Appoggiato al parapetto del balcone al quinto piano di un palazzo romano come se ne vedono molti, a torso nudo, cercavo nella tasca dei miei pantaloni l’accendino. In bocca una Marlboro spenta. Trovai l’accendino e mi accesi la sigaretta. Guardai, dall’altro lato della strada, l’orologio sull’insegna di un negozio di ottica. Le due e mezza passate. In quella notte che segnava il passaggio di consegne da maggio a giugno, non ancora estiva e quindi un poco frizzantina, con l’aria che mi punzecchiava la pelle nuda, mentre assaporavo il gusto pesante della sigaretta americana, guardavo giù in basso, cercando non so neppure io cosa. Passanti, nessuno. Qualche automobile, certo, tra le quali riconobbi la mia. Luci negli appartamenti dei palazzi intorno, spente, tranne qualche tiratardi e un paio di finestrelle che immaginai fossero quelle del bagno. Alle mie spalle, alle spalle del balcone sul quale fumavo, un appartamento a me sconosciuto fino a poche ore prima.
Appartamento sobrio. Niente concessioni al lusso superfluo. Ordinato quasi in maniera maniacale. Tutto l’opposto di casa mia, disordinata da parere un campo di battaglia.
L’appartamento rispecchiava fedelmente la personalità della sua proprietaria. Rigorosa, austera e anche un tantino triste, almeno così ce la si poteva figurare fino alla sera precedente. Eppure, persona di successo, ammirata e stimata.
Uno dei migliori ingegneri aeronautici d’Europa. Il suo parere era considerato vincolante per molte decisioni.
Vai a capire tu i casi della vita, pensavo. Non avrei mai immaginato di dover trovarmi, un giorno, a fare quelle riflessioni fumando una sigaretta proprio su quel balcone…
Guardai in cielo. Non c’era un granché di luna. Primo quarto. Ma la luce dei fari gialli della strada illuminava efficacemente i palazzi circostanti. Guardai nell’ampia portafinestra sul balcone. Dava su una stanza da letto. All’interno della stanza c’era un letto matrimoniale, di taglio moderno, mai usato, nel senso che la proprietaria lo possedeva da dieci anni e regolarmente vi dormiva tutte le notti, ma, per l’appunto, solo per dormire e non per svolgervi funzioni in linea con l’attributo del letto, ovvero “matrimoniali”, non essendo mai stata sposata e nessun uomo essendo mai passato per quell’accogliente giaciglio. Anche questo, fino a poche ore prima…
Strana, la vita, veramente strana. è vero, sono ancora giovane e magari tra qualche anno non mi stupirò più di molte cose, ciononostante non potei fare a meno di aggiungere, al mio “strana la vita… “, un “… per fortuna”. Sì, perché forse quello che dà un senso a molte cose, molto spesso è frutto del caso o di un’apparente stranezza…
Nell’ampio letto matrimoniale, tra le lenzuola, v’era il corpo filiforme e candido di una donna, non più giovanissima, ma desiderosa, a quanto pare, di recuperare il tempo perduto, a giudicare da quello che mi era capitato quella notte. Trentasette anni ben portati, spesi interamente per la propria carriera e per pochi amici, anzi, per poche amiche, quasi tutte colleghe di lavoro o ex compagne d’università. Poi, molta vita pubblica, di relazioni sociali, più che altro, giustificate dal suo ruolo…
Ma quella sera ebbi a che fare con la donna, non con l’ingegner Irene Cattaneo. Ripensai a tutto il cammino che avevamo fatto prima che le nostre strade s’incontrassero.
Milanese di nascita, ma romana d’adozione, la signorina Cattaneo si era brillantemente laureata ingegnere undici anni prima. Aveva sempre avuto la passione per gli aeromobili e la sua tesi di laurea fu data alle stampe, perché conteneva importanti contributi sulle costruzioni aeronautiche.
Dopo un corso di specializzazione negli Stati Uniti l’ingegner Cattaneo tornò in Italia, dove andò a lavorare in una importante ditta di costruzioni aeronautiche. In breve tempo diventò responsabile del progetto a cui lavorava, battendo una concorrenza qualificata (e anche schivando colpi bassi, credo) e successivamente divenendo direttore operativo di tutti i progetti della ditta. In pratica, in capo a meno di dieci anni, era sua l’ultima parola su tutti i nuovi progetti, ed era lei che si sedeva al tavolo con i rappresentanti militari della Difesa per definire le specifiche dei velivoli ad essa destinati.
C’era, è vero, un risvolto privato non proprio roseo. Riservata per natura, non amava parlare del suo lavoro, ma, in occasioni pubbliche quali ricevimenti, feste, pranzi, etc. , non poteva fare a meno di dire che fosse un ingegnere aeronautico, per lo meno ad uno sconosciuto interlocutore che glielo chiedesse espressamente. Ciò le procurava, nell’immediato, l’ammirazione – di fronte a siffatto genio – dell’interlocutore, il quale, tuttavia, dopo tre domande vaghe sulla professione, scortosi sul ciglio di un baratro d’ignoranza della materia, e quindi incapace di gestire la conversazione e di far colpo con battute ad effetto, salutava cortesemente la signorina, per un congedo momentaneo – definitivo, per buttarsi addosso alla prima persona di sesso femminile, sufficientemente oca e ignorante da stupirsi per le magnificenze della sua professione (in genere rappresentante, ma con conto in banca gonfio e cellulare ultimo modello in tasca).
