Non potremo nascondere a vita il nostro rapporto (4 di 4)

“Che fare? Il problema è davvero grande e reale. Non voglio dare un grande dispiacere a tua madre, ma nemmeno voglio perderti. Questa eventualità non esiste nemmeno sul piano del pensiero. Il nulla, puoi pensare il nulla? No. Ecco la mia vita senza di te è impensabile, come il nulla. Intanto il problema c’è. Come risolverlo? Non potremo nascondere a vita il nostro rapporto. Quindi, dovremo trovare insieme, prima, come fare accettare a tua madre che stai con un uomo più grande di te di trent’anni e, poi, farle magari capire – che è poi quel che è realmente accaduto – che è stata una incredibile combinazione che ci incontrassimo. Che io non sapevo assolutamente che tu eri sua figlia e che non lo immaginavo nemmeno lontanamente e che ci amiamo sul serio e che voglio sposarti appena lo  deciderai”. Era ormai sera e stavamo sulla veranda, lei stretta in una giacchetta di lana color aragosta, io con uno giubbotto grigio di pelle. Anche se si era in  autunno, ormai agli sgoccioli però, la serata era fredda. Davanti a noi le stelle, che come una cupola si calavano sul mare, si confondevano con le luci della città sotto di noi che stracciavano il velluto scuro della sera. Lei guardava lontano, almeno così sembrava. Non mi rispose per alcuni secondi che sembrarono ore. Poi, senza rivolgermi lo sguardo, fissando l’orizzonte lontano, disse, quasi parlando a se stessa, lentamente:

“E tu credi che mi crederebbe? Con il risentimento covato per te da una vita, tu pensi che crederebbe ad una storia come questa. L’amore che aveva per te, proprio perché era grande, si è mutato in un risentimento, forse odio, altrettanto grande. Penserà che l’hai cercata, che hai saputo che s’era sposata nemmeno un mese dopo che vi eravate lasciati, che aveva una figlia e che ti sei rivalso sulla figlia per vendetta, per gelosia, per cinismo, per tutto quello che vuoi, non certo per amore nei miei confronti e che io sono ingenuamente caduta nella tua trappola.

Potresti darle torto? E’ davvero credibile – non crederà mai che sono stata io a sceglierti per pura combinazione per difendermi da un teppista – che tra venti, trentamila giovani donne della città, guarda caso, vai ad incontrare e a innamorarti della figlia del tuo primo amore? Chi non crede nei giochi del destino non crederebbe mai ad una storia simile.  Io stessa, che so in che modo ci siamo conosciuti, non posso nascondermi la bizzarria del caso. O del destino?

Perché è certo che io ti amo, come sono certa che mi ami. Ma, se se quel deficiente non mi avesse molestata così pesantemente, io non sarei corsa a chiedere protezione a te. C’erano tante persone, tanti uomini più giovani, lì, sulla piazza. Perché istintivamente sono corsa verso di te? Istintivamente e naturalmente dico. Perché, pur se in modo rapido, ho dato una scorsa al viso delle persone che stavano lì in quel momento, ma fu solo il tuo che mi dette fiducia.

Un volto buono, franco e tranquillo, che infondeva sicurezza, un volto di gentiluomo. Può essere tutto questo solo un caso? Non lo so, davvero non lo so. Anzi, in fondo, non lo credo. Forse saremo condannati a scrivere una pagina sofoclea? Quali divinità abbiamo offeso? Perché ti amo così intensamente da mancarmi il respiro? Perché ti sento mio così prepotentemente che vorrei rifugiarmi dentro le tue viscere, sotto la tua pelle. Perché ti voglio bene come forse non ho voluto a mio padre? E’ normale tutto ciò?

Posso ragionevolmente pensare che in te ritrovo quella protezione e quella sicurezza che mio padre, non per colpa sua, poverino, non mi ha saputo dare  dovutamente, visto che se ne è andato quando ancora ero una bambina e per questo mi sento bene; ma ciò non spiega l’ardore, la passione, la radicalità dell’amore che provo per te. E’ come se prima di conoscerti tutto fosse stato insignificante ed ora invece avesse acquistato una tonalità, un colore, solo perché ti amo e mi ami.

Dall’istante in cui ti amai, l’universo divenne amore. E tu diventasti la condizione indispensabile della felicità della terra e della speranza dei cieli. Vicino a te il tempo scompare, scompare lo spazio, e un’ora con te risolve la mia intera esistenza. Prima di conoscerti la mia vita era senza ricordi, una sera con te è tutto il mio avvenire. Vedi questa bellissima sera. La vedo come una cuna che ci accuccia, ci custodisce e che si impreziosisce di stelle che sfavillano por noi, solo per noi.

Questo sarebbe stato insulso romanticismo in altri momenti, ora lo trovo una carezza del creato che ci conforta perché ci amiamo”. Si riscosse di colpo, girandosi di scatto verso di me. “Credi nel destino? Possiamo tutto spiegare col caso e con la logica. Avrebbe senso la vita se tutto fosse spiegato con la logica? Secondo logica e scienza dovremmo essere un cumulo di atomi che si legano e funzionano in modo meccanico.

Biologicamente spiegabile il nostro amore, la nostra attrazione, la nostra passione. Il nostro incontro rientrerebbe nel calcolo delle probabilità. Appetto a quelli che giocano alla roulette e non vincono mai, ce n’è uno che gioca una volta e vince venti volte di seguito, arraffando una sfilza di miliardi; ma, per la matematica, questa non è fortuna, perché, nella totalità delle giocate, quelle vincite rientrano nella statistica globale”.

“Già”, rispondo io, “come la statistica che attribuisce a me, che non la mangio, una certa quantità di carne di pollo, solo perché c’è tanta gente che si ingozza di essa quotidianamente. Non lo so, Aura, davvero non so che risponderti. Mi rattrista pensare che, quando morirò, non resterà nessuna coscienza di me. Non ci sarò nemmeno come semplice intelligenza cosciente che continua a vederti, a vegliare, a consigliarti, anche se tu non te ne accorgeresti, e quel consiglio, ch’io ti soffio nell’orecchio, crederesti di averlo pensato da sola.

