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Dolly

Senza nessuna ragione una matita rotolò giù dal piano della scrivania e si spezzò la punta sul pavimento. La raccolsi lentamente, e con la massima cura l’appuntii di nuovo al temperamatite, girandola e rigirandola per ottenere una punta acuminata e precisa. Poi la deposi nel vassoietto, e mi pulii le mani. Avevo tutto il tempo del mondo. Guardai fuori la finestra del mio studio. Non vidi niente. Non udii niente. Voltai lo sguardo verso la schermo del computer e rilessi ciò che avevo scritto fino a quel momento. Lo lessi con molta attenzione per ben due volte, poi selezionai il testo e spinsi il tasto ‘Canc’. Lo schermo fu di nuovo bianco. Bello, perfetto. Pulito. Proprio come doveva essere.

Rimasi per qualche minuto ad ascoltare il silenzio. Non so cosa mi aspettassi di udire. Ma, quel che fosse, non lo udii. Gettai un nuovo sguardo alla finestra. Qualche rara luce ammiccava tra gli alberi folti. L’odore della città saliva fino a me. Era un odore vecchio e stantio. Pensai ad altro. Mi tornò in mente una cosa che sapevo da tempo, ma che cercavo di dimenticare. Come fa uno scrittore a rendersi conto di essere finito? Lo sa quando comincia a leggere i suoi lavori precedenti in cerca di ispirazione. Avevo cinquecento pagine stampate – più di un milione di battute – ben ammonticchiate sul tavolo, e non sapevo che farci. Il mio romanzo era lungo. Al pubblico piacciono i romanzi lunghi. I dannati e stupidi lettori credono che quando le pagine sono molte debbano contenere molto oro. Io non osavo neppure rileggerle, e non riuscivo a ricordare la metà di quello che ci avevo scritto: ero terrorizzato alla sola idea di rileggerle! Perciò cercavo di pensare ad altro. Tolsi una sigaretta dal pacchetto, tanto per tenere occupate le dita.

Guardai l’orologio: erano le quattro e trentatré del pomeriggio. La filippina spazzava la stanza. Spensi il computer, lasciando che un centinaio di pensieri sfumassero con esso.

Avevo finito le sigarette. E ne avevo dannatamente bisogno.

Scesi pigramente al chiosco dei tabacchi all’angolo, per un pacchetto di Lucky Strike. La commessa era una bionda-paglia, col collo sottile e gli occhi stanchi. Mi porse le sigarette e lasciò cadere il resto nella fessura di una cassettina con la scritta: “Caritas”.

– Lei voleva che lo facessi, vero? – disse con un sorriso paziente. – Senz’altro voleva regalare i suoi soldi ai poveri, vero? –

– E se non avessi voluto? – chiesi.

– Ripescherei i suoi spiccioli – spiegò la ragazza. – Ma sarebbe molto penoso. Tanti bambini rimarranno senza mangiare. – Aveva una voce bassa e lenta, umidamente carezzevole, come un asciugamano bagnato. Infilai altre monete nella cassettina. La ragazza mi gratificò del suo sorriso più smagliante, offrendomi una prospettiva ancor più vasta delle sue tonsille.

– Per caso, avete delle lamette da barba? – chiesi.

La commessa fece un gesto impreciso, lento ed elegante, nei paraggi della nuca, mettendo in mostra un numero che mi parve esorbitante di unghie rosso-sangue, si chinò sul banco, permettendomi di odorarle i capelli e indicò languidamente uno scaffale con un dito sottile e affilato.

Poi poggiò la mano sul banco e si fermò in un punto dove avrei potuto arrivare a toccarla senza fare i salti mortali.

Mi voltai, raggiunsi lo scaffale e presi un paio di pacchettini di lamette. Pagai e mi avviai verso la porta.

Sulla soglia mi voltai. La ragazza mi seguiva con lo sguardo, con un’espressione che, senza dubbio, lei avrebbe definito pensosa. Lungo la via incrociai uno stuolo di impiegati che usciva dai propri uffici. Erano allegri come una lampadina di venti watt.

Quando tornai nello studio erano le cinque e ventuno, la filippina era avanzata di due metri. Il sole entrava obliquo, come una lama che quasi tagliava la scrivania, e andava a posarsi sulla tastiera del computer. Mentre riaccendevo il pc, lo spiraglio di sole lasciò la tastiera e si spostò sul portamatite. Mi voltai a osservare la stanza.