Il problema era che tale situazione si verificava quasi sempre. Qualche gentile ed educato signore (sposato) aveva il buon gusto di non tirare in mezzo la sua professione per non costringerla a non apparire una mosca bianca, ma sta di fatto che, paradossalmente, il fatto che lei non facesse nulla per apparire meno intelligente di quello che fosse (e giustamente, aggiungo io, perché una donna che, per piacere ad un uomo, debba atteggiarsi a stupida secondo me si umilia) le costava la solitudine. Il suo giro di amicizie, come detto, era molto ristretto: qualche collega, le loro mogli, amiche ed amici di università ed un’amica d’infanzia, anche lei di Milano, sposata a Roma.
Quanto a me… beh, non credo che come carattere ci sia qualcuno più diverso da Irene come me. Ho ventotto anni, mi chiamo Gianluca, di cognome Bianchini e mio padre era un vecchio operaio comunista, che non voleva neppure sentir parlare di stellette e militari. Nonostante ciò, e nonostante avessi assorbito molto del suo pensiero politico, dopo la mia laurea in matematica, presa dopo due anni di fuori corso e con un trionfale novantasei su centodieci (meglio di quanto sperassi), svolsi servizio militare come ufficiale in Aeronautica. Seguendo la mia inclinazione alle scienze matematiche, da un anno lavoravo… in un ministero come impiegato di settimo livello. In pratica la laurea mi era servita solo per partecipare ad un concorso di livello superiore a quello di un diplomato. Per fortuna mi dedicavo, nei tempi morti, all’insegnamento, rigorosamente al nero, in una scuola privata, dell’astratta scienza dei numeri… Cocco di mamma fino alla laurea, approfittai dello stipendio da ufficiale per trovarmi casa in affitto. Un decoroso bilocale da sessanta metri quadri in zona semiperiferica era da quasi tre anni la mia nuova casa.
Ma che c’entra l’ingegner Cattaneo in tutto questo? C’entra, c’entra.
Un mese prima ero venuto a sapere, da un amico che nel frattempo era diventato assistente del proprio relatore di tesi e che lavorava all’istituto di matematica, che il vecchio insegnante di Analisi Matematica avrebbe lasciato l’insegnamento a fine maggio, e avrebbe tenuto la sua ultima lezione l’ultimo venerdì del mese. Dopo, avrebbe intrattenuto vari ospiti e gli avrebbe fatto piacere rivedere alcuni suoi ex-allievi. Siccome era una persona affabile e gentile e di lui avevo molta stima, anch’io avrei avuto piacere a rivederlo.
L’ultimo venerdì di maggio, verso le sei del pomeriggio, quindi, il dottor Gianluca Bianchini fece il suo ingresso nell’istituto di matematica dell’Università. Ebbi modo di salutare il professore, che mi presentò, tra le altre persone, una sua ex studente “che aveva fatto strada”. L’anziano, ma sempre lucido, insegnante mi disse che lei era modesta e non voleva farlo sapere, ma era una mente geniale. Mi presentai. Magra, alta quasi come me, vestito blu, capelli neri raccolti all’indietro, occhiali cerchiati in oro a velare due occhi vagamente viola, anche se non ero sicuro del colore, rossetto appena accennato, mi tese la mano. “Bianchini”. “Cattaneo, molto lieta”. “Eh, l’ingegner Cattaneo è una delle nostre migliori progettiste aeronautiche… “. “Ingegnere? “, dissi io. “Ma siamo a Matematica”… “è vero, ma fino a quindici anni fa io insegnavo Analisi al biennio d’Ingegneria… “, mi disse il professore. “Ah, quand’è così… “, dissi io.
Poi chiesi all’ingegner Cattaneo: “Lei si occupa di aerei, ho capito bene? “. “Sì… “, mi disse, sulla difensiva.
Non avrei potuto desiderare di meglio. “Finalmente conosco qualcuno che progetta aerei. Sono appassionato della materia… pensi che per anni ho collezionato riviste, e, quando ho fatto l’ufficiale in aeronautica, per la prima volta ho potuto vedere un aereo militare da vicino… non si immagina l’emozione… “.
Le si illuminarono gli occhi. Non capivo perché. Adesso lo so: aveva trovato qualcuno che non rimpiangesse, dopo trenta secondi, di averle chiesto la professione. E poi mi ricordavo il suo nome: aveva firmato qualche articolo su qualche rivista specializzata. Adesso mi veniva in mente. Ogni tanto me ne uscivo con qualche “E anche quel sistema d’ala l’ha progettato lei? “. “No, uno della mia équipe, ma l’ho supervisionato io… “. Avevo conosciuto colei che aveva progettato alcuni di quegli oggetti volanti che ammiravo, e la tartassai di domande… finché non credetti di avere esagerato. “Scusami – nel frattempo eravamo passati al tu – se ti ho dato una pessima impressione”, mi risolsi a dirle. “Non vorrei sembrare pedante… “.