Preferisco credere che qualcosa di cosciente di me sopravviva e che si allieterà di vederti anche se non può farsi sentire. Il destino, cioè una vita già tracciata. Da chi? Da noi che già siamo stati insieme in una vita precedente o da un dio chissà dove nascosto. Sai, i primi tempi che pilotavo un aereo, ammiravo estasiato le montagne, le vallate di nuvole che sovrastavo e mi aspettavo di vedere magari un semplice riflesso di Dio. Nello spazio, al di fuori della nostra atmosfera, c’è solo  silenzio assoluto.

“Il silenzio di questi spazi infiniti mi sgomenta”, diceva Pascal: anch’io mi sono ritrovato, molto spesso, con questo sentimento nel cuore. Ci sarebbe il suono delle stelle, ma col nostro orecchio non possiamo sentirlo, anche perché sono onde di luce che poi vengono tradotte in suoni da strumenti specifici. Eppure, se non crediamo in Dio, ci sentiamo mancare il terreno sotto i piedi.

Non riusciamo  ad arrenderci all’idea che siamo, come dici tu, un cumulo di atomi al più alto grado di evoluzione. Dio allora ci ha destinati. Ma, se ci ha destinati, troverà, o ci suggerirà, il modo di risolvere questa groviglio di problemi. Perché, se dobbiamo restare sul piano delle cose reali, ritengo pure io che tua madre si opporrà con tutte le sue forze al nostro legame e non riuscirebbe a farsene una ragione. Le avrei sottratto anche l’ultima cosa che dava un senso alla sua vita.

Ho paura, amore mio tenerissimo, ho paura. Non voglio che tu scelga tra me e tua madre; ma, anche se tu dovessi essere costretta a fare questa scelta, il dolore di tua madre resterebbe. Ne potrebbe morire. No, davvero: questo non lo vorrei. Mi sentirei in colpa per tutto il resto della vita. Il tuo dolore sarebbe immenso e il suo fantasma sarebbe sempre in mezzo a noi. Fingere, forse fingere, ma per quanto? Di certo chiamerebbe tuo padre, chiederebbe a lui di intervenire per sapere con chi esci”. Lei ascoltava attenta, ma, nello stesso tempo, dal suo volto traspariva l’ebollizione della sua mente. Interruppe, così, il flusso logorroico dei miei pensieri.

“C’è una sola soluzione, di cui col tempo potrà farsi una ragione. Fuggire, andare via da questa città, anche in un’altra nazione. Io le dirò solo che sto con un uomo molto più grande di me. Sì, questo glielo dirò. Lei farà di tutto per impedirmi di vederti. Io, alla fine, impossibilitata e stanca dei suoi divieti, le scrivo una lettera in cui la informo che vado a stare con te in un posto lontano e che, quando lei accetterà il nostro legame, ci potremo rivedere.

Così, io mi farò sentire per telefono ogni giorno e non sentirà la mia mancanza in modo radicale e, siccome mi vuole bene, a poco a poco finirà per accettare il nostro rapporto. Io la verrò a trovare, trascorrerò qualche settimana ogni tanto con lei e tutto si stabilizzerà. Pazienza, farò la spola tra lei e te senza che voi due vi incontriate mai.

Ma dovremo andare via di qui. Mi porterai in un posto meraviglioso, di cui nessuno avrà l’indirizzo. Che ne dici, non è la soluzione ideale?”. I suoi occhi ardevano d’amore e rovistavano i miei sicuri del consenso. Sì, poteva essere una soluzione. Doveva abbandonare, però, tutto ciò che la legava alla sua città natale, rompere in maniera traumatica con la madre che adorava. E tutto questo per me. Potevo accettarlo?  Certo che potevo: non riuscivo a immaginare nemmeno per un giorno la mia vita senza lei.  L’avevo nel sangue, nelle ossa, nel mio respiro. L’amavo perdutamente e con disperazione. Quante volte mi ero ripetuto:

“E se un giorno si stancasse? Tra dieci anni avrò oltre sessant’anni, lei ne avrà trenta. La mia pelle si sarà fatta più spessa, le mie rughe più profonde, la mia prestanza fisica più blanda, il mio seme non avrà più la forza di schizzare e riscaldarle il ventre. Sarà un malinconico tramonto. Lei si allontanerà. E io? Che farò senza di lei? Vivrò dei suoi ricordi? No, non sarebbe accaduto. Farò così tanto l’amore da farmi scoppiare il cuore e morire sopra i suoi seni adorati”. “Sì”, risposi, mentre la stringevo sul mio petto.

“Sì, se tu sei nel più profondo del tuo cuore decisa a lasciare la tua casa, i tuoi amici e, soprattutto, tua madre io sarò con te sempre e dovunque. Ti amo bambina mia e ho bisogno di te come la terra ha bisogno giorno per giorno di essere baciata dalla luce del sole. Decidi tu quando partiremo”. I suoi occhi raggiarono ancora di più. Sollevò la fronte verso di me rasserenata:

“Dove mi porti? Tu che conosci i luoghi più belli del mondo, sceglierai per noi il posto più incantato. Una casa in mezzo al verde. Mi sentirò la più bella delle fate, Titania, e sarò, soprattutto, la custode della tua anima: io ti affiderò la mia e la farai danzare nel petto di questa piccola bambina”. Protese la bocca verso il mio viso e io non delusi quelle labbra anelanti d’amore.

Non vedemmo, però, una stella che si oscurava nel firmamento, nero presagio d’un futuro che credevamo di sogno. Ché, sicuramente, la stella più luminosa si spense nel cielo, funesto avviso di morte. L’accompagnai alla sua utilitaria. Lei vi salì e si allontanò. Perché uno stilo di gelo trafisse il mio cuore?

Era trascorsa qualche settimana. Avevamo tutto ormai pronto per partire. Avevamo scelto un piccolo paese della Normandia. Lei avrebbe potuto continuare lo stesso i suoi studi e dividere, intanto, i suoi sogni, le sue speranze e la sua giovinezza con me. Avevamo pensato di recarci dal commissariato locale per dimostrare, testimone la legge, a suo tempo, a Viviana che Aura partiva con me di sua spontanea volontà, che la lettera, che avrebbe lasciato alla madre, era stata scritta senza nessuna coercizione. Insomma, non desideravamo andare a finire nella trasmissione

“Chi l’ha visto?”.

