Nel giro di qualche secondo incespicammo contro le scale sconnesse della nostra unica volta insieme sorprendendoci amanti dopo esserci incontrati per caso in stazione. Mezz’ora più o meno per darci del tu, sfiorarci la mano e cercare una pensione in quel posto pieno di neve di un lunedì di una settimana bianca.
Non credo di aver parlato o di aver agito affinché qualcosa succedesse, ma credo di non aver fatto resistenza a quel vento di tramontana che mi soffiava alle spalle. Da mesi e da anni cercavo due occhi per tuffarmici dentro e naufragare alla prima avvisaglia, trasportata da corrente di mare bevendo acqua e piacere. Inciampammo dentro un cielo ocra al tramonto ritrovandoci distesi e nudi, trasparenti e perfettamente in simbiosi coi nostri desideri reciproci. Il nostro piacere era tutto lì, ingigantito dalla semplice scoperta di noi stessi, più solida di qualsiasi prudenza, più forte di qualsiasi immaginazione, più travolgente di qualsiasi voglia masturbata di notte e rinnegata al risveglio.
E con gli occhi dell’esploratore ai margini di confini di lande sconosciute rividi più volte a rallentatore immagini di impercettibili, sensazioni registrate dalla mia mente sul nastro dei miei pensieri. Erano i miei sogni adolescenti che mi sorprendevano nuda nel letto ad immaginare come sarebbe successo e quale remota ragione m’avrebbe portata a convincermi che era questo, proprio questo il momento, esattamente questa la situazione che l’attesa aveva gonfiato, infarcendola di come non sarebbe mai stata. Mi disse più volte che ero bella, quasi alla noia mi fece credere che non aveva mai visto niente di più incantevole, come le mie gambe perfette o l’arco regolare del mio sedere che pieno di pudore non s’aspettava altro che carezze e complimenti per tornare maestoso come tutte le volte che da solo rifletteva nello specchio del bagno.
Mi fece notare l’armonia del mio corpo, le fattezze precise del mio viso, frutto di incroci di popoli e religioni che m’avevano partorita mora dallo sguardo cupo e celeste incavato da zigomi sporgenti. Non seppi nulla di lui, se fosse sposato o se una donna lo stava aspettando, invaghita dallo stesso mio desiderio, in un’altra pensione proprio lì accanto. Se avesse una figlia, magari più bionda e più grande di questa piccola donna che confusa nel letto s’abbandonava al destino. Non guardò mai l’orologio, non accennò mai all’imbrunire che fuori dalla finestra rincasa gli uomini o gli fa fare una telefonata sottovoce.
Confusa e mescolata dall’ebbrezza annusai la temperatura del suo corpo che saliva lievitando ad ogni respiro, che lento e rapido annebbiava le ragioni e appannava i vetri. Fuori la neve attutiva i suoni, come dentro i nostri cuori gli imbarazzi coprivano i silenzi. Seguii nella mia mente lo scorrere leggero e incostante della sua mano attraverso un percorso senza spartito e, per un lampo o per qualche minuto, si compose nella mia testa un adagio che dai semplici tasti bianchi si trasformò via via in un percorso imponente di diesis neri e minori che cadevano a cascata lungo i timori dei miei non posso.
Mi venne in mente Handel, forse il Messia, o forse una colonna sonora che la mia testa compose al passaggio dei tanti momenti che non erano diventati questo momento, perché le tante ragioni non avevano prodotto una sola ragione per abbandonarmi prima di oggi. Mi venne vicino strofinandosi ai fianchi prima che m’accorgessi che il suo sesso di maschio, eretto, esperto e voglioso, aveva raggiunto il punto del non ritorno. Sopra l’ultimo dubbio cercai di stringere le cosce e rimandare senza dare nell’occhio come solo una donna sa fare, dire o non dire, amare o non amare.
Ma la sua mano s’intrufolò decisa sfiorando peli e piacere e immergendo dita e ragione proprio nel punto preciso dove la volontà non fa resistenza. D’improvviso, scostò le mie mutande, allargò le mie cosce ormai obbedienti, le mie labbra umide e convinte che si spalancarono a quella voglia maestosa di uomo che affondava indisturbato il suo sesso come lama nel burro, come governo senza opposizione, come cervello plagiato. Immerse il suo piacere quasi galleggiando, quando oramai nuda di me stessa e del mio controllo localizzavo le sue dita, le sue labbra, i suoi respiri, in ogni parte del mio corpo; senza soluzione di continuità avvertivo milioni di terminazioni impazzite fibrillare contemporaneamente nelle zone più estreme, dai peli radi dell’inguine fino alle dita dei piedi, sotto le unghie smaltate di bianco e le narici allargate dalla carenza di ossigeno.
