Da quel pomeriggio furono quindici giorni di torridi incontri. Ci incontravamo ora di mattina, ora di pomeriggio. Era una sorta di febbre che ci travolgeva, qualcosa che non avevo mai provato e che non credevo esistesse. Sapevo che non avrei potuto reggere quel vortice di vita. Avevo costantemente le occhiaie come burroni scavati sotto gli occhi e dimagrivo in modo vertiginoso. Sì, perché lei mi dava le vertigini. Non era solo passione, non era solo eccesso d’amore, era un contagio, una droga, una malattia dei sensi e dell’anima. Dei sensi, perché li investiva come un herpes tropicale che ti si irraggia istantaneamente come una ragnatela e decompone le carni; dell’anima, perché con lei esplodeva di estasi, di rapimenti quasi mistici, di cui non potevo più fare a meno. Quante volte, in quei giorni, chiedevo a lei:
“Ma, pure tu avverti questa irrefrenabile frenesia, appena mi vedi, questa sorta di disperazione febbricitante di gettarti nelle mie braccia, di quasi annullarti dentro di me? Talora, quando tiri il mio sesso con violenza per infilarlo nel tuo, è come se me lo volessi strappare, è come se volessi farmi, con esso, entrare in te tutto intero col corpo”.
“Si, è così. Quando ti ritrovo vicino è come se di colpo mi ritrovassi su di un abisso che lascia vedere paradisi lussureggianti di piaceri incommensurabili. E’ come se si sprigionasse una luce abbagliante che ti avvolge come una rete inestricabile e ti sprofonda con struggenti delizie in quell’abisso. E’ vero, vorrei fonderti con me. Quando entri in me e mi estenui di languori e di piacere, il tuo pene è come se si attaccasse alle radici del mio utero. E’ come se subissi una metamorfosi: io mi sento te e vedo te mutarti in me. Ti giuro: ti vedo con le mie fattezze, col mio stesso pallore travolto da stupore estatico. Il mito dell’androgino, ricordi? Le due metà staccate e prossime a morire, che infine si ritrovano e divengono una cosa sola e così sbocciano alla vita. E tutti i nostri ginnici accoppiamenti, i più funambolici e più strani, tendono ad un solo fine: essere una cosa sola. Non è forse a questo che, inconsciamente, tendiamo, quando stiamo per ore con il tuo sesso dentro il mio? Appena lui sta perdendo di rigidità, un tremito, un vibrare, che è solo istintivo, tuo e mio, lo riporta alla rigidità di prima. Così ci ritroviamo come una cosa sola. Il feto attaccato alla madre attraverso il cordone ombelicale. Io sono tua madre, tu mio figlio, il tuo ‘cazzo’ ciò che indissolubilmente ci lega. Vedi, questo qui” e, mentre parla, con la mano dolcemente raccoglie il mio sesso
“non è che un mezzo, un delizioso strumento per fare di noi due una cosa sola. Il padre, il figlio e…”.
“Non bestemmiare, ti prego”.
“Sai che non concepisco la bestemmia. No, è solo un’analogia, scesa al livello dei nostri due involucri di creta: uno spirito santo fatto di carne, che rende noi a un tempo uno e trino”.