Tutto accadde di prima mattina. Aura aveva finto di recarsi all’Università ed era invece venuta da me. Eravamo già l’uno nelle braccia dell’altra, nudi, nel nostro letto, quando il campanello suonò a più non posso. Chi poteva essere a quell’ora? Il postino forse. Data l’insistenza dello scampanellio, mi infilai i calzoni e, a torso nudo, andai a vedere di chi si trattasse. Perché non mi passò nemmeno lontanamente  per la mente la natura del visitatore? Viviana, era Viviana. Gli anni non sembravano essere passati, nonostante la sua giovinezza fosse sfiorita.

“Livio!”, riuscì solo a mormorare, esterrefatta. Sbiancò in viso e la vidi barcollare, tanto da doverla sorreggere. Pallida come la morte, si riprese dal leggero mancamento, liberandosi rudemente da me.

“Livio… Questa è casa tua?…Che, che ci fai con mia figlia? Ché mi figlia è dentro causa tua. Di questo sono certa. Sono stata molto accorta nel seguirla e ho atteso ore per vederla riuscire. Avevo visto nella sua borsa un telecomando per cancello e l’ho fatto clonare.

Più volte era riuscita a seminarmi, ma ieri sono riuscita a non perderla e ho visto che entrava in questa villa. Tuo figlio, vero? Aura sta insieme a tuo figlio?”. E queste ultime parole le pronunciò  soffocata, sconvolta. Poi si mise quasi a gridare: “Non può, non può stare insieme a tuo figlio. Non può per nessuna cosa al mondo. E’ mostruoso, orribile, perverso. Fammi vedere Aura. Deve lasciare immediatamente questo luogo immondo, di perdizione, di peccato”.

Avevo sempre pensato alla possibilità di questo incontro, ma la realtà era al di là di ogni immaginazione. Non riuscivo a parlare. La gola mi si era come bloccata, mentre il cuore sembrava perdersi in un pozzo senza fondo. Riuscivo solo a sbarrarle l’ingresso della massiccia porta. La donna che un tempo avevo amato era lì e mi terrorizzava e nel tempo stesso mi faceva tenerezza e mi veniva istintivo volerla difendere…da me stesso.

Credeva che Aura fosse con mio figlio. Tanto mi odiava da definire il rapporto col mio ipotetico figlio “immondo”? Intanto, mi aveva suggerito l’idea di lasciarle credere che avevo un figlio. Solo per guadagnare tempo.

“Sì, è con mio figlio”, riuscii a balbettare.

“Solo da poco anch’io ho scoperto che fosse tua figlia. Si sono conosciuti per caso all’Università e si sono innamorati. Io non l’ho sentita entrare. Ho sentito solo ora lo scampanellare, perché ero qui sotto in cucina. No, non  puoi salire. Lei è maggiorenne ed io sarei un imperdonabile villano se ti permettessi di entrare e fare una scenata. Tu ora te ne vai e, quando rientrerà a casa tua, ne discuterete. Ricordati che tua figlia è una donna innamorata come lo fosti tu un tempo”. Lei, però, non ascoltava le mie parole. Era solo inorridita, come se si trovasse di fronte al demone più mostruoso dell’inferno.

“Allora, non vuoi capire, non vuoi”, proruppe con gli occhi sbarrati, come percorsi dalla follia. Tremava come se fosse stata assalita da una febbre da cavallo.

“Non può, non deve stare con tuo figlio. E’ un’infamia, una sozzura, uno schifo. Orrore, è solo orrore. Io vi denuncio. Dovete lasciare in pace Aura. Mi fate ribrezzo tu e tuo figlio.Con la mia Aura. Come hai potuto permetterlo. Quando hai saputo, tu dovevi troncare la loro storia. Tu. Che dico tu. Se non hai avuto rispetto per me, cosa te ne può fregare della mia Aura”. Ero annichilito. Mi sentivo profondamente offeso, pur se non avevo un figlio. L’odio non può giungere a tanto. Poi, come se fosse impazzita, cominciò a urlare disperata:

“Aura, Aura, Aura”. Non potevo fare uscire Aura. Sarebbe stata la fine.

“Smettila di urlare. Resta qui. Salgo e la faccio scendere”. Si zittì. Chiusi la porta e salii nella nostra camera. Aura era rimasta accucciata sotto le lenzuola, come se non avesse sentito nulla. E, in effetti, non aveva sentito nulla. Vide il mio viso sconvolto e pallido e mi guardò interrogativamente, preoccupata.

“Chi ha suonato?”. Ma pareva presagire la risposta.

“Mia madre?”. Annui col capo. Balzò fulminea dal letto, cercando i vestiti, incespicando in essi, mentre cercava di vestirsi e cercandomi con gli occhi. Oh il cielo trepidante, impaurito, di quegli occhi!

“Che faccio? Livio che facciamo?”. Le risposi stancamente, disanimato:

“Pensa che stai con mio figlio. Ti ha seguita. Ha clonato pure il telecomando del cancello ed è dietro la porta. Non puoi immaginare cosa le è uscito dalla bocca. Il disprezzo. No, l’odio. Anzi, l’orrore. Le fa orrore che tu sia la donna di mio figlio. Figurati se sapesse che stai con me. Credo che impazzirebbe. Non avrei mai creduto che l’odio si potesse toccare con le mani.

Io l’ho sentito schiaffeggiarmi come una pesante folata di vento. Le ho promesso che ti avrei fatta scendere. Usciremo insieme. Le chiederò che sia lei prima ad allontanarsi con la sua auto e poi te ne andrai tu. Guardavo il viso di Aura. Ne scorgevo il dispiacere, non la paura. Quella ragazza aveva deciso la sua vita e avrebbe tenuto testa a sua madre a costo di rompere con lei. Non era sconvolta come me.

“Livio, chissà se, forse, non è stato meglio così. Chiarisco con lei tutto a casa. Insomma, non deve mica dormire lei con te. Ci devo stare io. E’ la mia vita. Lei non può decidere della mia vita. Le parlerò da donna a donna. Ti odia. Va bene. Accetto il suo odio, ma lei non può non accettare che io ti amo”. Ero impressionato e orgoglioso insieme.

