Da quella sera io e Aura cominciammo a vederci ogni giorno e ogni volta che mi si schiudeva dinanzi agli occhi era un tuffo al cuore. E sentivo che la medesima cosa era di lei. Gli occhi le brillavano come le cupole birmane al riflesso del sole a mezzogiorno. Tutto gioiva in lei soltanto nel vedermi. Eravamo forse perdutamente innamorati? Per parecchi giorni e settimane non ci ponemmo questo problema. Sapevamo che era un bisogno più forte di noi quello di stare insieme. Avevamo bisogno di parlarci, di raccontarci le cose più banali o di intrecciare discussioni di alto livello politico, storico, filosofico. E non ci accorgevamo di altro. I suoi occhi, il suo sorriso, il suo agitare deliziosamente le mani mentre parlava o i miei occhi che la bevevano incantati e sorridenti, il mio fermarmi per rimirarla per lunghi minuti mentre discutevo accalorato, le mie mani che istintivamente la trattenevano per il braccio, questo solo contava. E gustavamo, sorseggiandoli esasperatamente, i minuti che ci vedevano passeggiare per il viale, sul lungomare, nei giardini pubblici, nella speranza che durassero all’infinito. Quando, dietro il portone del palazzo in cui abitava, lei scompariva, era come se il mondo si fasciasse di nero. Di colpo, una coltre di tristezza invadeva il mio cuore e mi sentivo sfinire. E la medesima cosa, mi accorgevo, accadeva a lei. Le sue guance, così accese di porpora, si incupivano, gli occhi si velavano di malinconia e anche il suo cuore si colmava di tristezza. Era come se non ci fossimo dovuti vedere il giorno dopo. Ma non era così. Ogni pomeriggio, alle sei, ero dietro il portone ad aspettarla, ogni sera alle sei del pomeriggio lei era davanti al portone ad aspettarmi.
“Aura” ed era un sospiro gridato il mio.
“Livio” ed era un sospiro gridato il suo.
“Che hai fatto oggi?” la reciproca domanda. E di lì a centellinare i pensieri, le sensazioni, i fatti che avevano scandito tutti gli istanti del tempo che non ci avevano visto insieme.
“Livio”, mi disse un pomeriggio, qualche minuto dopo che ci eravamo incamminati, “non aspettarmi più dietro il portone. C’è mamma, che, avendo capito che esco con qualcuno, muore dalla curiosità di vederti. La conosco. Sostiene di essere aperta. Se vedrà che sei così molto più grande di me, mi tormenterà per giorni. Io le voglio tutto il bene del mondo e non me la sentirei di polemizzare ogni giorno con lei. Oh, se tu fossi più giovane, sarebbe meno apprensiva. Quelle rarissime volte che ho fatto amicizia con dei ragazzi, lei li ha voluti conoscere presto e ha voluto sapere di loro vita, morte e miracoli. Capisco la sua apprensione. Conosci ormai la nostra vita. Non ha fiducia negli uomini.