“Ma no, figurati che sei stato il primo che non è fuggito quando ho detto di essere un ingegnere aeronautico… ormai mi diverto a contare quanti minuti resistono tutti gli uomini che me lo chiedono. Normalmente tra i due e i quattro minuti, poi svicolano, con più o meno educazione. Un altro mi fece domande per dieci minuti, per cortesia, credo, per non farmi sentire un soprammobile, poi, non sapendo più cosa chiedermi, si adattò a riunirsi a sua moglie, che chiacchierava da venti minuti senza zittirsi mai… ormai non ci bado più… mi fanno due domande per non farmi uno sgarbo, ma poi si sentono a disagio. Ma non è colpa mia, non posso certo dire che sono, che ne so, un’aspirante attrice, a parte che non ne ho l’età, o che ho una palestra d’aerobica… non entro in una palestra da anni… “. Sorrisi, pensando che invece io, tre volte a settimana, esco dall’ufficio per andare in piscina, per non impigrirmi… “Che ci vuoi fare? Anzi, spero di non averti annoiata io… “. Le risposi prontamente: “Ma ti pare? Sarei stato tutta la sera a chiacchierare con te… “. Non so perché, ma le lasciai un cartoncino su cui avevo scritto il mio numero telefonico. Le chiesi poi: “Se la cosa non ti disturba.. io mi permetto di chiedertelo… posso telefonarti qualche volta se mi volessi togliere qualche curiosità tecnica? “. “Perché no? Aspetta, tieni il mio biglietto da visita”, e nel far ciò trasse dalla sua borsetta un biglietto con l’intestazione della sua ditta. C’erano il telefono e il fax dell’ufficio e il suo indirizzo di posta elettronica. “Un attimo, dammi la penna, per favore”. Gliela diedi e sul retro del biglietto scrisse il suo telefono di casa. Erano le nove passate. Le tesi la mano. “Davvero, sono stato molto contento di conoscerti. è sempre difficile trovare persone.. interessanti come te. Non fraintendermi… “. Abbozzò un sorriso. “No, non ti preoccupare. Si vede che sei appassionato d’aeronautica… “. E nel far così si avviò all’uscita dell’istituto. Prima di andar via si girò brevemente per farmi un rapido saluto con la mano.
Qualche minuto dopo salutai l’anziano professore e gli feci gli auguri. Poi uscii dall’istituto e dalla città universitaria in direzione della stazione. Lì, infatti, attendevo per le dieci un paio di amici con i quali sarei dovuto andare in birreria. Mentre uscivo dall’università ripensavo ad Irene. Che mente geniale, pensavo. Eppure mi sembra triste o sola, o forse tutt’e due… mah. Magari non le piace la compagnia maschile. Vai a scoprire che, sotto sotto, è… Ma vaffanculo, Gianlù. La conosci appena e già pretendi di tirare le somme della sua vita… Non ci pensai più. Dall’altro lato della strada c’era l’auto dei miei amici, uno dei quali si batteva il polso sinistro con l’indice destro, ad indicarmi l’orologio. Guardai l’orologio al mio polso. Le dieci e cinque. “E va bene, cinque minuti…. “, dissi io… “E muoviti, che facciamo tardi”, mi rispose lui.
Per tutta la serata, e per il fine settimana successivo, non pensai più a Irene. Il lunedì pomeriggio seguente uscii dal ministero e, dopo venti minuti di metropolitana, ero in piscina. Un paio d’ore più tardi ero a casa.
Il LED della mia segreteria telefonica lampeggiava furiosamente. Non mi chiama quasi mai nessuno…
Feci scorrere all’indietro il nastro. Sette beep. Sette messaggi… ‘Azz… addirittura.
Primo messaggio: Mamma. Mia zia, sua sorella, s’è operata di calcoli renali. Sta bene (Meno male, poi le telefono). Secondo messaggio: a vuoto. Terzo: vedi secondo. Quarto: Federico. Ma che fine hai fatto? è la terza volta che ti chiamo, sono le due e mezza (al lavoro, anch’io devo mangiare… ). Fatti sentire, è per la partita di mercoledì prossimo. Quinto: è la segretaria del centro sportivo, devo pagare la quota di giugno (lo so, ho preso lo stipendio oggi e ho pagato prima di lasciare la piscina). Sesto: ore diciassette, ho vinto un corso gratuito d’inglese se compro venticinque milioni di qualche cosa (non rompetemi le palle). Settimo: “Ciao, Gianluca, sono Irene. Ti ricordi all’università venerdì sera? Sono le cinque e mezzo, adesso. Chiamami, vorrei sapere se ti interessa una cosa per giovedì sera. Ciao”. Click. Giovedì sera? E che sarà mai?