“Non essere così dura. Lasciale credere che si tratta di mio figlio. Forse così si sentirà ferita di meno. Poi partiremo e, forse, se ne farà una ragione. Difendi il tuo amore da donna, come dici, ma falle credere che si tratta di mio figlio. Le ho detto che vi siete conosciuti all’Università e che solo da poco abbiamo scoperto che tu eri sua figlia”.

“Ti amo, mio capitano. Accompagnami su”. Ritornai all’ingresso. Sembrava invecchiata di vent’anni. Affranta, spettrale, ingobbita, senza nemmeno la forza  di parlare.

“Ascolta, ora Aura esce, ma dopo che l’avrò informata che te ne sei andata. Torna a casa. Lei ti seguirà immediatamente”. Lo spettro prese vita, si rianimò e sibilò nevrotica:

“Noi dobbiamo parlare e subito, prima che Aura si riveda con tuo figlio. Farò l’impossibile perché non capiti più. Ma…anche tu devi imporre” e calcò dura la voce

“a tuo figlio di non cercare più Aura. Quei due non devono stare insieme, non possono… per la vita e per la morte. Aspetto la tua telefonata”. Mi guardò disperata negli occhi, come se volesse comunicarmi qualcosa di innominabile. I suoi occhi si velarono per un momento, solo per un momento, di lacrime, poi, li distolse, repentina, dai miei e, lentamente, si avviò verso l’automobile parcheggiata poco distante sul viale. Quando la vidi uscire dal cancello, feci cenno ad Aura, che era dietro la porta, ed uscì pure lei.

“Non stare in pensiero per me. Stasera o domattina ci rivedremo. Comunque vada, ti telefonerò. E’ mia madre. Mi vuole troppo bene per farmi del male”. Non ero tranquillo come sembrava essere lei. L’orrore, avevo visto l’orrore negli occhi di Viviana, come se, in vece mia, si fosse trovata davanti un cadavere decomposto rigurgitante di vermi. Ci baciammo, lei entrò nella sua auto, accese il motore e andò via.

Rientrato in casa mi misi a vagare come un’anima in pena. Mille pensieri mulinavano nella mia mente. Quegli occhi, non riuscivo a togliermi dalla mente quegli occhi. Potevo capire un odio così totale e senza remissione se avesse scoperto che ero l’amante di sua figlia, ma perché un ostracismo così radicale anche per il figlio supposto?

Perché, se avessi avuto un figlio, avrei dovuto impedirgli di stare insieme alla figlia della donna che un tempo avevo amato? Che colpa avrebbe avuto mio figlio? Non riuscivo a figurarmela così meschina e vendicativa. Sapevo che per lei il coloro grigio nelle scelte della vita non era mai esistito. Ma, perché mio figlio sarebbe stato il male, tenuto conto che, quando si erano conosciuti, non sapevano, né l’uno né l’altra, dei rapporti un tempo intercorsi tra i reciproci genitori.

Possibile che fosse così radicalmente cambiata? E che sarebbe accaduto, se avesse scoperto che io, non mio figlio, ero l’amante di sua figlia? Un lampo squarciò il mio cervello e il mio cuore annichilì. Mi avrebbe ucciso. Sicuro: mi avrebbe ucciso. Quella donna non aveva ormai nulla, a suo avviso, da perdere. Sua figlia era tutto. Pensare a me, che facevo l’amore con lei, era un atto turpe, orripilante, insopportabile.

Era più di uno stupro continuato, per il quale non c’era appiglio giuridico, ma solo la vendetta. Cancellarmi per sempre dalla vita di sua figlia e dalla sua. Parlare con lei. Mi chiedeva di parlare senza la presenza di Aura. Che senso aveva. Solo per sentirmi imporre di impedire a mio figlio di incontrarsi più con Aura. Ma, come si può impedire a un figlio di non vedere più la donna che ama?

Come può, seppure con la mente ottenebrata dall’odio, pensare che, io da un lato e lei dall’altro, si potesse impedire ai nostri figli di stare insieme. Non riuscirono a farlo i Montecchi e i Capuleti, figuriamoci ai nostri giorni. Era allucinante, semplicemente allucinante. Si poteva scambiare tutto per un incubo ad occhi aperti.

Non c’era nulla da dirci. L’unica cosa era fuggire dalla Sicilia, dall’Italia, il più presto e il più precipitosamente possibile. Plaudo al telefonino. L’avevo sempre detestato, ma mai lo sentivo così parte di noi. Potevo sentirmela vicina, se non con la voce, con gli sms. E, più rimuginavo sopra questa baraonda di fatti, più si accresceva la mia ansia per Aura. No, quella non ci stava più con la testa. Non era la prima madre che aveva ucciso la figlia nella sua follia.

Aura era caparbia. Era dolce, ma era tetragona nelle sue scelte. Mi figuravo Aura che girava le spalle altera e decisa per aprire la porta e andarsene e Viviana con l’attizzatoio in mano che la colpiva con violenza alla testa, che si accaniva su di lei anche dopo che si era accasciata per terra. Colpisce senza pietà, in maniera nevrotica, il cranio della ragazza. Quella testa non deve pensare più a me.

Ma a casa di Viviana non hanno attizzatoio. Va bene, e allora? La colpirà con un martello. Insomma, a poco a poco, davanti agli occhi della mia mente, Aura cadeva e si rialzava colpita in tutti i possibili modi da sua madre.

“No, così non può andare. Io ammattisco”. Presi il telefonino e digitai un messaggio: “Amor mio, io sto impazzendo, sono terrorizzato per te”. E poi un secondo:

“Se vedi che tua madre sconnette, dalle ragione. Dille che non mi vedrai più. Quando ti senti pronta, ce ne andiamo subito. Ti amo disperatamente”. A quest’ora già erano a casa e si stavano affrontando. Aura era sicura di sé, ma lei non aveva letto la risoluzione senza scampo negli occhi di sua madre. Perché mi ostinavo a vedere tutto finire in tragedia?

