattoria sotto casa.”

“Va bene, ci guadagno comunque.”

“Cosa?”

 

(continua) 

FINE

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