Con gli occhi sbarrati e spalancati al desiderio incollai il mio sguardo verso la rotta di chissà quale mare, interminabile e superbo strinsi il suo membro per sentirlo più grande, per farmi comprimere nel collo del mio ventre tutta la voglia in attesa dell’esplosione. Avvistai, un frammento dopo, sullo stesso mare oltre la mia rotta, le mie poche energie che arrancavano al suo ritmo martellante che risaliva e si tuffava a catapulta senza lasciarmi una pausa di coscienza. Cercandomi dove il piacere si confonde al dolore, sentii l’essenza più profonda del maschio che fisso sulla preda gode provocando piacere fino ad illudersi di impossessarsi di anima, testa e pensieri che ormai anarchici correvano senza padrone. Racimolai le forze e continuai sullo stesso percorso al di là dell’ultimo gabbiano oltre l’orizzonte che fino a poche ore prima non ero mai riuscita a scorgere.
Mi scopava e mi dibattevo come se vita non m’avesse mai più prospettato di meglio, come se i miei anni fossero il doppio, come se in quel Paradiso non ci fosse che Adamo. Benché esausta incoraggiai di nuovo la sua brama colpendo a più riprese, col mio ginocchio ormai livido, la spalliera del letto che chissà come mai si trovava in quel posto. Convinta in quel momento che niente e nessuno avrebbe potuto più darmi il senso dell’abbandono, mi feci più recipiente danzando sul senso di colpa che, di fronte a quella natura gonfia di sangue e passione, nonostante i miei sforzi non lo sarei mai stata abbastanza.
Il fatto che non l’avrei più rivisto, perché così era il patto, aumentò il mio ardire, fino a cercare ostinatamente nella mia audacia la vergogna rossa, il rimpianto amaro, il pentimento falso del giorno dopo, ed ancora fino a provare quel turbamento necessario ad imprimere per sempre nella mia mente l’immoralità del mio corpo che sfacciato si dimenava senza un minimo di freno tra le braccia di quello sconosciuto.
Ci amammo come non l’avevo mai fatto e come, a suo dire, non era stato mai capace con centinaia d’altre donne che svendevano fiche come mercati in chiusura o compravano cazzi in valuta pregiata. Non credo d’aver creduto a tanta cortesia, come non credo di aver chiesto perdono per quel sublime peccato che avevo desiderato con tutta me stessa.
Non credo di aver avuto il minimo dubbio come non credo, ancora, di aver cacciato dalla sorgente dei miei pensieri una piccola lacrima di gratificazione quando, in preda alla passione oramai oltre il limite di ogni buon senso, lo implorai di penetrarmi oltre la lunghezza del suo membro, seccando quella voglia bagnata che indecente si squagliava come immondizia in liquame.
Mi prese di fianco e di lato, prona e supina, schiava e padrona fottendomi divino come solo una femmina vuole che sia.
Mi trascinò invasato fino alla finestra e curvandomi appena mi prese guardando la neve che senza avvertirci ricominciava a cadere.
Per la prima volta in vita mia pensai “Cazzo”, per la prima volta lo rivendicai urlandolo a me stessa e a quel l’uomo che s’era fatto tramite, mezzo e mero strumento. Nuotavo immersa nelle acque del peccato rinnegando anni di timore e di catechismo, convinta com’ero che il peccato era stato soltanto privarmi per anni di quelle mani che mi carezzavo i seni, le labbra e la memoria.
Mi prese senza più remore, senza il minimo dubbio di essere comunque anonimi, mentre i nostri corpi in fusione riempivano e ed erano riempiti.
Mi esplorò nelle viscere incontaminate, nelle zone più buie e dolorose che nessun’altro mai, dopo allora, avrebbe più osato pensare senza il mio consenso.
E mi fotteva senza soggezione e riserbo come un cane sopra il marciapiede, come soldato su un popolo vinto, come usuraio che reclama il dovuto.
E mi fotteva entrando ossequioso nel tempio e uscendo invasato di fede.
E mi fotteva chiamandomi per nome, un nome di donna che ora la mia mente confonde, ma che in quel momento mi ci sentivo appropriata, perfettamente identica al suo sogno che gli dava causa e rabbia di resistere, ancora, al piacere imminente.
E mi fotteva schiacciandomi naso e consenso sul vetro, e mi sorpresi mignotta a puntellare le mani sul davanzale per guadagnare qualche millimetro di piacere non ancora sondato.
E mi fotteva fitto e battente come un cecchino che inquadra nel mirino la preda e lascia il grilletto solo quando è convinto di aver fatto un lavoro decente.
E ci volle poco di meno, meno della sensazione che trasmessa al cervello ti fa sentire calda e bagnata come terra piovuta sotto un temporale d’estate.
E sale l’odore che ti riempie i momenti che già si fanno ricordi, e sfalda emozioni fino a riallacciare il corpo al cervello, fino a salutarti distante e tornare di nuovo anonimi, fino a ringraziarsi per un favore reciproco, fino ad essere certa che mai non ci sarebbe stato di meglio. FINE