E che era la prima volta che i figli se ne andavano di nascosto da casa contro la volontà dei genitori? Perché avevo questo folle terrore nel cuore? Non lo capivo. Era come se invece di Viviana dietro la mia porta avessi visto la morte con la sua falce. Era essa che aveva bussato alla mia porta. Dovevo pensar ad altro, diversamente sarei impazzito. Avere fiducia totale in Aura. Conoscevo ormai totalmente la mia “bambina” per sapere che tutto si sarebbe risolto per il meglio: lontani da qui io e lei insieme.

Non saprò mai come Viviana arrivò a scoprire che ero io l’amante di sua figlia. Non saprò mai come venne a scoprirlo nell’arco di poche ore. So solo che, verso mezzogiorno, mi chiama Aura sul telefonino. La voce era calma, ma decisa, per niente apprensiva, né tesa:

“Prepara i bagagli, l’indispensabile. Sto per arrivare. Portami in capo al mondo, dove vuoi, ma sempre con te. Ti amo, mio grande, unico, insostituibile, amore, ti amo”.

Mi precipito nella mia camera, tiro giù solo una grande valigia per sistemarci le cose immediatamente indispensabili. Meno male che avevamo la stessa moneta sia in Italia che in Francia. Non avrei avuto problemi di cambio per il denaro che avevo in contanti. Per il futuro, più immediato, avrei pagato tutto con la mia carta di credito. In seguito, tramite banca, avrei ritirato tutti i miei soldi nel paese in cui ci saremmo trasferiti.

Ero ancora indaffarato a riempire la valigia che sento dei passi lungo il corridoio che porta alla mia camera da letto. Aura.  Bellissima come sempre. Gli stessi abiti del mattino. Si rifugia pronta tra le mie braccia. Mi soffoca con un bacio che pareva volesse risucchiarmi l’anima. Poi si stacca e, mentre mi guarda con gli occhi annegati da un amore senza confini, scoppia in lacrime.

Un pianto convulso, irrefrenabile. Era l’adrenalina della tensione che si scaricava. L’accarezzavo dolcemente. Aveva bisogno di piangere. Le baciavo i capelli, gli occhi, le lacrime. Non avevo mai amato così tanto una donna, né avrei mai creduto che fosse possibile. Potevo solo ora comprendere, nella sua piena semanticità, l’espressione

“ti amo più della mia vita”. La idolatravo: era il mio tutto, l’essenza stessa del significato di vivere. Poi si calmò e parlò.

“Irriconoscibile, Livio, mia madre era irriconoscibile, folle, spietata. Avrebbe preferito vedermi morta che insieme a te. ‘Ti incateno ‘, mi ha detto. ‘Potrai fare pure la puttana, se vuoi, ma col figlio di quello lì tu non andrai più a letto, te lo impedirò con qualsiasi mezzo’. Sembrava una strega, non più mia madre. ‘Mi prendo le mie cose e me ne vado’, conclusi alla fine risoluta. Non c’erano discorsi, suppliche, promesse, giri di parole, perorazioni. Non c’era nulla che riuscisse  a smuoverla. Mi impedì di entrare nella mia camera. ‘Allora, dissi, me ne vado con i vestiti che indosso’. Si parò davanti alla porta e risoluta disse: ‘Di qui tu non esci. Dovrai passare sul mio cadavere’. Ho visto la follia nei suoi occhi. ‘Chiamo papà. Farò venire lui qui’. Corse verso il telefono, lo tirò con violenza e lo scaraventò furente per terra. Cercare di rabbonirla, dicendole che non poteva avere dimenticato il bene che le volevo, che ero non solo sua figlia, ma la sua confidente, la sua amica, fu  inutile. Che tuo figlio non poteva avere la colpa che addebitava a te, non l’ascoltava nemmeno. Non voleva e basta. Credo, a questo punto, forse, di essermi confusa, di avere detto ‘io amo Livio con tutta l’anima’. Non ne sono sicura, ma, in quel furoreggiare di botta e risposta, di valanghe di parole, di rabbia sul punto di esplodere, mi pare di avere detto così. Non mi ha lasciato nemmeno il tempo di inventarmi un nome. Ma sicuramente, feroce com’era, non m’avrà nemmeno capito. Aveva solo un chiodo fisso: rompere con tuo figlio, non vederlo mai più. Un linguaggio scurrile, inimmaginabile in mia madre. ‘Potrai farti tutti gli uomini che vuoi, farti chiavare, inculare, fare pompini anche all’ultimo degli uomini, ma con quello no. E’ peccato mortale, mortale’. Farneticava, era evidente. Alla fine ho fatto finta di cedere. E’ chiaro che non mi ha creduto. E pure lei ha fatto finta di cedere. Le ho detto che sarei venuta qui, che dovevo parlare con tuo figlio e che gli avrei detto di non vederci per qualche settimana. Capiva, forse, che non poteva tenermi prigioniera, né rimanere reclusa lei stessa: non può darsi ammalata per settimane, per mesi, abbandonare il suo lavoro. E, così, di colpo ha finito di sbarrarmi la porta ed è scomparsa in giro per la casa. Ti ho telefonato e sono arrivata qui. Ma, Livio, la sua arrendevolezza non mi ha convinto per nulla. Mi sono resa conto che avrebbe fatto qualsiasi cosa per impedirmi di stare con te, col tuo supposto figlio. Prima partiamo e meglio è. T’aiuto a sistemare le tue cose in valigia. Per le mie dovrai pensarci tu non appena saremo arrivati in Francia”. E quest’ultima considerazione le fece schiudere le labbra in un leggero sorriso. Perché non riuscivo a sgravarmi il cuore dal nero presentimento che lo soffocava?