Nel portafogli trovai il suo biglietto da visita. Composi il numero sul retro. Tre squilli. “Pronto? “. “Irene… sono Gianluca. Bianchini. Mi hai lasciato un messaggio in segreteria… “. “Ah, sì, è vero. Scusa, sai, ma uscivo dalla vasca da bagno, ero rilassata e non mi ricordavo neppure… “. “Non ti preoccupare, richiamo dopo… “. “No, no. Aspetta, tanto dovevo comunque fare alcune telefonate. Dunque, giovedì sera, dopo cena, ci vediamo con alcuni colleghi e qualche amica. Se ti interessa, potrai chiacchierare di aeronautica… ti interessava parecchio e mi sono permessa di disturbarti… “. “Ma ti pare… mi farebbe piacere. Piuttosto, sei sicura che non sia io di troppo? “. “No, fa piacere pure a me, scherzi? Altrimenti non ti avrei chiamato. “. “D’accordo, ci sarò. Dopo cena hai detto… alle nove? “. “Nove, nove e mezzo… io mangio presto, alle otto ho già finito, ma gli amici di Roma mangiano un po’ più tardi”. Già. In fondo è di Milano, e lì si mangia un po’ prima. “Dammi l’indirizzo, allora”. Presi carta e penna. Dalle parti di Piazza Bologna, neanche tanto distante da casa mia… “Conosco la strada. Ci vediamo giovedì. Ciao”.
Avevo altri compiti istituzionali a cui adempiere: l’indomani andai a trovare la zia all’ospedale; a dispetto dell’intervento chirurgico di poco più di ventiquattr’ore prima, chiacchierava in una maniera incredibile. Dissi a mia cugina, che aspettava in corsia: “Sta bene, sta bene. Tua madre chiacchiera più di prima… non l’ammazza nessuno”. L’indomani, tour de force: ufficio, piscina, calcetto e, appuntamento istituzionale essendo l’ultimo mercoledì di maggio, la finale di Coppa dei Campioni d’Europa di calcio. Tutti a casa del mio amico Federico, il quale, avendo ampio salone e TV wide-screen, può accogliere un’intera squadra di calcio…
E arriviamo a giovedì: uscito alle cinque dall’ufficio, ero a casa prima delle sei. Mi buttai sotto la doccia e, una volta uscitone, mentre mi asciugavo, cercai qualcosa da mettere. Cravatte? Una, il giorno della laurea. La tenevo come feticcio, più che altro. Sono come mio padre. Non si è mai messo una cravatta, forse il giorno del matrimonio, rigorosamente civile. Basta, niente cravatta. Barba… fatta. Controllai. Appena un velo. Può andare. Mi misi una camicia a righe sottili bianche e celesti sopra a un paio di pantaloni carta da zucchero. Evitai le bretelle rosse. Troppo sovversive… risi. Misi un paio di bretelle blu. Gel, dove sei? Ah, eccolo qui. Sul frigorifero è proprio il posto suo… Mi faccio un caffè. Quello so dov’è: dentro al frigorifero, è un trucco che mi ha insegnato un amico napoletano: serve a mantenere l’aroma. L’importante è non fargli fare umidità, perché si ammuffisce subito. Alle sette ero vestito e mi ero fatto il mio bel caffè. Accesi la TV per vedermi il TG3. Nel frattempo elaborai il pranzo per quella sera. Decisi per due spaghetti alla carbonara. Di sera sono un po’ pesanti, ma non sarei andato a letto presto. Avrei fatto almeno mezzanotte, così quanto meno pensavo… Venti alle nove. Fuori. Feci una rapida scappata al bar tabacchi due isolati appresso perché avevo quasi finito la scorta di Marlboro e poi salii sul mio inseparabile Maggiolino verde, dotato di aria condizionata (basta aprire il finestrino… ). Sarà vecchio, ma ci sono arrivato in Francia, in Svizzera, e ci sono tornato a casa. Chissà se le Fiat ce la fanno, pensai. Sbadato. Mi presento a casa di una signora, e vado a mani vuote… Il chiosco del fioraio aveva la serranda semiabbassata. Lo convinsi a prepararmi un mazzo di fiori. Cosa porto ad una signora? Rassegnato, mi disse: “Dipende. Serata galante? “. “No, un’amica. Riceve alcuni ospiti, tra i quali io… “. Mi preparò un mazzo adatto alla circostanza. Ancora adesso sono convinto che, per vendicarsi, me lo fece pagare il doppio… Nove e dieci. Sotto casa di Irene. Lei stava parlando con alcuni amici sul balcone e mi vide mentre scendevo dall’auto. Salii al quinto piano. Lei aprì. Non ero il primo, non sarei stato l’ultimo. Una decina di minuti dopo arrivò un’altra coppia di amici. Fino a venti minuti alle dieci il campanello di casa squillò. Irene indossava un sobrio vestito grigio, che le arrivava al ginocchio. I capelli erano sempre raccolti, ma qualche ciuffo nero le cascava sulla fronte. Un elegante mollettone le teneva i capelli. Portava sempre i suoi occhiali cerchiati d’oro. Non li usava solo per leggere, quindi. Era miope, come me, del resto, che però uso lenti a contatto. Potei