“E’ vero, se fosse possibile resterei dentro di te fino alla consunzione. Aura, forse il nostro amore è qualcosa di distruttivo. Perché tanta disperazione, perché tanto affanno violento nei nostri rapporti? Se tu stessi qui con me tutto il giorno, bellissimo amore mio, ti scoperei in tutte le tue parti del corpo, fino a sputare sangue dal mio sesso e morire col sapore del tuo sulle labbra e la tua immagine negli occhi, col capo affondato in mezzo ai tuoi seni di velluto. Mi dicevo nei primi giorni che questa intemperanza era una sorta di desiderio vampiresco della tua giovinezza. Succhiarla spasmodicamente da te, perché io l’avevo persa. Ma oggi so che non è così. Sì, è come se volessi trovare il modo di fondermi con te e l’impossibilità di riuscirci materialmente mi spinge, ci spinge, a quella tregenda dei sensi. Mi chiedo, se questa non è pazzia. E perché, perché? Non ci è più che sufficiente ubriacarci d’amore, vivere gioiosamente la nostra sessualità, fermarci talora alle sole coccole? Forse non è vero che il cuore mi trabocca di felicità, quando, seduti sul divano, ti abbandoni sul mio petto, in un silenzio religioso che contempla solo le mie carezze sui tuoi capelli, sulle tue guance e che accoglie commosso i battiti sereni dei nostri cuori? Cos’è che di colpo scatena questa dolcezza in furore dei sensi? Cos’è questo ciclone che, improvviso, travolge la nostra mente e ci spinge in quella sarabanda sfrenata, forsennata, di amplessi straripanti e stravaganti, sicuramente impensabili da ogni coppia normale? Sei talmente bella che basterebbe vederti muovere, danzare nuda per casa, per provare un diletto sublime. E questo io lo provo; solo che, dopo alcuni minuti, quello stato di pura contemplazione estetica si trasforma in desiderio ruggente, incontenibile di possedere le tue carni e divengo un satiro ossesso, e tu una menade in preda ad un orgiastico delirio, che ti porta talora a farmi sanguinare, merito delle tue unghie affilate, le spalle, il petto, il mio sesso”.
“Mi sono ripromessa di tagliarle fino all’estremo per non farti del male. Sono consapevole di essere passionale, ma non avrei immaginato che la bramosia di averti finisse con il trasformare parti del tuo corpo in piaghe. Hai detto “disperazione”. Non so se il termine è proprio; certamente è come se volessi trattenerti per sempre su di me. E non è ingorda passione dei sensi, furia da ninfomane repressa. E’ come la ricerca di un rifugio, di un porto sicuro, in cui attraccare la mia piccola vela, ancorarla in modo non sradicabile. E’ amore, amore assoluto. Sai in questi giorni mi ritrovo a cantare un antico lamento d’amore siciliano:
‘Mi votu e mi rivotu suspirannu, passu l’interi notti senza sonnu e li biddizzi toi vaiu cuntimplannu, ti pensu di la notti sinu a jornu. Pi tia nun pozzu chiù a ripusari, paci nun aiu sta sempri afflittu u cori. Lu sai quannu ca iu ti ai lassari: quannu la vita mei finisci e mori’. Scusami se parlo male il dialetto. Questa canzone mi viene costantemente in mente, perché esprime abbastanza quello che penso e sento per te. E’ proprio così. Solo la morte può staccarmi da te, solo la morte”.
“Se gioia ci può essere nel morire, posso tollerare l’inesorabile signora solo se, mentre sto per chiudere gli occhi, tu mi terrai la mano, e il mio cuore schianterà di gioia, perché il tuo viso, lo splendore dei tuoi occhi, mi terranno compagnia e mi aiuteranno nel trapasso all’altra dimensione. No, non dire nulla. Tranne che non trovino l’elisir dell’immortalità, sarò io, dovrò per forza esserlo, non fosse che per la mia età, a doverti forzatamente lasciare. Spero che mi sia consentito almeno dopo aver fatto l’amore con te”. Restammo in un malinconico silenzio. Era giunto il momento di dirle di me e di sua madre. Dovevo farlo, non fosse altro, perché lei potesse essere più accorta, quando si incontrava con me. Anche se per strada non camminavamo abbracciati – quante volte lei voleva che ci tenessimo per mano e quante volte mi sono dovuto fare violenza per