‘Gli uomini in una donna cercano essenzialmente una cosa. Noi, se amiamo saremmo disposte a rinunciare a tutto pur di vederli sorridere. Loro no. Sarai la loro nutrice, la loro madre, la loro amante, ma non la parte complementare della loro vita. Se deve mettere sul piatto della bilancia il lavoro sognato o che da’ prestigio e potere e l’amore per la propria compagna, un uomo opta senza titubanze per il primo. Gli uomini amano solo col il pene, figlia mia. Il lavoro, i soldi, il prestigio, il potere, sono solo questi coboldi a stregare il loro cuore. Del resto si dimenticano, o, come preferiscono dire loro, si distraggono. Vedi tuo padre: dice di smaniare per te, ma quando ti cerca? Solo quando ha un momento di vuoto nella sua vita o ha bisogno di qualcosa. Soprattutto, se ha qualche decimo di febbre. Allora, Aura sola riesce a farlo vivere, Aura sola è la luce dei suoi occhi, ‘che farei senza Aura?’. Piccini, eternamente piccini, e incommensurabilmente egoisti’. Così, ogni tanto sentenzia mia madre. E’ anche vero che mio padre non fa sforzi eroici per vedermi. Ma so che mi vuole davvero molto bene, anche se mia madre non è di questo avviso. Mio padre è così, pigro, indolente, ha bisogno d’una compagna materna, che è poi quella che, infine, si è scelta e, forse, non ha avuto tutti i torti nel divorziare da mamma. Non si sentiva amato davvero. E, oggi, che sono in grado di comprendere, so che aveva ragione. Lui avrebbe voluto altri figli, quelli che l’attuale compagna gli ha dato. Mamma non ne ha voluto più, di figli. Di qui, la sua indolenza, che diventò solitudine. Mamma è stata sempre molto dura con lui. Credimi, da quando sono stata in grado di ragionare con la mia testa, mi sono sempre chiesta, e, talora, l’ho chiesto pure a mia madre, che è stata sempre evasiva su questo, perché si fosse sposata con mio padre, se non ne era innamorata. Mi è difficile pensare che lo abbia fatto per interesse. No, non ti ho ancora detto che mio padre era il figlio del socio di mio nonno, sì proprio il figlio. Certo, si sarà forse pensato che il matrimonio fosse stato contratto per interesse. Tuttavia, non riesco, conoscendo il carattere di mia madre, a vederla sposata per interesse. E, però, non capisco perché abbia sposato mio padre. Sta di fatto che, da quando si separò, non c’è stato un uomo nella vita di mia madre. Non so se ne sarei stata gelosa, però, quante volte l’ho consigliata di uscire dalla sua diffidenza verso gli uomini e pensare ad un nuovo compagno. Non c’è stato nulla da fare. E’ chiusa nella sua corazza di acredine verso gli uomini, e un po’ di questo suo risentimento finisce per riversarlo sulle persone di sesso maschile che mi frequentano. Davvero, Livio, ignoro le ragioni del risentimento di mia madre nei confronti degli uomini. Non sono, comunque, da addebitare a mio padre. Se persona c’è che dovrebbe essere risentita è proprio lui, non viceversa. Il suo risentimento nasce da ragioni profondamente diverse, che non ha mai voluto parteciparmi. Figurati, se vedesse che mi accompagno con te. Non capirebbe. No, non capirebbe proprio. Così, evitiamo che lei se ne crucci e che crocifigga me: ci incontreremo molto lontano da qui. Ne convieni?”. Ero rimasto così preso dal suo discorso che quasi sobbalzai per il silenzio scaturito, finito che ebbe di parlare. Aura scambiò il mio silenzio per disappunto.
“Me ne vuoi, per questo?”, chiese titubante con una nota di preoccupazione nella voce.
“Non pensarlo nemmeno, mia bellissima fanciulla. Ci possiamo vedere in qualsiasi luogo. Se mi fosse dato di volare insieme a te sulla stella più bella e più lontana, per la gioia soltanto di starti vicino e solo contemplarti, volerei con te su quella stella. No, riflettevo. Aura, non mi hai ancora detto come si chiama tua madre”.
“Viviana”, rispose sollecita lei, con un interrogativo nella voce.
“Viviana, e poi? Il cognome intendo”.
“Martelletti. Perché ti interessa il cognome di mia madre?”. Come facevo a dirglielo. Mi comportai da vigliacco e mentii.