soddisfare molte delle curiosità in materia aeronautica, anche se, per motivi intuibili, non potei sapere molte cose nello specifico, trattandosi di velivoli militari e destinati alla difesa. Più che altro parlammo di vecchi aeromobili, non più in uso, di cui avevo i modelli da bambino e dei quali mi interessava sapere il più possibile. Di quello si poteva parlare liberamente, non c’era più il segreto militare. Gli ingegneri furono molto disponibili e cortesi, e mi dispiacque un poco quando si congedarono, a mezzanotte passata. Ci alzammo tutti per salutare la padrona di casa. Devo dire che Irene aveva un grande senso dell’ospitalità. Non capivo come facesse a sentirsi a disagio un interlocutore con lei… Fui l’ultimo ad andarmene, perché lasciai che gli altri ospiti entrassero, a varie ondate, in ascensore. Sulla soglia di casa tesi la mano ad Irene. “Grazie davvero dell’ospitalità”. Sapevo ancora come comportarmi. Lo stare nel ministero non mi aveva imbarbarito del tutto… Lei non mi prese la mano che le porsi. Mi disse: “Quasi dimenticavo. Torna dentro, c’è qualcosa per te”. Qualcosa? Richiusi la porta. Andò in un’altra stanza mentre guardavo attentamente il mobile portadischi che prima avevo guardato distrattamente, preso dalla conversazione. Ma guarda tu che robetta… L’attenzione ai dischi fu distolta da Irene che tornò con un grosso libro. “Guarda, questo è tuo. è un manuale tecnico, con le specifiche tecniche degli aerei non più in uso né in produzione. Ci sono anche quelli civili, ma per quello sei fortunato. Ce ne sono molti ancora in uso… “. Wow! “Non dovrei permettermi di dirlo, ma sei un angelo… “. “Lo prendo come un complimento da amico… “. “Senz’altro, chi dice altrimenti? “, risposi io. Poi, tornando a guardare il portadischi, le dissi: “Sei un’amante del vinile, vedo… ormai è tutto su CD… “. “Ho anche i CD, ma quelli sono pezzi da collezione”. Guardai. L’intera produzione dei Beatles, Battisti, De Gregori… “Anche De Gregori… “. “Ti piace? “. “Praticamente ci sono cresciuto”. “Guarda qua”. Trasse un biglietto di mezzo a un libro. Lo guardai. “Reperto d’epoca”. C’era scritto: “Milano, 24 Giugno 1965 – The Beatles”. Disse Irene: “Il concerto del Vigorelli”. “Ma ad occhio e croce eri troppo giovane… “. “Mia sorella. Quindici anni più di me. Aveva diciannove anni allora. Mi ha trasmesso la passione… questi dischi li ha comprati lei”. Feci un sorriso. “Cosa c’è di strano? “, mi chiese lei. “No, è che vedendoti… così… “. “Così… ? “. “Lascia perdere, sono uno scemo. Mi ero fatto l’idea che tu amassi solo musica classica, sinfonica… “. Con tono scherzoso mi disse: “Ma per chi mi hai preso? Vieni, guarda…. “. Mi portò in un soggiorno. “Quella la suonavo da ragazza, ai tempi del liceo e dell’università”. Una leggendaria chitarra Eko 12 corde. Ha cresciuto un’intera generazione… “è vero però che ultimamente ascolto poca musica… e mi diverto poco a suonare… saranno un paio d’anni che non suono più… “, disse, con un velo di tristezza nella voce. Tornammo nel salone. Azzardai. “è tanto che non sento i Procol Harum… se non hai niente in contrario mi piacerebbe risentirli… “. “è tanto tempo pure per me… Ma tu che ne sai dei Procol Harum? “. Presi il 33 giri e lo misi sul piatto del giradischi. Il disco era vecchio e si sentiva lo scricchiolio del microsolco sotto il pick-up. “Chiamala nostalgia, se vuoi”, le risposi. Nella stanza si diffusero le note di “A Whiter Shade Of Pale”… chiusi gli occhi. Davvero mi prende la nostalgia? Per una canzone scritta addirittura prima che io nascessi, poi… “Mi sorprendi, sai? “, le dissi, non sapendo cosa dire. “è perché ti fa velo il mio abito. Tu sei educato, e ti interessa il lavoro che faccio. Ma sotto sotto anche tu pensi che io sia fuori dal mondo… “. “Non lo penso affatto, credimi… forse non hai tempo per guardare al resto del mondo, credo… “. “Può darsi che sia così. Ma non è bello sentirsi una bestia rara. Ancora adesso una donna va bene se è poco più di un soprammobile… “. “Ma pure tu, scusa… posso permettermi? “. Mi ero avvicinato a lei. “Vorrei togliermi una piccola curiosità”: “Cosa fai? “, mi chiese. “Nulla. Vorrei vedere il colore dei tuoi occhi. Devono essere belli, ma non si vedono… “. Mi lasciò fare. Le sfilai gli occhiali dal naso mentre lei chiudeva gli occhi. Li riaprii. Erano di un viola intenso, profondo. Un paio d’occhi in cui perdersi. Aveva lo sguardo perso, faceva fatica a mettermi a fuoco. “Sei molto miope? “. “Tantissimo. Farei