Ogni cosa era al suo posto. Accesi la tele in cerca di notizie. Dopo aver ascoltato per sedici minuti le solite menate, la spensi. Il sole aveva lasciato la scrivania e si era rifugiato in un angolo triste e polveroso, al capo estremo della stanza. Sentii un vago saluto dall’uscio. La filippina se ne andava. Dall’appartamento affianco al mio vociava una radio, e delle risa le facevano da accompagnamento. D’un un tratto sorrisi anch’io, presi il giornale e cercai la pagina degli annunci. Poi, conservando sempre il mio sorriso, per quanto fuori luogo che fosse, composi il numero di telefono che avevo già sottolineato.

Lasciai lo studio alle otto e dodici, e m’infilai nel traffico cittadino della sera. La ragazza dell’annuncio mi aveva dato appuntamento in una strada del centro, squallida al punto giusto. Quaranta minuti e tre sigarette dopo mi trovavo sul posto. La strada era completamente invasa da cinesi e africani. Non scesi dalla macchina, standomene tranquillo e abbandonato ai fraseggi musicali che soffiavano dalle casse dello stereo. Sei o sette auto erano parcheggiate sul marciapiedi opposto al mio, oziando con aria dissoluta. Sei minuti dopo mi disturbò un bussare vergognoso sul vetro laterale. Mi voltai verso quella direzione e incontrai un paio di occhi lucidi, che parevano quasi sul punto di versare lacrime. Era un orientale dai capelli neri lisci, come unti dall’olio. Le spesse sopracciglia si univano sopra un naso largo, mentre le orecchie erano troppo piccole e delicate. Le braccia gli dondolavano inerti sui fianchi. Borbottò qualcosa ma ero di buon umore e la cosa non mi riguardava. Lentamente si spostò sul marciapiedi in cerca di altri clienti. Trascorsero altri inutili minuti. Gettai un’occhiata all’orologio. Le lancette segnavano un quarto d’ora di troppo sul momento dell’appuntamento. Spensi il lettore cd e scesi dall’auto, lasciando che il tepore primaverile riempisse l’attesa La ragazza tardava, ma avevo ancora una buona dose di pazienza da spendere. Accesi un’altra sigaretta.

Era passata da dodici minuti la mezzanotte quando lasciammo il ristorante e salimmo sull’auto, in direzione del mio appartamento. Non avevo collezioni di farfalle da farle vedere, ma la somma proposta per tutta una notte aveva suscitato la sua curiosità. La mia abitazione era, ed è, costituita da un palazzetto a due piani, lungo una piccola via che solo chi vi abita conosce. La strada, in salita, piega in quel punto con un angolo molto acuto e prosegue ancora per un centinaio di metri, prima di finire davanti al muro di un parco comunale. Mi voltai a guardare la ragazza, mentre infilavo la chiave nel cancello del giardino. La luce del lampione riverberò per un istante sul suo viso innocente. L’aria era opprimente. Poco dopo la guardavo mentre mi precedeva di qualche passo, con quel vestito che le aderiva al corpo come le squame a una sirena.

Dimenticai completamente la sua innocenza.

Una volta dentro, si voltò perché le togliessi il soprabito. Si chinò in avanti perché potessi vedere bene il suo collo.

Ci appoggiai le labbra, avvertendo che questo contatto le infiammava il corpo. Un mugolio sensuale dalla gola le uscì dalla gola. Si girò e mi trasse a se. Ci baciammo lungamente. Pensai al suo corpo, lasciando che un fremito incontrollabile mi percorresse. Quando ci staccammo eravamo entrambi senza respiro.

Feci gli onori di casa riempiendo per bene due bicchieri di bourbon e poggiando sul piatto un disco di vinile. La ragazza si accese una sigaretta, e un lieve sorriso gli balenò sulla faccia.

“Fiiiuuuuiiiii, che bambola!

Mi trovavo per la strada circa all’una e trentatré, l’altra notte, mentre uscivo dal mio solito caffè, quando incrocio un bel mammifero modello 103.

Fiiiuuuuiiiii, che bambola!

Riempiva un bel vestito di magnifico lamé, era un cumulo di curve come al mondo non ce n’è… ”

Si sporse verso di me e si sfiorò la guancia con un dito.

Bevemmo. Ero seduto sull’orlo di un poltrona color nocciola soffice e profonda e la fissavo. In verità meritava di essere fissata. Stava allungata senza scarpe su una sedia a sdraio ultra moderna, e potevo osservarle senza fatica le gambe, inguainate in un paio di calze di seta velatissime.

Erano gambe fatte apposta per essere guardate. Perfette.

Come perfette possono essere le gambe di una mora. La destra era visibile fino a metà coscia, l’altra parecchio più su.