“Sai che sono vissuto in questa città fino a quando non dovetti andare via per la mia professione di pilota. E mi chiedevo se tua madre fosse una delle ragazze che allora frequentavo”. Era stato uno straccio nel tempo, abbagliato da un fulmine violento. Suo nonno, il figlio del socio di suo nonno. Non era possibile. Ero visibilmente stordito e tentai di tutto per non farglielo capire. Come avrei potuto confessarle che sua madre era la donna che mi aveva abbandonato per il mio sogno di volare. Come avrei potuto spiegarle che il risentimento, la diffidenza per gli uomini risalivano certamente a quel lontano giorno in cui, tra lei e il volo, io scelsi quest’ultimo? Aura per me era diventata la mia “aura”, il mio respiro. Riempiva il vuoto della mia anima. Quel buio, quella macchia nera, che affogava il mio cuore nella sua parte più segreta, s’era stemperata, quasi scomparsa, e il merito era suo. Io non sapevo se era la sua gioiosa giovinezza, la sua straordinaria bellezza unita alla sua semplicità nel mostrarla, la sua incantevole cultura, o il fatto che ne fossi perdutamente innamorato,
– perché come avrei potuto definire quella sensazione di raggiante esplosione di benessere, di gaudio, nel mio petto, se non col termine amore?- che mi costringevano a bere il suo respiro, il suo sorriso, le sue parole, la sua presenza. So solo che senza di lei la mia vita sarebbe definitivamente declinata nel nulla, nell’insignificanza del banale. Sarei sicuramente morto d’inedia e di disperazione. Che senso avrebbe avuto vivere, dopo avere conosciuto la luce del paradiso. Si, perché se il paradiso è gremito di angeli, certamente quello più fulgido era sceso sulla terra e mi stava facendo da custode. La custode della mia anima. Che bizzarria del destino. Chi avrebbe potuto immaginare che in una città di oltre duecentocinquantamila abitanti avrei dovuto incontrare la figlia della donna che trent’anni prima avevo immolato sull’altare della mia ambizione o del mio sogno? Avrei, forse, in modo così cocente dovuto pagare la mia colpa? O forse il fato mi stava porgendo una seconda occasione? Sì, quella di sposare la figlia della donna che un tempo aveva rapito il mio cuore e che non lo aveva più lasciato. Viviana, Viviana. Che avrebbe fatto quando avrebbe saputo? Non avrebbe certamente incentivato la figlia a frequentarmi. Si sarebbe ferocemente opposta. Rimanendo con Aura, prima o poi avrei dovuto fare il conto con il mio passato. E Aura avrebbe saputo. Era necessario che sapesse. Solo quando, però, fossi stato convinto che il nostro legame ormai era totalmente infrangibile e, comunque, molto prima che lo apprendesse da sua madre. Perché Aura mi amava – non avevo dubbi su questo, o almeno ero presuntuosamente convinto che uscisse con me solo perché ne era innamorata : non mi passava nemmeno lontanamente per la mente che avevo più di trent’anni di lei, e che si potesse accompagnare con me per tutte le ragioni possibili, tranne l’amore – e, nel tempo, quest’amore sarebbe diventato immenso. Avevo bisogno di esserne convinto. E, allora, conoscere la verità sul rapporto tra sua madre e me non avrebbe inficiato il nostro amore. Sì, doveva essere così. Al momento, quindi, era meglio tacere. Anche se questo mi costava. La lealtà era un punto d’onore per me. Io stavo compiendo un atto sleale. Ma non le stavo mentendo: stavo solo tacendo un fatto, anzi procrastinando.
“Mi chiedevo solo se rientrava nell’ambito delle mie conoscenze d’allora”: così le ho risposto. In fondo non ho mentito. Le ho solo taciuto che rientrava nelle mie conoscenze – e che conoscenza!- Volevo così tacitare il mio senso di colpa, di insincerità.
“Avevi un nugolo di ragazze allora, eh. Sei un bell’uomo oggi, figuriamoci quando eri più giovane”. Che ragazza squisita, dolce, toccante. Non sottolineava i trent’anni e passa d’età tra me e lei: diceva solo ‘quando ero più giovane’.
“Prima o poi dovrai dire a tua madre che mi frequenti. Vorrà sapere chi sono, come mi chiamo, cosa faccio”.
“Sì è vero. Ma, perché affliggerci con ciò che è ancora da venire. Quando decideremo di farlo, troveremo certamente il modo più adatto per farlo. Pensarci ora è stupido. Godiamoci serenamente queste ore che passiamo insieme. Anzi: perché non mi porti a casa tua? Lo sai che non mi hai ancora invitata a visitarla? Mi hai tanto parlato di questa tua meravigliosa villa, ma non mi hai invitato a venirci”.