fatica ad uscire di casa senza occhiali, guidare, poi non ne parliamo… “. “Le lenti a contatto fanno miracoli. Le porto anch’io… “. “E perché dovrei portarle? “. “Beh, perché sono comode, adesso sono anche pratiche… “, trassi un sospiro. “… e poi perché hai due occhi stupendi. Non ne ho mai visti così… “. “Dai, per favore…. “. Arrossì e abbassò lo sguardo. Trovai il coraggio di dirle: “Perché ti umili così? Si vede lontano un chilometro che non sei felice…. “. “Ma cosa ne sai tu… “. Ancora sulla difensiva, pensai. Non sono come gli altri uomini, Irene, avrei voluto dirle. Le passai una mano dietro il capo e le sganciai il mollettone che le teneva i capelli. Con due mani poi glieli mossi un poco per gonfiarli. Liberi, arrivavano sulle spalle e le incorniciavano il volto. Aveva cambiato aspetto. “Guardati, quanto sei bella…. “, le dissi, meravigliato io stesso. “Non prendermi in giro… “. “Dico sul serio, Irene. Guarda, lì c’è lo specchio. “. Si voltò e ci si avvicinò quasi a toccarlo, perché non distingueva i contorni del suo viso. Si passò una mano in mezzo ai capelli mentre si guardava. Giocò a lungo con le loro punte. Si voltò verso di me. “Non è bello, sai, farsi gioco di una donna… “, disse. “Ma non mi faccio gioco di te. Ti ho detto la verità… Sei molto bella, e tu fai di tutto per soffocare la tua bellezza. Perché lo fai? “. Sospirò. Si sedette. “Perché, perché… non mi capiresti, tu sei un uomo. Persone come me, che fanno quello che fanno, non hanno sesso. Ho smesso di essere una donna, sono solo un ingegnere asessuato. Non mi posso più permettere di essere altro. Se faccio un errore è l’emotività femminile che me lo fa fare. Per andare avanti devo dimostrare di essere brava il doppio di un collega… Ormai credo di essere solo un corpo, non più una donna. Non ho relazioni da più di dieci anni, sono bandite dalla mia vita. E anche gli uomini… mi vedono solo come uno di loro, con la differenza di portare la gonna. E anche se non l’ammettono pensano: ‘Brava, per essere una donnà… “. Mi ero avvicinato a lei. “Non io”, le dissi, e con le mie labbra sfiorai le sue. “Cos’hai fatto? “. “Ti ho dato un bacio leggero, niente di eccezionale. Si fa, è normale, magari l’hai già fatto, ti ricordi? Non mi dire che non hai mai baciato… “. Mi guardò. Si rialzò e mi si avvicinò. Mi disse: “Ma davvero mi trovi bella? Non mi stai prendendo in giro? “. “Parola di giovane pioniere… Sei bella e straordinaria. “, risposi. Due lacrime, piccole, le spuntarono dagli occhi lucidi. “è tanto che un uomo non mi fa un complimento… “. “Due occhi così non dovrebbero mai piangere… “, risposi io. Ma mi ero avvicinato oltre il punto di non ritorno. Come due poli opposti di un magnete, entro una certa distanza, si attraggono inesorabilmente, il mio viso era talmente vicino al suo che, anche se avessimo voluto tornare indietro, non ci saremmo riusciti. E, al punto in cui ci trovavamo, non volevamo tornare indietro. Di conseguenza il bacio fu inevitabile. Dapprima freddo, quasi distaccato, poi sempre più caldo. La sua lingua cercò la mia, le si intrecciò, descrisse impossibili traiettorie dentro la mia bocca. Mi abbracciò. Le sue mani si infilarono sotto la mia camicia, carezzarono il mio petto, si strinsero sulla mia schiena. Potei sentire le sue unghie affondarvi, come ad implorarmi di non staccarci da quell’abbraccio. Tenendomi abbracciato a lei, si staccò da quel bacio e mi disse: “Mi hai fatto sentire i brividi…. “. “è grave? “, le risposi. “Gravissimo. Adesso cosa faccio? Mi hai lasciato la voglia di te addosso… “. Ma guarda un po’. Fredda e razionale… Si gettò di nuovo sulla mia bocca, quasi assalendomi. Dopo un minuto abbondante mi prese per mano e mi condusse alla sua stanza da letto. Si girò: “Vuoi farlo tu? “. Le tirai giù la cerniera lampo del vestito. Le cadde e rimase solo con la sua biancheria intima. Spense la luce. “Scusa, mi vergogno un po’. In queste cose sono un po’ all’antica… “. Mi fece scivolare giù le bretelle e mi tolse la camicia. Si chinò per sbottonarmi i pantaloni e nel far questo mi baciò sul petto, facendovi scorrere la sua lingua e procurandomi un lungo brivido. Dopo un poco fui completamente nudo, e lei si sdraiò sul letto: “Vieni qui, cosa fai in piedi? “. Andai sul letto, e Irene si fece togliere il reggiseno e, alla fine, i suoi slip in pizzo. Una volta completamente nuda, mi disse: “Adesso non voglio più pensare a nulla… solo a me, per una volta. “, e, nel dire ciò, mi