“Aura”, dissi, “mentre tu sistemi, io prenoto l’aereo”. Chiamai l’aeroporto di Catania. C’erano due voli dell’Alitalia per Parigi: uno alle 13,00 e un altro alle 14,30. Alle tredici non saremmo potuti arrivare mai. Prenotai in prima classe per il volo successivo. Poi, telefonai ad un’agenzia di taxi e fissammo per le 13,15 l’ora in cui avrebbero dovuto venire a prenderci. Alle automobili mia e di Aura, che avremmo sistemato nella autorimessa della villa, avremmo pensato in seguito per il trasporto. Avevamo più di mezz’ora da passare insieme intimamente. Come se fossimo stati in perfetta sintonia, ci fermammo di botto entrambi, restammo per qualche istante immobili. Ci guardammo intensamente negli occhi e “scolorocci il viso”. Era supremamente bella. Lo stomaco si aggrovigliò di crampi. Ci accostammo lentamente, le presi tutte e due le mani e le portai, unite, alla mia bocca e, nel loro incavo, poggiai le mie labbra. Ne sfiorai leggermente la pelle con impercettibili baci, risalendo verso i polsi. La sentii rabbrividire come quando il mare si increspa sotto la carezza della brezza. La febbre d’amore cominciava a fluire irresistibile nelle nostre vene. L’attrassi a me. I suoi occhi due polle d’acqua su cui dissetare le mie labbra, attingendo blandamente. Scesi verso gli angoli della bocca. Lei aveva chiuso gli occhi e si abbandonava, il capo leggermente reclinato all’indietro, alle sensazioni che la trascorrevano. Scivolai, rifugiandomi, sul collo, morbido, tornito. Ricamai su di esso tutti i possibili disegni che deliziavano il  mio cuore e trascorrevano di aghi di piacere la sua mente. Accarezzare il suo seno, sentirne la turgidezza sopra la stoffa della camicetta, avvertire il turgore dei capezzoli sotto la pressione delle carezze, era un sottile godimento per entrambi. Sfioravo col dorso della mano, sopra la stoffa leggera, i capezzoli già inturgiditi, che si irrigidivano sempre di più. Rabbrividivo, rabbrividiva  sotto quei leggerissimi sfregamenti. Quei seni marmorei e vellutati insieme erano miei, ne potevo colmare a piacimento le mani con voluttà, stordire il viso che se ne beava mentre si perdeva in quell’incavo di sogno. Sgusciare, poi, furtivo sotto il tessuto di seta e scandagliarli bramoso, liberarli dal reggiseno che li fasciava e sentirne il tepore e la morbidezza della pelle calda ed allertata, ti ammollavano il midollo dentro le ossa.

“I tuoi seni sono come due cerbiatti, gemelli di una gazzella, che pascolano tra i gigli”, e io mi inebriavo del profumo di quei gigli. Lentamente la cominciavo a spogliare e lei, illanguidita e inebriata, si lasciava spogliare. Era come se una intensissima luce imprigionata, raggio dopo raggio, straripava da ogni angolo del suo corpo, man mano che la liberavo dai vestiti. Percorsi poro dopo poro con la mia bocca, con la mia lingua, la sua pelle dal costato via via sempre più in giù fino a quando brillò il suo giardino dorato. L’Eufrate, nell’Eden, non conobbe rive più levigate e l’erba che  le tappezzava non era certo più fresca e fragrante degli steli spolverati di sole che impreziosivano il tumido mistero della mia fanciulla. Ne aspirai intensamente il profumo, mentre con un dito ne accarezzavo  il solco, una ruga rosa nel ventre della terra. Solo un dito si deliziò a vellicare quella crepa che schiude dall’alba della vita la nascita dell’uomo. Bello, bello. Vi poggiai le labbra e il vello sobbalzò con il tesoro che custodiva. Vi trascorsi la lingua prima blandamente, poi più decisamente. Le rive si schiusero e, come dalle onde del mare, sotto la violenza del magma che ne squarcia il fondale, emerge la cresta di un’isola, apparve la cima infuocata del suo dilettevole segreto. Pronto con le dita allargai le rive infuocate e con la lingua cominciai a levigare quella cresta turgida che invocava il piacere. E lei gemette e venne e gemette ancora e ancora venne. Si adagiò sul tappeto per terra, le cosce abbandonate sulle mie spalle, mentre la mia bocca continuava a frugare instancabile nella sua intimità fragrante. Lo voleva, lo chiedeva, lo supplicava, il mio sesso. Reclinò le gambe all’indietro, verso la fronte, inarcandosi e appoggiandosi solo sulle spalle e sulle braccia e quel fiore di carne, schiuso come una rosa sanguinante, impudicamente esposto, implorava di essere penetrato. Con le gambe appena reclinate, che inframmezzavano una delle sue ripiegate all’indietro, dall’alto, come un ariete, scesi dentro di lei, mentre con le mani mi poggiavo sui glutei e, sospingendola in avanti, la aiutavo a mantenere quella ginnica posizione. Il mio sesso scorreva con colpi di maglio dentro il suo, mentre il suo miele straripava come una lava sulle falde di un vulcano. Poi, ero io coricato e lei accavallata su di me, coi piedi appoggiati per terra, però con le mani distese sopra i lati opposti del mio bacino. Era una sensazione inesprimibile. Non ero io che penetravo lei, ma lei che scendeva sul mio sesso e ne risaliva con una velocità sempre maggiore fino a mugolare come una belva ferita. Sempre più veloce, sempre più veloce, fino a che le mie gonadi espulsero il loro contenuto.  Si sollevò, quindi, si accoccolò a ridosso delle mie gambe e, chinato il capo sopra il mio sesso, se ne riempì la bocca, facendolo sussultare quasi di dolore, ma lei non se ne curò. Lo palleggiò nella bocca fino a quando non se ne sentì soddisfatta. Poi mi venne accanto e si abbandonò sul mio petto. Ogni volta quel rapporto febbrile con la mia Aura, da un lato mi sfiniva, ma, dall’altro, mi apriva orizzonti di serenità, appagamenti dell’anima sconfinati. Nei momenti che seguivano i nostri amplessi, mi sentivo in pace e in armonia compiuta con il mondo. Viviana in quei momenti era scomparsa. Allungai di più il braccio sopra la sua spalla e la mano raccolse amorevolmente una sua mammella, solo per il semplice piacere di sentirne il tepore, la morbidezza. Ma, come accadeva puntualmente, il capezzolo svettò prepotentemente.