“Figurati, se non mi piacerebbe che ci venissi. Mi sembrava fosse sconveniente. Che tu ti potessi offendere. Che potessi pensare male di me. Un maturo signore che potrebbe volere approfittare della ingenuità di una ragazza così giovane”.
“Sei delizioso e dolcissimo. Sei rosso come un peperone. Ti voglio bene comandante, ma proprio tanto. Mi sento solo protetta da te. I tuoi occhi esprimono solo pulizia dell’anima e un affetto grande almeno quanto il mio. Allora che facciamo, andiamo?”
La mia villa la incantò. Era grande, perché a me piaceva sentirmi respirare, circondato da grandi spazi, come quando il mio aereo fendeva il cielo e io mi sentivo allargare il cuore dalla luce, dagli spazi infiniti d’azzurro. E la luminosità era il trionfo del mio rifugio sulla collina. Gli alberi gli facevano da freschi custodi, fin quasi ad accarezzarlo con le loro larghe cupole di verde e i cesti di fiori, che tappezzavano il viale che portava all’ingresso della villa col loro splendore, innalzavano un inno alla luce. Aura e la luce della mia casa. Era così bella e radiosa che mi sembrava composta della stessa polvere di stelle di cui si favoleggia siano intessute le minuscole fate dalle ali d’argento. Mi capitò parecchie volte di sorprendermi con il timore che di colpo si dissolvesse col pulviscolo riverberato dai raggi del sole. Stringerla, serrarla al mio petto, soltanto per sentirla gravare sul mio cuore e poterla cingere teneramente avvinta, soffiarle la stessa dolcezza infinita che irraggiava dall’intera sua persona. E, nel silenzio ovattato del mio salone, fermare il tempo e assaporare quella appagante tenerezza per gli infiniti attimi che compongono l’eternità. Per lei era istintivo, naturale, abbandonarsi tra le mie braccia e restare così immobile a cullarsi nel mio calore. Uscimmo, la mano nella mano, sulla veranda, e ci accostammo alla ringhiera, un lungo filare multicolore per i fiori vari che vi si intrecciavano. Sotto, in lontananza, si scorgeva un largo panorama della città e, più lontano, il mare. E poi il cielo, che si coricava sul mare e vi si confondeva. Nessuno dei due, nel lasso di tempo che ci eravamo frequentati e così teneramente legati, aveva detto all’altro
“ti amo”. Quasi che ci legasse, trattenesse, la paura. Paura che tutto svanisse. Come se l’amore ci riportasse alla materialità della carne e ci sradicasse dalla rarefatta aura degli affetti più puri, più sacri. Non che io non scorgessi le rigogliose curve del suo seno, le labbra tumide e imploranti, le orbite ricolme d’un azzurro che ti stordiva e che pareva volerti risucchiare nelle plaghe più segrete degli abissi del cielo. Oh no. Tutto questo lo sentivo e mi turbava più che profondamente. Baciare, seppure con un sospiro, quelle labbra mi pareva profanare qualcosa di troppo puro, che era solo da venerare. E lei, certo aveva compreso questo mio atteggiamento, ma non se ne adontava. Però, quel giorno, a ridosso della panciuta ringhiera, luccicante di fiori, sulla veranda, sospesi come sembravamo tra mare e cielo, sollevò gli occhi verso i miei e, con la voce leggermente arrochita, mi chiese – e fu quasi un sussurro di un angelo:
– “Che cos’è l’amore?”. E reclinò il capo sulla mia spalla, quasi spossata dalla stessa domanda. Abbassai gli occhi verso il suo viso e, accarezzando con lo sguardo e con le mani i morbidi capelli, risposi:
“E’ trasparenza, è luce”. Sollevò il capo dalla mia spalla e, guardandomi rapita negli occhi, mi disse:
“Allora tu leggi nel mio cuore, lo puoi vedere come trabocca di infinita gioia, quando mi stringi a te. E, non scorgi la mia pelle abbrividire, quando le tue carezze trascorrono il mio viso, e mi abbandono esausta sul tuo petto? Non senti lo scroscio del mio sangue, il suo violento gorgogliare, in ogni vena e inondare come la lava di un vulcano ogni anfratto della mia carne tremula. Sono una donna, Livio, non una scultura di purissimo cristallo, che temi di infrangere e sporcare. O, se vuoi, una coppa di cristallo, colma di un vino che agogna d’essere bevuto e d’inebriarti fino allo stordimento. Le mie labbra aspettano che tu le baci, che le faccia tue con la tua bocca”. Si sollevò, così, verso il mio viso e mi porse le labbra schiuse, tremolanti e luccicanti come una rosa rorida di brina. Il mio sguardo si stupisce, si inchina, il mio cuore ad uno ad uno schiude e poi spalanca i suoi cancelli e contempla in estasi, ammaliato, quelle stelle che tremolano, un miracolo. Dio quant’è bella! Con le mani che mi tremavano, non so se incerte nel correre dietro ad un frutto così ostentato di tumida passione o nell’intaccare la trasparenza di quel purissimo diamante ch’era il suo viso, lo raccolsi tra le mie mani grandi e le mie labbra conobbero le sue. E dimenticai i sogni almanaccati nelle mie malinconie, i cento volti di donne, che ne rincorrevano ossessivamente solo uno, i miei anni protesi a cavalcare il tempo e a fiaccare il cielo, le mie miserie di uomo, le mie albagie ostentate, tutto si annebbiò e si disperse nell’oblio dissolutore di quel bacio. E si riscosse, come destata da un sonno profondo, la mia essenza d’uomo. E lei, pronta la colse, serrando il suo bacino contro il mio, strusciandolo vigorosamente contro. Aghi di piacere schizzarono violenti dal basso ventre verso il mio cuore che si ingolfò di palpiti. Le mie mani la percorsero tutta, bramose di riempirsi della voluttà delle sue forme, e le sue non furono meno temerarie e sollecite a cercare le parti più appetite del mio corpo, a scoprire e a trattenere frenetiche e vogliose la fragranza del maschio. Tremava, come fosse scossa da una febbre violenta. La sua mano, che era affondata sotto i miei boxer, era rimasta quasi intorpidita, nella sua immobilità, a stringere il mio pene. Era evidente che era la prima volta che scopriva così tangibilmente il sesso di un uomo, e questa consapevolezza mi fece fremere ancora maggiormente tutto il corpo e tese prepotentemente il mio sesso. Posi, così, la mia mano sulla sua e l’aiutai a scorrerla su tutto il mio genitale. Poi, mentre con le mie labbra, con la punta della mia lingua, accarezzavo e dardeggiavo i punti più sensibili del suo viso, del suo collo, le mie mani si diressero una verso il suo seno, sopra la camicetta, l’altra verso il suo sesso, sopra la curva declinante del jeans, lentamente palpando. Volevo cogliere sotto le mie mani, velato dal diaframma della stoffa, il suo piacere che si inturgidiva. Il turgore di quel pube, roso da fiamme di desiderio, mi incendiava la mano trasognata. Volevo sentire scorrere dentro di me, come le onde leggere sulla battigia d’un mare d’estate, le increspature deliziose che percorrevano ogni fibra del mio petto, delle mie braccia. Volevo che, poco alla volta, per me e per lei, quelle onde diventassero ondate, poi cavalloni, infine marosi travolgenti come montagne. Il suo seno. Nemmeno il marmo pario dell’Afrodite di Cnido era così marmoreo e vellutato. I suoi capezzoli inturgiditi sino all’esasperazione trafiggevano il mio palmo come stimmate, e una fiumana di delizia ingorgava torcendolo il mio stomaco e slargava il mio cuore. Lentamente, con una esasperazione mortale, ruotavo la mia mano ora su un seno ora sull’altro, mentre, lì, in basso, le mie dita premevano sfrontate sul solco nascosto della sua vagina. Le sue labbra scorrevano sul mio petto ormai nudo come sulla superficie dell’acqua fresca di un fiume, su cui avidamente andava a dissetarsi. A un tratto, per reciproca empatia, le nostre guardinghe effusioni si fermarono e i nostri occhi, carichi di struggente desiderio e di passione, si scrutarono intensamente.