impedirmelo, proprio perché spaventato che qualche conoscente della famiglia di Aura non andasse a riferirlo alla madre, – prima o poi Viviana, indispettita di essere tenuta all’oscuro dalla figlia, avrebbe tentato di pedinarla, per conoscere la persona con cui si accompagnava e, qualora mi avesse visto, mi avrebbe riconosciuto e sarebbe scoppiato il dramma. E questo non doveva capitare, almeno fino al momento in cui Aura non avesse deciso di vivere definitivamente con me. Lei amava sua madre e non avrebbe voluto spezzarle il cuore. Ma così sarebbe accaduto, se lei avesse deciso di vivere con me. Ma noi due non avremmo più potuto dividerci. Come aveva detto Aura, eravamo ormai uno e trino. Sì, lei doveva sapere. Sarebbe stato un trauma, certamente, ma non mi avrebbe lasciato. Intanto, lei si era ridiscesa sul letto. Il suo corpo nudo era talmente luminoso nella sua bellezza da sembrare immiserire le pur immacolate lenzuola che l’accoglievano. Mi guardò con gli occhi lucidi, colmi di languore e di desiderio e, allungandomi le braccia, mi disse
“Vieni, ti voglio, con dolcezza. Accarezzami, piano, piano, più lentamente che puoi, con le mani, con le labbra, con i baci”. Come resistere a quel richiamo ineludibile. Mi chinai sopra i suoi piedi, che sembravano cesellati dalle mani d’uno scultore provetto, e cominciai a baciarli, a solleticarli con la lingua, a mordicchiarli teneramente, cominciando dalle dita. Sentivo già la sua carne sussultare, la pelle incresparsi. Risalii centimetro per centimetro le sue gambe tormentando con voluttà ogni angolo delle stesse, fino a quando raggiunsi, dopo un tempo interminabile, l’interno delle sue cosce. Armeggiai nel modo più esasperato possibile su quei luoghi intimi con le dita, con la bocca, con la lingua. Lei inarcava leggermente la schiena e assaporava tra le labbra schiuse il piacere. Affondai l’intero volto sul vello dorato e cominciai a trafugarlo scompigliando deliziosamente il folto tappeto luccicante come pagliuzze di oro. Sentivo la sua fica pulsare come un cuore infartato e i miei occhi ammiravano rapiti le rosee labbra del sesso ingrossarsi dall’affluire precipite del sangue, la punta del suo clitoride sbocciare dall’ingorgo di quelle labbra come un piccolo rubino. Il suo pube era teso al massimo, esposto come un peccato. Il mio sesso era turrito. Lasciai scivolare le mie gambe sotto le sue, intrecciandole e, poi, lentamente, tirandola per le cosce verso il mio bacino: vedevo il suo sesso accostarsi sempre più al mio, finché la punta del mio pene incontrò il vestibolo della sua vagina. Mi fermai di colpo. Lei, allora, pronta si sospinse in avanti sulle reni e col culo costringendo il suo sesso ad accogliere il mio, che tenevo abbassato con le dita. Un lamento di piacere uscì dalle sue nari, cominciando a sollevare e ad abbassare il bacino. Io la lasciai fare, mentre con una mano pigiavo sopra il suo sesso. Il suo volto si tingeva di porpora. Godeva, anche se quella ginnastica sicuramente la stancava. Distolsi le gambe dalle sue e mi sollevai sedendomi tra le mie gambe. La sollevai per i glutei e incominciai a stantuffare prima lentamente, poi aumentando gradualmente la velocità. Sentivo distintamente nel silenzio segnato solo dai suoi flebili lamenti il risucchio della sua vagina, e lo schiaffo dei miei testicoli sul suo perineo. Era semplicemente bello. Era così desensibilizzato il mio pene che avrei potuto lasciarlo scorrere per ore dentro di lei. Non avevo vent’anni e già era la terza volta che impegnavo il mio sesso in quella serata. Ma, sentivo il suo piacere e questo soltanto mi esaltava e mi appagava. Lo so che è quasi impossibile raccogliere visibilmente il piacere di una donna. Trovarla bagnata, non significa di per sé una trafila di orgasmi continuati. Per fare contento il suo uomo la donna può fingerli. Ma il viso di Aura era il ritratto, l’incarnazione della pregustazione della voluttà. I suoi orgasmi non erano certo mimati per farmi contento. Poi si sollevò di colpo a sedersi.