abbracciò di nuovo e le sue mani iniziarono una lunga ricerca sul mio corpo. Sembrava volesse ricordarsi di come fosse fatto un uomo. Nel frattempo, nel mio girovagare con le mie mani, ero arrivato alle porte delle sue parti intime, inviolate da lungo tempo. Mi accorsi che era già ampiamente umida, per cui potei carezzarla senza intoppi. Le mie dita scorrevano sulla sua clitoride e lungo le labbra della sua vulva, e lei reprimeva gemiti di piacere. Era misurata anche in quei momenti. Senza parlare mi fece passare su di lei e, tenendo il mio membro nella sua mano, se lo guidò tra le labbra della sua vulva: “Voglio sentirti… è tanto che non appartengo più a un uomo… “, mi disse. La penetrai dolcemente, e lei, quasi a voler accogliermi, mi strinse le gambe intorno al bacino. Assecondava il mio movimento ritmico dentro di lei, respirando in sincronia. “Non fermarti, non ora, ti prego… “, mi diceva, mentre mi accarezzava il viso e mi baciava. Non mi fermai. Il mio orgasmo arrivò pochi secondi dopo il suo. Non urlò. Evinsi il suo orgasmo dal respiro sempre più affannoso e dal lungo gemito che fece. Visto che anch’io ero in preda all’orgasmo, feci per uscire, ma lei mi bloccò, continuando a stringermi il bacino con le gambe. “No… non andartene… vienimi dentro, continua così…. “. Nel mentre le lasciavo il mio sperma abbandonò la testa all’indietro con un altro gemito. Rimasi sdraiato bocconi sul letto mentre Irene, che nel frattempo si era tolta da sotto di me e si era sdraiata con il suo viso sulla mia schiena, mi disegnava con le unghie un’improbabile carta geografica dietro le spalle. “Sei stato veramente bravo”, disse Irene. “Bravo? “, dissi io, ancora sotto il piacevole effetto soporifero dell’orgasmo. “Non avevo mai fatto l’amore in questo modo… sei stato travolgente”. Ripensai alle storie che ebbi avuto in passato: “Per la verità questo è il modo MIO di fare l’amore… “. “Allora, se fossi la tua donna, non ti lascerei scappare… “. “Per favore, Irene, adesso sei tu a prendermi in giro… “. “Però devi perdonarmi, sai? “. “Perché? “, chiesi io. “Perché… praticamente ti ho usato. Scusami, ma era tanto tempo che… “. “Non devi scusarti. Andava pure a me. E poi anche tu sei stata travolgente… Nessuna donna mi ha mai fatto l’amore in maniera appassionata come te… “. Ma come parli, Gianluca? “Appassionato”… mi sorpresi. “Dici sul serio? “. “Perché, secondo te scherzo? “. Nel mentre diceva queste parole, la sua mano era corsa tra le mie gambe, e con la punta delle dita stava giocando con i miei testicoli. Il suo tocco leggero mi faceva rabbrividire, e ben presto fui di nuovo eretto. Ma stare bocconi mi procurava dolore al membro e fui costretto a girarmi. “Non si fanno questi colpi bassi”, dissi a Irene. “Non so se ce la farei di nuovo… “. “Adesso lo vedremo”, mi rispose. Mi salì sopra a cavalcioni, e si fece sparire tutta l’asta nella sua vagina. Questa volta era lei che conduceva il ritmo. Si piegò su di me e mi offrì la sua bocca, che baciai avidamente a lungo. Il mio viso era ricoperto dalla sua bella, lunga chioma, e il tocco dei suoi morbidi capelli mi eccitava ulteriormente. Mi afferrò le mani con le sue e ci si fece forza. Sentivo che da un momento all’altro sarei nuovamente esploso dentro di lei. Lei se ne dovette accorgere, perché disse: “Resisti, non è il momento. Ti voglio sentire ancora… “. Mentre Irene mi cavalcava resistetti, poi vidi che lei si stava per abbandonare all’orgasmo con gemiti prolungati e allora lasciai che il mio seme entrasse in lei di nuovo. Rimase ritta, come a gustarsi il mio caldo liquido riempirle la vagina, poi si abbatté su di me di schianto, baciandomi di nuovo la bocca: “Se fai così mi fai morire, tutto questo sesso in una volta… “, mi disse, con il respiro mozzato. “Sei stupendo… “, e mi carezzò i capelli. Per fortuna sono dotato di una buona dose di autoironia e non mi prendo mai troppo sul serio. “Veramente, tutto questo sesso rischia di fiaccare pure me… “, le dissi con un sorriso. “Non ho mai fatto l’amore con un ragazzo più giovane… anzi, per dir la verità non ho avuto molte occasioni di fare l’amore… “. “Se è per questo neanch’io l’ho mai fatto con una donna più… “. Mi fermai. Non volevo dire “vecchia”, o “anziana”, mi sarebbe sembrato offensivo. Lei capì. “Ti ringrazio per la delicatezza. Diciamo più matura, ecco…. “, fece. Mi scese da sopra e si sdraiò sulla pancia. Vidi il suo profilo perfetto. Le carezzai la schiena con una mano. “Però, per