“Guarda che sono un vecchietto; non posso sostenere le lotte d’amore come un ragazzo della tua età”, mi rivolsi a lei sorridendo. Lei sollevò gli occhi, ammantandomi con quella carezza tinta d’azzurro che mi liquefaceva il cuore, e, sorridendomi, mi disse:

“La colpa è tua. Mi provochi. Il mio seno è sensibilissimo, almeno nei confronti delle tue mani. Tu lo stuzzichi e lui si inalbera e non solo lui, ma pure il faraglione delle mie grotte nascoste. E allora, di qui, la voglia irresistibile di accucciarmi tra le tue gambe e di sentire il tuo turgido e caldo desiderio pigiare sul mio boschetto o scivolare sotto il perineo tra le mie cosce che smaniose lo serrano frementi. Io gli voglio bene, come se fosse un bambino, un figlio da proteggere e da accontentare. Noi ne avremo di figli, vero? Io sono cresciuta in solitudine. Mi sarebbe piaciuto avere un fratello e una sorella. Però più grandi di me: mi avrebbero così coccolata. Tre figli. Ti darò tre figli: una femmina e due maschi. La femmina tutta per te e i maschi tutti per me”. Tenera, dolce deliziosa, profondamente bambina. Come si poteva non amarla. Se fossi stato un canguro con una borsa tanto grande da contenerla tutta, l’avrei custodita sempre dentro di me”.

“Ma perché hai scelto un nonnino, invece di un aitante ragazzo?”, chiesi divertito. Esistono, sai, i ragazzi delle mia età che non sono mezzo deficienti, ma sono rari e, comunque non sono in grado di reggere la tua esperienza. Io non ho avuto rapporti sessuali prima che con te, ma, secondo quello che mi raccontavano le mie amiche, non è che poi fossero così esaltanti, tranne qualche eccezione. Un ragazzo della mia età, a letto, pensa solo al suo piacere, non a quello della sua compagna, o, se ci pensa, ha paura di non essere all’altezza e finisce così per non gratificarla lo stesso. I ragazzi si spaventano di noi donne, specialmente se siamo colte e indipendenti. E, poi, inconsciamente apprezzano relativamente la nostra bellezza e la nostra giovinezza. E’ cosa che possiedono pure loro e non possono – non sono in grado, –  considerarla in tutta la sua luminosità. Tu vezzeggi la mia giovinezza, la decanti, la bevi, la veneri, la esalti, ti inebri di essa e mi fai capire quanto essa sia importante, perché troppo fugace, e la fai apprezzare pure a me in un modo che, avendo accanto un compagno giovane, non avrei potuto. Ma idolatri anche il mio corpo nella sua sessualità. Per un mio coetaneo una ragazza vale l’altra. Vogliono solo conquistare, perché vogliono solo esplorare. Loro sono convinti che la donna smani di essere penetrata da un cazzo lungo e grosso. Proiettano su di noi quelli che sono i loro desideri e le paure del confronto con gli altri maschi. Una donna non si vergogna della sua nudità di fronte a un’altra donna, l’uomo sì, ma più che vergogna è paura di confrontarsi col pene dell’altro. Non si rendono conto, proprio perché mancano di esperienza, di educazione sessuale, che la vagina avvolge qualsiasi membro, tranne che non sia microscopico. E, quindi, se sa come usarlo, ottiene lo stesso effetto che se ce lo avesse lungo e grosso. Ma, appunto, se sa come usarlo. Il sesso è un fatto mentale. Io, già con le tue tenui carezze vengo, perché nella mia mente hanno echi immensi di voluttà. La medesima carezza fattami da un altro mi sarebbe del tutto indifferente. Capisco, non fosse altro che ne hai sperimentato su di me tante che non immaginavo neppure, che le tecniche dell’amplesso sono importanti al fine del raggiungimento di un maggiore godimento, ma, al fondo, c’è l’intesa, l’empatia, il fuoco che ti brucia le carni e ti cola nelle ossa, che non ha a che vedere col sesso, ma con una chimica particolare propria di due persone che si vedono speciali l’una per l’altra.  Io, quando penso che tu desideri la mia giovinezza, la mia bellezza, che la proteggi e  la custodisci come una santa reliquia, prima ancora di rifugiarmi tra le tue braccia, già mi esalto, mi eccito, immaginando le tue sensazioni, che solo quelle due caratteristiche già ti danno. Non ti libererai di me, mio vecchio capitano. Mi piacerà essere venerata sempre come una dea. Tu mi fai sentire come se fossi l’incarnazione della bellezza, l’Afrodite dei greci”. Ripiena di me ed appagata, il suo corpo nudo splendeva d’un bagliore quasi accecante. Era supremamente bella da non capire più niente, da non volere più niente. Un osannah di serafini m’inebria il cuore. Il tempo si raccoglie e foggia e spinge in superficie un calice di rosa: l’universo rampolla e, rorida dal bagno primordiale, emerge lei, dea, donna, signora del mio cuore. Luce che esplode, stelle che danzano: i suoi occhi d’azzurro. Polla di vita i suoi capezzoli rosati: il firmamento vi sugge la sua linfa. I primi cirri iridescenti strusciano e velano con voluttà la giada del suo seno. L’orizzonte stira il suo arco e s’inonda d’oro: il vello biondo del suo pube esposto s’inarca e schiude l’incanto delle labbra. Pago d’amore il sole dal suo grembo sorge e rubizzo vivifica il creato. Mi scuoto dallo stordimento cosmico che le sue forme costringono a foggiare nella mia mente abbacinata dalla sua bellezza. Accarezzarla appena con lo sguardo, mentre assapora la risacca blanda della passione appena consumata, ti istiga con prepotenza a naufragare nella libidine che il suo corpo canta.

“E’ tempo di avviarci. Forse il tassista è fuori che ci aspetta”.

“Il sapore di te dalla vagina ricolma la mia bocca. Ogni goccia di sangue, ogni mio neurone di te è impregnato. Abbandonarmi al rezzo del piacere che defluisce nelle mie carni e nel mio cervello e gustare con serena calma il tuo sapore, questo vorrei. Aspetta ancora un poco”.