Trascolorammo. Le nostre braccia si sollevarono lentamente e le nostre mani, incontrandosi nell’aria, a mezza strada, all’altezza del nostro cuore, si adagiarono l’una sull’altra. Fu come se una corrente a dodici volt si sprigionasse dai nostri palmi, trapassasse da una mano all’altra. Le nostre dita si intrecciarono con forza, spasmodicamente aggrappandosi le une alle altre, e un flusso incandescente si irradiò, serpeggiando, in ogni nostra fibra. Le nostre braccia si attirarono l’uno verso l’altra, finché il dorso delle nostre mani non spiovve sui nostri petti semivestiti. Le dita di entrambi si lasciarono. Eravamo come in trance. Le nostre labbra inaridite palpitarono tremanti. Poi, fu come se una un fiume tumultuante, trattenuto a forza da una diga poderosa, di colpo, si fosse liberato in tutta la sua possanza e ogni nostro sentire logico, ogni remora morale furono disastrosamente in un subito travolti. Le nostre bocche impazzite dardeggiavano furenti su ogni parte del nostro viso, finché si incontrarono e si assalirono irrequiete, bevendo l’una nell’altra, violente, insaziate. Le nostre lingue divennero un viluppo, le nostre labbra due ventose di fiamma. Ci staccammo di botto, ansavamo come mantici annaspanti alla ricerca dell’aria che manca. Le nostre mani corsero irrequiete, veloci, a spogliarci. La sua camicetta di seta capitolò insieme al suo minuscolo reggiseno e le sue mammelle si distesero eburnee e morbide appena sotto il mio cuore a sussultare a ridosso dei suoi battiti assordanti e frenetici.
Quel seno stupendo, sogno rarefatto di un mangiatore d’oppio, gravava come un proibito frutto degli dei sopra il mio petto. Rovesciai il capo leggermente all’indietro e, con gli occhi chiusi, lasciai, per attimi eterni, che la mia mente si cullasse, stordendosi, di quelle voluttuose, incomparabili, sensazioni. Bello, bello. Così, certamente, sognavano i mussulmani il seno delle loro Urì. Per questo non temevano la morte. Per l’eternità col viso incastonato in quelle soffici colline di carne lussureggianti e voluttuose. Mi liberò dei miei ultimi indumenti, io dei suoi. Il suo corpo nudo, nel declinare del giorno, sembrava trasparente, rarefatto, la sua perfezione si intarsiava nella luce ovattata come il sogno raggiunto del pittore più ispirato. La sindrome di Stendhal. La mia vista caracollava con la mente. Quel corpo era un’opera d’arte. Aura, Aura, fosti un delirio dei sensi e dell’anima, allora; oggi, un delirio di nuda follia. Ti girai, quel pomeriggio, in quel fitto traslucido di sole calante, e ti avvinsi, le tue spalle serrate sul mio petto, strettamente tra le mie braccia. Un sogno, luminoso, inebriante come la verità assoluta, che paventavo svanisse dalle mie braccia. Sicuramente la tua mente non sciabordava tutte queste mie emozioni. A te piaceva sentire la mani dell’uomo che amavi riempirsi delle tue forme, sentire il turgore prepotente del maschio pigiare sui tuoi glutei, stordirti della tua voglia del maschio mai prima assaporata. Un ragazzo della tua età non avrebbe mai potuto accedere alle rutilanti emozioni di un uomo ormai maturo, che non vede solo il bello delle forme della donna, ma il fulgore accecante delle giovinezza, di quella giovinezza che irrimediabilmente ha perso. La tua bellezza, fusa con la tua gioventù così sfrontata, mi imbambolava e, nel contempo, centuplicava la mia passione. E i tuoi seni, più agognati dei pomi del giardino delle Esperidi, divennero frutti bramosamente da trafugare.