“Io voglio che tu goda, nella mia bocca. So che ti piace da morire sentire la mia bocca ripiena del tuo sesso, le mie labbra che più morbidamente della mia fica vi scorrono sopra. E io godo che tu godi”. Mi adagiai con le spalle sul letto e lei affondò il viso in mezzo alle mie cosce, scompigliando il mio pube come prima avevo fatto col suo. Mi leccò voluttuosamente i testicoli, mentre, come uno scettro, la sua mano serrava il mio sesso. Inghiottì nelle sua bocca, sino alle radici, i miei testicoli, e li sballottava con la lingua da una guancia all’altra. Sentivo il piacere diffondersi nelle mie ghiandole sessuali. Sempre più veloce, sempre più veloce. Poi li lasciò scivolare dalle labbra, raccogliendoli dentro una mano, che delicatamente li mungeva, per inghiottire il mio pene, in un andirivieni, fasciato e stimolato da sottili giuochi di lingua, fino a quando l’impossibile eiaculazione cominciò a montare fino a esplodere in un sussulto ricco soltanto di povere gocce di sperma, che lei trascorse tra le labbra quasi fossero gocce d’ambrosia. Mi sentivo realmente il midollo prosciugato, dalle basi della nuca fino all’osso sacro. Appagato, ma schiantato. Se volevo goderla e amarla per tutto il resto della mia vita, dovevo diradare assolutamente le nostre lotte d’amore. Le lunghe discussioni riuscivamo a farle solo per strada, ma, in casa, ci trovavamo in perenne stato di eccitazione. E, allora, fino a quando, forse, i nostri sensi non si fossero un poco acquietati, dovevamo diluire i nostri incontri in casa. In quella letargia post-coitale, mi rivenne in mente il discorso che avevo abbozzato nella mia mente sopra sua madre. Sarei riuscito finalmente a farlo? A letto, denudati, era impossibile. Dovevamo prima ricomporci, vestirci e, poco prima di riuscire, le avrei parlato.
“Ti amo, disperatamente e con voluttà ti amo. Amo il tuo cazzo, amo la tua voce, amo i tuoi pensieri, amo il tuo sguardo, le tue carezze, la tua dolcezza, la tua calda e sicura protezione. Amo quando mi fotti nella fica e nel culo, amo quando mi baci e mi scomponi la fica e il culo, amo quando mi soffi la tenerezza dei tuoi baci sulla fronte e sopra gli occhi, amo quando mi accarezzi e mi rovisti i capelli, amo quando mi guardi come se fossi un miracolo di Dio, amo quando sorridi sulle mie labbra, amo quando vezzeggi i miei seni come fossero due bambine, amo quando cammini, amo quando corrughi la fronte e mi ascolti serioso, amo quando quasi vergognoso rimiri le poche gocce di sperma e rimpiangi i tuoi vent’anni, amo quando mi rincorri per casa e mi sollevi tra le braccia come una bambina e mi adori come fossi una regina, ti amo perché mi fai sentire donna e ragazzina, ti amo perché mi ami più della tua vita. Ti amo, perché sei la mia vita”.
Rimasi estasiato a guardarla. Era così bella che sembrava sul punto di esplodere di luce come una stella. Che avevo fatto di così straordinario, perché mi fosse accordato un simile miracolo? Miravo il suo volto infiammato di porpora, i suoi occhi sognanti rendere il loro azzurro più terso e trasparente dei cieli che accarezzano le cime dell’Himalaia, le sue labbra tremolare d’amore come le rose rosse alla brezza del mattino. Oh, sì, quella donna mi amava, come nemmeno nel più azzardato dei miei sogni avevo osato immaginare. E io? Io sembravo una robustissima quercia, che, però, la phytophthora cambivora, un micelio parassita, che si abbarbica alle radici dell’albero può implacabilmente uccidere. Se lei mi fosse stata tolta, il dolore avrebbe assunto la medesima funzione del micelio: ne sarei morto.
“Mia piccola bambina, io mi disperdo, tanto ti amo, nei tuoi passi silenziosi, amo persino la tua ombra, amo i tuoi occhi che il cielo ti invidia, il tuo profumo di donna che droga tutti i miei sensi, il sapore delle tue labbra, della tua pelle, della tua fica, amo il tuo seno e stordirmi in esso, amo vederti svolazzare intorno, amo il modo in cui ti spogli, amo l’impetuosità con cui mi ami, con cui mi graffi, il modo in cui gemi, il modo in cui vieni, in cui mi ‘strappi’ il cazzo, la tua voce prima e dopo aver fatto l’amore, io ti amo, amore mio, ti amo senza aggettivi, fino alla fine dei tempi”. E la febbre incominciava ad assalire la nostra pelle, la nostra carne, la nostra mente. Le nostre bocche anelavano già suggere la reciproca saliva infuocata, le mie mani avevano già raccolto i suoi seni, la sua mano il mio sesso, che già si era inarcato. Fu un imperioso ordine dato a me stesso, che bloccò una nuova tempesta di amplessi furenti. E fu come un fulmine che cade improvviso in un giorno sereno.