Le ginocchia erano morbide, piene, senza ossa visibili. I polpacci erano ben torniti, le caviglie slanciate, sottili e abbastanza armoniose da offrire spunto per più d’un poema cavalleresco. Se ne stava con la testa appoggiata a un cuscino di raso color avorio, i capelli neri e ondulati erano divisi nel mezzo, e gli occhi neri ardenti mi studiavano. Aveva una bella bocca e un bel mento, la labbra piene e imbronciate. Mi studiava con attenzione. Poi depose il bicchiere sul tavolo e si toccò i capelli.

– Siediti vicino a me – disse all’improvviso. – Parliamo prima un po’. – Niente mutò sul suo volto. Soffiò un’altra nuvola di fumo, questa volta più lentamente. Aveva la bocca socchiusa e i denti candidi mi guardavano con malizia.

– Andiamo sul divano, staremo più comodi – dissi.

Lei assentì e si alzò lentamente dalla poltrona. Mi passò accanto. Mi guardò e sorrise di nuovo.

Un secondo dopo l’avevo in grembo che cercava di mordermi via un pezzo di lingua. Aveva una bocca come non ne avevo provate mai. Le labbra bruciavano, come ghiaccio secco.

Premeva la lingua forte contro i miei denti. I suoi occhi mi parevano enormi, e il bianco risaltava sotto le iridi. Dopo molto tempo trasse indietro il capo ma seguitò a tenermi le braccia al collo.

Mi trassi ancora verso di sé. Baciandomi morse il mio labbro inferiore, finché avvertì che mi stringevo a lei nel risveglio delle membra. Si stacco da me.

– Vieni! Vieni dentro me – farfugliò. Si spogliò in fretta, senza curarsi di me.

Era già in mutandine e reggiseno quando avvertì un improvviso bisogno di bere.

– Ho di nuovo sete. Hai del cognac? -. Mi alzai e versai un altro bicchiere di bourbon. Quando mi voltai era completamente nuda.

– Dammi il bicchiere! è cognac? –

– Bourbon – dissi.

Buttò giù l’alcool in un sorso. Ora non voleva più aspettare. Prima il bicchiere, adesso me. Mi sbirciava nervosamente, mentre mi toglievo la giacca e i pantaloni e li deponevo con ordine su una sedia. Ora la camicia. Sotto i miei slip si profilava il sesso inturgidito. Potevo chiaramente vedere a cosa stava pensando: se solo mi fossi sbrigato.

Finalmente ero nudo. Andai vicino a lei, aspettando che mi baciasse. Goffamente mi rovesciò da una parte e un istante dopo mi fu sopra. Il suo corpo mi pesò addosso, mentre con impazienza mi afferrava le braccia con le mani e le portava dietro la mia testa. Mi arresi e fui finalmente pronto a unirmi a lei. Quando il membro premette contro le sue labbra la vidi cadere in preda alle fregole.

– Sì! Sì! Sì! -. Si aprì maggiormente e spinse il suo ventre contro di me.

– Lasciami sentire la tua potenza! Prendimi! –

Ora si muoveva violentemente e con forza. Volevo adeguarmi al suo ritmo, ma quasi non me lo permetteva. La sua fretta mi rubava parte del piacere. Dentro di me una piccola scintilla di voglia stava diventando rovente. Istintivamente mi uscì un fievole gemito. Come se avesse atteso solo questo, le sue mani si contrassero sulle mie braccia, piantandovi dentro le unghie. Cominciò ad agitarsi in su e in giù con un movimento martellante.

– Non ancora – pensai scoraggiato. Avevo bisogno di tempo.

L’ardore in me non cresceva più. Il mio corpo subiva solamente.

– Aspetta! Non così in fretta! – balbettai. Ma non mi udiva più.

Una serata persa, fino a quel momento, ma erano le tre e ventotto e c’era ancora tempo per qualcosa di più interessante. Quando mi liberò, sdraiandosi di lato sul divano, mi alzai.

– Vado in cucina un attimo. Torno subito. Tu non ti muovere – dissi con un sorriso.

– Il mio tempo è tuo – rispose lei mollemente.

Annuii alla maniera di un arcaico Bogart lanciandole un’occhiata veloce, come una beccata d’uccello.

Per un paio di giorni non ebbi più bisogno di leggere i miei vecchi racconti per trovare l’ispirazione a scriverne di nuovi. Bevevo dalla tele le news e lessi con avidità il giornale sul misterioso omicidio di una ragazza. L’avevano trovata fuori città. Un articolo contornava la grande foto a colori nella prima pagina. Era stata scattata di primo mattino, il cielo era chiaro e sullo sfondo s’intravedevano bei filari di ulivi. FINE

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