La tua nuca reclinata sulla mia spalla, assaporavi il torrente di infiniti aghi di piacere, che i tuoi seni, i tuoi capezzoli, tormentati dalle mie mani, dalle mie dita instancabili a bearsi di quelle cupole di carne, facevano rifluire in ogni tuo neurone, allagandolo di voluttà. Aspettavi il piacere, che si facesse largo e torrido come lava, prima che ti abbeverassi al mio piacere. E io non ti delusi. Le mie dita scorsero su ogni poro del tuo corpo, costringendolo a pulsare come un cuore scalmanato: brividi e aghi di fuoco ti dardeggiarono fino a farti torcere come lingue di fiamme. La tua fica fu sfibrata dalle mie dita e, novella lira, impennò, in uno spasimo struggente, le sue note più alte e più sublimi e tutte le tue grotte più profonde trasudarono a torrenti tutto il loro pregiato miele. E cominciò la girandola impazzita dei nostri corpi, delle nostre mani, delle nostre labbra. Gli istinti più belluini, primitivi, animaleschi, ci sommersero e si cercarono, furoreggiando, a soddisfarsi. La tua fica e il mio cazzo chiedevano le nostre bocche. Ti sollevai, all’in piedi com’ero, come un fuscello, rovesciandoti a testa in giù. Con le gambe ti agganciasti sulle mie spalle, intrecciandole attorno al mio collo, e, mentre la tua bocca ricadeva sopra il mio pene, io mi ritrovai – con le mani ti sostenevo per i fianchi,- a rovistare con la mia bocca sulla tua fica di sogno, sulla tua sessualità scomposta e, come Tantalo, l’assetato, bevvi il nettare che ne fluiva, all’unisono con te, che, fatta esperta, mentre con una mano sfregavi i miei testicoli, con l’altra trattenevi nella bocca la mia asta infoiata, e, come una bimba al seno della madre, ingorda, succhiavi, fino a liberare la linfa compressa nelle gonadi esasperate. Fu un momento lancinante di piacere che ci squassò entrambi. Ti discesi per terra e ci rotolammo sopra il grande tappeto cremisi. E ricominciammo inesausti la nostra rincorsa affannata al godimento. Rotolammo l’una sull’altra come dementi che lottano all’ultimo sangue e compulsammo ogni punto sensibile del nostro corpo sino al parossismo. Sentirti, istante per istante, sulla mia pelle, esasperava all’infinito i miei sensi. Con le dita e la lingua sfibravo ogni terminazione nervosa della tua pelle, fino a stordirti in una sinfonia di godimento. Sfiancata sino al deliquio dal piacere, alla fine, senza vergogna, implorasti, come vittima la morte al suo carnefice, che trafugassi la tua verginità. Volevi il cazzo disperatamente, che rovistasse spietato la tua fica. Era un lamento lancinante di lussuria, di un desiderio ormai senza confini:
“Prendimi, prendimi, lo voglio. Ora, subito, dammelo, lo voglio”. Ed esponevi come bocca insanguinata il sesso e con la mano aggrappata come a gomena al mio cazzo, velo trascinavi. Io, ti allontanavo, liberandomi, la mano, fingendo di esaudire il tuo tormento, ma, quando lo adagiavo sulla soglia fragrante del tuo giardino lussurioso, con la mano lo facevo ruotare solo sul vestibolo scintillante di rugiada, eccitando a più non posso il tuo clitoride. E poi, scivolando un po’ più in giù, lo puntavo sul tuo buchino più arricciato. E, pure lì, ormai invasata e disinibita, purché il mio membro ormai ti penetrasse, immolavi il tuo sfintere. E io, armeggiavo invece con le dita nella fica e dentro il tuo sfintere, fino a quando ti vidi preda non più controllabile di convulsi singulti di piacere, balbettando, soffocata,
“il cazzo, il cazzo”, come solcata dall’epilessia. Allora e solo allora, appagai la tua richiesta, che tu accogliesti come fosse un dio. Avanti e indietro, le tue gambe abbarbicate sul mio collo, avanti e ancora indietro, lento e veloce, sempre più lento e sempre più veloce. E il tuo urlo lacerò la stanza come una bestia sanguinante a morte. Sussultammo entrambi, con spasimi sublimi. Poi fu l’oblio, la pace del feto concepito, che, senza sogni, galleggia, placido, nel liquido materno.