“Aura sono stato, trent’anni, fa fidanzato con tua madre. No, non parlare, per piacere, diversamente non riesco a continuare. L’ho capito qualche settimana fa. Ricordi, quando ti ho chiesto come si chiamava tua madre? E’ stato allora che ho capito. Uno scherzo del destino, una punizione? Perché tra tutte le possibili donne, per un’arcana combinazione, dovevo conoscere te e irrimediabilmente innamoramene? Ed era orami troppo tardi, quando scoprii che eri la figlia dell’unica donna, che, prima di te, avessi realmente amato. Forse aveva ragione lei nel sostenere che il mio lavoro era più importante del mio amore, forse io: avrebbe potuto seguirmi. Ma non era questo il punto. Lei non voleva che facessi il pilota. Era il mio sogno fare il pilota. Lei non volle capire e pose sul piatto della bilancia il mio sogno e il mio amore per lei. Scelsi il mio sogno, anche perché ero convinto che lei se ne sarebbe fatta una ragione e sarebbe tornata con me. Perché uccidere il mio sogno in nome dell’amore, se non era necessario? Lavorare in una fabbrica dietro sollecitazione di tuo nonno non mi andava, prima perché volevo fare il pilota e poi non volevo un lavoro, che non mi gratificava, poi, anche se ben remunerato, grazie a tuo nonno: mi sarei sentito un po’ come mantenuto. Non te l’ho detto subito, appena scoperta la cosa, per semplice, immensa paura, paura di perderti. Ma ora, ora che siamo così indissolubilmente uniti nel corpo e nell’anima, come facevo più a tenerti questo segreto? ‘Tra noi non ci saranno mai segreti ‘ mi hai detto tante volte ed io concordavo, ma, mentre chinavo la testa, mi sentivo schiacciare il cuore dal segreto che ti celavo. Le parole, che la mente spingeva, morivano sulle mie labbra. Non potevo più tacere. Come si può tacere nei confronti della propria vita? Ché tu sei la mia vita, le sue radici, la sua linfa”. Avevo raccolto con gli occhi irrequieti, mentre raccontavo, tutte le sfumature del suo volto, prima interdetto, poi sbiancato, infine incollerito, nero come le nubi grevi di pioggia in un temporale incombente. Aspettavo che parlasse. Avevo il cuore che sprofondava nel petto, come se le viscere volessero inghiottirlo. E lei taceva. Aveva reclinato gli occhi, le gote impallidite, e taceva. Quel silenzio mi assordava, era come un vortice di follia su cui mi pareva di essere trascinato. Fu poi un sussurro secco e tagliente. “Perché non hai avuto fiducia in me, nel mio amore?”.
“Non avevamo ancora confessato che ci amav…”.
“Taci, oh, taci, ti prego. E perché questa ‘ bambina ‘ sarebbe uscita ogni giorno con te, con la felicità negli occhi, e il subbuglio nel cuore, se non ti avesse profondamente amato? No, non è possibile, un fatto così importante, che ha accompagnato la mia vita dalla mia adolescenza ad oggi, tu me lo nascondi. E, se mi madre ci avesse visto, che le avresti detto, che avresti detto a me? Lei è mia madre, che è vissuta solo per me, comprendi? Non ha amato mai suo marito, ma ha amato ed ama me più della sua vita e non si è più risposata, per me, per vivere solo per me. E io che faccio? Gli prendo l’uomo che l’ha lasciata e distrutta. La ucciderei, se lei sapesse”. Solleva la testa e affigge gli occhi nei miei. Mi afferra rudemente, tremando, con le mani per le spalle.