essere tanto tempo… “, ripresi, ma non mi fece finire la frase. “Me la cavo bene? Non ho dimenticato come si fa. Ho dimenticato le sensazioni che si provavano, quello sì. Ma non me le ricordo perché nessuno mi ha dato le sensazioni che mi stai dando tu… Credo che queste non me le dimenticherò facilmente… hai un tocco che mi fa impazzire… non sono mai andata fuori di testa così…. “; disse ciò perché nel frattempo la mano si era spostata dalla schiena per carezzarle i fianchi, i seni, l’interno delle cosce… il suo corpo aveva ripreso a vibrare. “Ti avevo detto che credevo di essere ormai solo un corpo, e non più una donna? Adesso sento di nuovo il piacere di essere desiderata… ti prego, prendimi ancora… “. Rimanendo sdraiata dischiuse ulteriormente le sue gambe, offrendomi di nuovo la sua vulva, lucida, gonfia e umida. Non sapevo se ce l’avrei fatta, visto che due orgasmi in mezz’ora mi avevano sfiancato, e feci per dirle: “Ma… “; “Ti prego, fammi tua… non dirmi no… magari un giorno ci ameremo, chi lo sa, ma ora voglio te… il tuo corpo… Voglio essere completamente tua questa notte… “. Non potevo dire di no. Le fui alle spalle e la presi senza sforzo. Mentre la penetravo la baciai sul collo, spostandole i suoi bei capelli neri per scoprirlo. Le dissi all’orecchio: “Sembri nata per fare all’amore… “. Non mentivo. Sembrava insaziabile. Non so quale fuoco animasse Irene dentro, so solo che era la terza volta in poco più di un’ora che mi si concedeva, e il suo desiderio non diminuiva, anzi…. “è stupendo sentire il tuo corpo sul mio… “, mi disse. “Dimmi che sono tua, ti prego… “. “Sì, sei mia…. Sarai mia tutta la notte, se vorrai…. “. Gemeva ed ansimava: mentre la possedevo la carezzavo in tutte le parti del corpo…. Questa volta non riuscii ad assecondare il suo orgasmo: lasciai che venisse lei, ma non potei fare lo stesso io… “Non mi vuoi più? “, mi disse allora. “Non ti voglio? Adesso che ti ho avuto ti desidero più di ogni altra cosa… “, le risposi, baciandola. Sotto la sua crosta di ghiaccio c’era un vulcano in continua ebollizione e io ero riuscito, quasi per caso, ad aprirmi un varco… “… ma non sono d’acciaio, Irene. Dammi il tempo di riprendermi…. “. “Hai ragione…. “. Si rotolò tra le lenzuola, felice. Aveva un’espressione che non le avevo mai visto. Si rannicchiò e prese sonno quasi subito. Rimasi a guardarla cinque minuti buoni, poi, quando fui sicuro che dormisse, mi infilai i pantaloni ed uscii sul balcone a fumarmi una sigaretta. Nel pieno di questi ricordi ero arrivato alla mia terza Marlboro. Sentii un leggero rumore di passi felpati. Era Irene, che era uscita sul balcone a piedi nudi, vestita con un lenzuolo, come una vestale romana… Allungò una mano verso il pacchetto di sigarette sul parapetto e ne prese una. Gliela accesi ed accesi anche la mia. Aspirò la prima boccata e tossì leggermente. “Pesantuccia… “, disse. Con la seconda boccata andò meglio. Mentre guardavo fuori mi si strinse addosso. “Non mi giudicherai male, adesso, vero? “. “Perché dovrei? “. “Non so, mi conosci appena, e già… “. “No, io non giudico nessuno, tantomeno te. Se siamo arrivati a questo punto è perché l’abbiamo voluto entrambi. Non so se questa storia tra di noi avrà un seguito, ma non mi pento di viverla perché sei una donna straordinaria… in tutto. Hai incontrato gente che non ha capito niente di te… Nessuna donna mi ha dato quel che mi stai dando tu. Sei una donna intelligente e tenace… e adesso ho scoperto che sei l’amante che tutti vorrebbero avere… ma non era facile scoprirla. Io l’ho cercata con pazienza… “. “Tu l’hai trovata e adesso questa donna è tua… “, mi disse, baciandomi sensualmente l’orecchio e poi sussurrandomi: “Hai toccato le corde del mio desiderio. Hai risvegliato i sensi del mio corpo. Hai ragione, tra le tue braccia mi sono scoperta una calda amante… e lo sarò solo con te, tutta per te, tutte le volte che mi vorrai… “. Cosa può desiderare di più un uomo, quando sente una donna dirgli queste parole? L’abbracciai, perdendo il mio viso tra i suoi capelli neri e carezzandola sulle spalle nude. Aveva la pelle d’oca. “Ma tu hai freddo…. “. Mi prese per mano. “Molto freddo. Da tanto tempo. Vieni. La notte è ancora lunga, hai abbastanza tempo per riscaldarmi, amore… “. Era la prima volta, in tutta la serata, che mi chiamava “amore”. In quel momento capii che sarei tornato spesso in quella casa, dopo di allora. Non sarebbe stata l’avventura di una notte. Non mi sbagliavo… FINE