“No. Alzati. E’ tardi. Avremo tutto il tempo del mondo per amarci, sentire la tua vita scorrere nella mia, e la mia che agogna tuffarsi nella tua”. Mentre, ormai rivestito, raccoglievo la valigia, lei, dopo essersi stiracchiata, cominciò indolentemente a vestirsi. Non potevo guardarla. Era una tentazione. Finalmente era pronta. Eravamo nel salone, quando sentimmo il campanello. Guardai al citofono: era il tassista che ci invitava a scendere. Gli aprii il cancello. Avevamo appena rinchiuso la porta dietro di noi e visto il taxi parcheggiato col muso rivolto verso l’uscita del cancello, che, come per incanto, catapultata da un anfratto dell’aria, si materializzò la figura di Viviana, vestita completamente di nero, il volto terreo e deformato dalla pazzia. In mano campeggiava una pistola.

“Non partirai con mia figlia. Non mi ucciderai una seconda volta. Pagherai il tuo conto. Ti cancellerò dalla mia vita, da quella di mia figlia”. Gli occhi stravolti della follia furoreggiavano d’una decisione omicida. Mi avrebbe ucciso. Ed Aura lo capì.

“Mamma, non farlo. Calmati, non farlo. Non sei un’assassina. Sei la donna più dolce e tenera del mondo. Non puoi, non sai sparare. Mamma, vengo con te. Ti giuro. Non sparare. Lo lascio. Lo farò per sempre”. E quasi si frappone tra lei e me.

“Viviana”, quasi balbetto, con le braccia e le mani sospese un po’ a mezz’aria,

“non puoi fare questo. Uccidermi non mi cancellerà dalla tua mente. Peggio, t’inseguirà ogni istante il mio fantasma, seguendomi presto nella tomba. E Aura resterà per sempre sola con gli occhi intossicati del mio sangue e  a maledirti sino a che avrà vita. Per questo l’hai cresciuta, perché ti odi? Ché l’amore grande che ti porta, si tramuterà in fiele, se mi uccidi. Io l’amo, più della mia vita. Uccidimi se vuoi, ma dal cuore, dalla mia mente, non potrai estirpare  nemmeno una stilla dell’amore che  ho  per tua figlia”.

“Questo è il giorno dei giorni”, sibilò con voce roca, irriconoscibile. “Non sono mai venuti i giorni in cui mi avresti dovuto amare, non sono mai venuti, ma, di quell’amore mi hai lasciato un pegno, che ora vuoi carpirmi, mia figlia. Sì, è il giorno dei giorni, per rinascere e per morire. Sono io che nasco, tu, invece, muori”. Vidi come a rallentatore il dito che spingeva indietro il grilletto e insieme lo scoppio dello sparo e Aura che volava a farmi scudo con un grido da straziare il cielo –

“Nooooo!” – e che si accascia per terra.

“Aura”, mormoro incredulo, mentre il mondo mi si oscura,

“Aura” e mi chino a raccoglierla. Un filo di sangue serpeggiava intridendo, all’altezza del seno sinistro, il biancore della camicetta.

“Livio…, amore… mio… grande…, perdonala”. Fu solo un tremito e il viso cadde da un lato, come un fiore reciso. Oh tenerezza di quel fiore! Certo, non ci basteranno gli anni nel loro impassibile scorrere, nemmeno l’eternità, a stemperare l’orrore e il dolore incommensurabile di quell’attimo. Non vidi più nulla da quell’istante. Rimasi pietrificato, con  il suo capo sollevato tra le mie braccia e miei occhi sbarrati sul suo viso. Poi fu il mio urlo, il  mio “no” gridato fino a squassarmi i polmoni e poi  fu solo la notte.  Aprii gli occhi dopo due giorni di delirio e febbre in un lettino d’ospedale. Accanto a me sedeva una donna, che riconobbi dopo per una cara amica, che, per qualche tempo,  era stata una delle mie compagne, l’unica, che, chiuso il rapporto sentimentale, m’era rimasta amica, vera amica. E lei mi fece il puntuale resoconto di quanto avvenne dopo che persi i sensi. Il tassista, sentito il colpo di pistola, era sceso immediatamente dall’automobile e aveva bloccato Viviana, che, però, avendo visto la figlia accasciarsi per terra, aveva lasciato cadere la pistola, rimanendo immobile, e mormorando in modo monomaniaco solo queste parole:

“Era sua figlia, non potevo…”. Le ritennero frasi senza senso. O meglio, le attribuirono a lei sdoppiata, a lei, che, rigettando l’orrendo delitto, attribuiva alla parte buona di se stessa la maternità di Aura, che la parte cattiva di sé aveva ucciso. Ma, forse, quelle parole avevano un senso e spiegavano ciò che io avevo ritenuto un odio sordo e sconfinato. O, meglio, l’odio era tale, ma non si riduceva solo a questo. Viviana si era sposata un mese dopo che si era lasciata con me ed Aura era nata prima dei nove mesi. Un dubbio atroce, istante per istante, mi lacera il cervello e certamente porterà anche me alla follia. Aura era, forse, mia figlia (“il pegno di quell’amore”,  Viviana aveva detto). Lei per rancore non me lo aveva rivelato. Anzi, per punirmi e, incosciamente, per punirsi aveva sposato di corsa  il figlio del socio di suo padre, che la corteggiava anche quando era fidanzata con me, il cui matrimonio il padre di lei caldeggiava. Io dovevo sapere. Avrei richiesto di fare l’esame del DNA. Viviana era ricoverata in una clinica psichiatrica, non riconosceva nessuno e, ogni tanto, a chi le rivolgeva una domanda qualsiasi lei, col suo sguardo totalmente perso nel vuoto, rispondeva:

“Era sua figlia, non potevo…”. Forse era impazzita per sempre, ma, in fondo, questa era una fortuna per lei. Ma per me? Ci vorrà del tempo per sapere se era mia figlia. E, se così fosse, cosa cambierebbe? Forse il dolore potrebbe accrescersi di più di quello che ha dissecato il mio cuore e nullificato la mia vita? Ogni giorno sono a piangere e a discutere sulla sua tomba che mi si affaccia in un trionfo di fiori, che lei amava così tanto. Lei è ancora una bambina. Chissà quale freddo e quanta paura la attanaglia in quel buio così totale. Io le davo sicurezza. Non posso lasciarla sola. Stendermi su questa lastra di marmo, la renderebbe più tranquilla. Dormire vicino a lei, amante e figlia mia…

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Un commento

  1. Questo racconto è un viaggio incredibile

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