“Te ne rendi conto? Non possiamo stare insieme, non lo possiamo. Ucciderei mia madre, capisci. E’ come se prendessi un coltello e glielo conficcassi volutamente nel cuore, capisci, te ne rendi conto? Non posso stare insieme a te, non posso, non posso più”. La sua voce da sibilante e sommessa s’era fatta sorda e quasi urlata. Scende dal letto, nuda e fragile e, le mani alle tempie – io le corro dietro incapace di farfugliare, – si aggira come una foglia in balia del vento, per la camera. Non mi guarda. Sono annichilito, le gambe, le braccia molli, il cuore che cade sempre più velocemente in un pozzo senza fine. E lei che parla con se stessa:
“Che faccio, che devo fare? Lo lascio? Muoio. Vivo di lui, per lui. Ma è l’uomo di mia madre. Ciao, mamma, ti presento l’amore della mia vita. Sì, era anche il tuo. Ma ora me lo sono preso io. Questa è pazzia. Non si può, non si può. Io la uccido. Come la guarderei negli occhi stando con lui. Negli occhi? Quali occhi? Lei li chiude per sempre. Si è fatta la madre e poi la figlia. Sì, perché dopo che ha saputo che ero la figlia, mi ha portato subito a letto. Si è posto il problema che mia madre, la sua donna, avrebbe saputo e ne sarebbe morta? Io glielo avevo detto che non aveva mai amato mio padre. E lui sapeva il perché. Non me lo ha detto, però. Perché lo avrei lasciato, certo lo avrei lasciato. Ma lui, così, non si sarebbe scopato più la bambina. Lurido, bastardo, non mi scopava più. Con me si è scopato nuovamente mia madre. Capisci, tu con la figlia ti fotti anche la madre. Fottere, fottere. A voi uomini non importa solo che fottere, non vi frega nulla se spezzate il cuore di una donna. Sì, ha ragione mia madre: ragionate col cazzo, solo col cazzo. Una ragazza vergine, a vent’anni. Dove si trova più? E’ merce rara. Lui se la doveva fottere, come si era scopata mia madre e poi l’aveva lasciata, a sprofondare nel suo dolore per il resto dei suoi giorni. Ogni giorno, bastardo, ogni giorno sei sprofondato nel mio grembo, nella mia bocca, nella mia anima e sapevi chi era mia madre. Non ti voglio più vedere”. Non, non potevo più stare intontito a vederla mulinare come una folle per la stanza. A rovesciare parole che non avevano senso e che erano come coltellate scavate nel mio cuore. Non ero quel perverso che lei stava almanaccando. L’affrontai. La bloccai in quel suo ruotare irrefrenabile.
“Vai via. Non mi toccare, non mi toccare. Non vedi? Mi offendi”.
“No, tu ora mi ascolti. Io ti amo. Non sai nemmeno lontanamente quel che stai dicendo. Io ti amo, riesci a capirlo, ti amo con tutta l’anima mia. Sai che non è vero che non ti ho detto nulla perché ti volevo portare a letto. Sai bene che non è vero. Ché se veramente lo pensassi, sarei io a lasciare te. Anche se avvizzirei senza di te. Io non ho lasciato tua madre. E’ lei che ha lasciato me. Voleva che non facessi il pilota. Il sogno della mia vita e solo per le sue ubbie, le sue paure, la sua gelosia. Io amavo solo lei, capisci. E te l’ho detto prima che sapessi che tu eri sua figlia. E questo lo ricordi benissimo. Sapevi che era stato l’unico, vero, grande, amore della mia vita. E lo doveva sapere pure lei. No, lei era gelosa e sull’altare di una inconsistente gelosia io avrei dovuto immolare il mio sogno. Non saresti stata tu così crudele. Tu non lo saresti. Non lo sei. E’ lei che ha lasciato me e lei che mi ha sacrificato in nome della gelosia. E io ho sofferto più di lei. Lei ha avuto te su cui centrare il suo amore. Io nessuno. Detestavo talora pure il semplice scopare. E, questo te l’ho confidato, quando ancora non eravamo andati a letto e non sapevo chi fosse tua madre. Come fai ad addebitarmi tutte quelle infamie? No, non le pensi. Sai che non sono vere. Puoi rimproverarmi sino allo spasimo perché non te l’ho detto prima. Ma tutte le altre cose no. Saresti tu, sbollita la collera, a pentirtene, perché io non sono né un vile, né un bugiardo. E per te darei la vita. Se me la chiedi, te la regalo. Non sto scherzando. Pugnalare tua madre. Te lo prendo io un coltello e, se tu mi dici di uccidermi, lo faccio qui davanti ai tuoi occhi. Io senza di te non posso, non so più vivere. Così mi uccido e vendichi tua madre e il tuo pudore offeso”. Come un forsennato corro per la cucina, rovisto nel cassetto delle stoviglie e afferro un coltello da caccia. Torno da lei, che mi guarda sconcertata. Guarda me, poi il coltello.
“Nel cuore, dicevi. Ecco sono pronto. Me lo caccio nel cuore. Se tu te ne vai, la mia vita non ha senso, tanto vale…”. Mi guarda stranita, incerta. Vede la punta acuminata del coltello affondare leggermente nella carne e stillare le prime gocce di sangue. E’ un urlo grande, incontrollato. Ha capito che facevo sul serio.
“Nooo!”. E si lancia su di me, scacciando il braccio dal mio petto.
“Io ti amo, ti amo. Non uccidermi. Con te uccideresti me”. E la rabbia, lo sconforto, la paura esplodono in singhiozzi convulsi, in pianto dirotto, mentre mi abbraccia e si abbandona col viso sul mio petto, macchiato di sangue. “Scusami, scusami, scusami per quello che ho detto. Ti amo, ti amo, ti amo, non ti lascio, non ti lascerò mai. Sei mio, solo mio, la mia luce, la mia gioia, la mia vita”. Diceva e mi tempestava di baci sul viso, sugli occhi, sulla bocca, freneticamente, convulsamente. Mi lasciai sommergere dal mare del suo amore, della sua passione. Le nostre lingue si avviticchiarono, si risucchiarono, si amalgamarono. Le mie mani cesellarono i suoi seni di struggenti carezze, si inebriarono dei capezzoli che, turgidi come corbezzoli, scavavano i miei palmi. Poi, la sollevai e lei si aggrappò al mio collo, serrandosi con le gambe attorno ai miei fianchi. E il mio pene trovò la sua vagina, assaporò il suo calore e si rannicchiò fermo, nella sua rigidità, solo a godere di quel tepore, che lo permeava coi suoi umori di donna. Mi sospinsi lentamente verso il cassettone. Lei vi si distese con la schiena, restando sempre abbarbicata, come l’edera, ai miei fianchi con le gambe e io cominciai a muovermi dentro di lei, una mano sopra il suo fianco, l’altra sopra lo schiudersi delle grandi labbra, a pigiare su di esse, mentre il pollice, bagnato dai suoi umori, dolcemente ruotava sul suo clitoride. Cominciò a rovesciare il viso da un lato e dall’altro, con gemiti sempre più profondi, lancinanti. Erano, prima ancora che del corpo, orgasmi della mente e del cuore. La nostra passione, il nostro amore era così totale che esasperava al parossismo il piacere fisico, lo esaltava, lo ingigantiva, lo esagerava. Io e lei, nudi, eravamo sempre gli stessi, eppure, ogni volta che ci incontravamo nella nostra nudità, ci vedevamo sempre diversi. Era come se facessimo l’amore per la prima volta, e sempre con furia, con esasperazione, selvaggiamente, quasi volessimo, per osmosi, fonderci, distruggerci. Più forte. Andavo e venivo dentro di lei sempre più forte, sempre più veloce. I miei testicoli non secernevano più nulla e la piccola bocca rossa del mio glande, quando lo spasmo del supremo godimento mi contrasse in un sussulto le natiche, non restò che a boccheggiare come un pesce soffocato dall’aria. Sentendo vicino il mio piacere lei con la mente accelerò il suo e, sollevandosi di botto e riaggrappandosi fortemente a me, venne in modo violento. Le mie mani, che la sorreggevano, avvertirono i suoi glutei sobbalzare, come se dentro di lei esplodesse una serie continua di terremoti. Il suo pube danzò sopra il mio pene per secondi che sembrarono eterni. Poi, fu la calma. Il piacere quella sera certamente mi avrebbe ucciso. Che mi importava. Ormai non avevo più nulla da chiedere alla vita. Sempre allacciati, mi accostai al letto. Vi adagiai prima lei, poi, svuotato, caddi, a ridosso delle sue gambe, di traverso, ai piedi del letto,
“come corpo morto cade”.