“Arrivederci e… buon viaggio ! ” disse la vocina elettronica.
“Mavaffanculo… ”
Estrassi la carta di credito dalla fenditura in cui avevo inserito anche il cartoncino per il pagamento del pedaggio autostradale.
Ero notevolmente incazzato, senza un particolare motivo, ma ero incazzato.
Conoscevo quella strada da dodici anni, la facevo almeno una trentina di volte l’anno per andare a trovare mia madre sulla Riviera Adriatica, a Riccione, l’avevo fatta ad ogni ora e con ogni condizione climatica; mi misi nella corsia di sorpasso assestandomi sui centotrenta, centoquaranta l’ora.
La mia mente viaggiava più veloce di me, ed avevo come compagna di viaggio una strana consapevolezza, mi sentivo quasi un fuggiasco, e così era, probabilmente.
Scappavo da uno stato di cose che mi avevano quasi trascinato sull’orlo di un esaurimento nervoso; il lavoro che non procedeva come avrei voluto, una situazione economica che versava in pietose condizioni e per finire, quella che consideravo la donna della mia vita, senza colpo ferire aveva messo fine ad un rapporto che durava da un anno e mezzo.
In due parole ero incazzato nero.
Dopo mezz’ora che procedevo a ritmo quasi forsennato mi venne fame, volevo fermarmi a mangiare qualcosa, e il fatto di essere ormai a Foligno mi fece venire in mente di telefonare ad Alessandra.
“è libero… ” pensai dopo aver composto il numero del suo cellulare.
“Pronto… ”
“Ciao… hai programmi per il dopocena ? ”
“Ciao… come, dopocena, perché, sei a Perugia ? ”
“Non ancora, dovrei essere lì tra una quarantina di minuti, al massimo un’ora, hai da fare, ci vediamo ? ”
“Sto finendo di catalogare alcune centinaia di analisi, ma dovrei farcela in una mezz’oretta, poi dovrei passare un attimo a casa a mangiare qualcosa… che ore sono adesso ? ”
“Le otto… ”
“Dunque, esco alle otto e mezza otto e quaranta, passo a casa… si, va bene ! ”
” Allora facciamo alle nove e mezza ? ”
“Si, le nove e mezza va bene, dove ? ”
“Dove ci vedevamo una volta… ”
“Al Tevere ? ”
“Si, nel parcheggio… ”
“Ok, allora alle nove e mezza là… ”
“A dopo… ”
Eravamo stati insieme dodici anni prima, per quasi un anno.
Alessandra aveva tre anni più di me ed era stata la mia prima donna, nel senso biblico del termine.
La lasciai l’estate successiva a quella in cui ci conoscemmo, mi sorprese a flirtare con un’altra ragazza e mi presi il primo degli unici due schiaffi della mia vita sentimentale.
Da allora, a parte un paio d’anni in cui non ebbi più sue notizie, abbiamo sempre continuato a sentirci ed è rimasto tra noi un forte legame di amicizia.
Da qualche anno era la mia confidente delle gioie e dei dolori dei miei rapporti amorosi, mi aveva sentito innamorato o deluso, triste o allegro, felice o a pezzi, ma era sempre stata in grado di essermi vicina.
Da Alessandra imparai tutto quello che sapevo sulle donne, fu lei che mi insegnò tutti i segreti del corpo femminile, come aprire le porte del loro e del mio piacere.
Mi iniziò all’amore, fu la prima alla quale dissi “ti amo”, e la prima per la quale provai sentimenti più forti dell’amor filiale.
Il sesso, l’amore fisico, la scoperta dei corpi furono i doni della vita che lei per prima mi fece scartare e apprezzare, ed erano cose che mai più avrei dimenticato.
Tante volte mi avevano detto, nel corso degli anni, che ero un ottimo amante o che sapevo toccare i punti giusti del corpo di una donna, a quelle parole rispondevo dicendo che di tutto questo avrebbero dovuto ringraziare una certa Alessandra di Perugia, era lei che mi aveva insegnato tutto…
Qualche anno fa, addirittura, passammo il capodanno insieme nel suo casale nella campagna perugina, lei con il suo ragazzo dell’epoca, io con la mia ragazza e altri amici.
Cominciai così, a considerarla come una vera amica, non più solo una ex-fidanzata, ma una persona alla quale potevo nonostante tutto volere bene.
E da allora, quando passavo per Perugia per andare a trovare mia madre e non andavo di fretta, mi fermavo a trovarla per fare quattro chiacchiere.
Il suo affetto era immutato, lo sentivo, e sentivo distintamente il bene che mi voleva, anche se, spesso le sue allusioni erano, per così dire, ben poco velate.
Deruta, il paese delle ceramiche, quante volte ero passato per quella strada e visto i negozi con i cocci e i vasi di terracotta all’esterno.
Mi rivedevo piccolo, sul sedile posteriore della macchina di papà, con la faccia incollata al finestrino.
“Quanto manca papà ? ”
“Siamo quasi arrivati… ”
Quella era la mia domanda ricorrente, e l’altra, la sua solita risposta.
Mancavano pochi chilometri a Perugia e più di tre quarti d’ora all’appuntamento.
Mi fermai in una specie di autogrill, e mangiai distrattamente una specie di piadina calda con verdura e formaggio.
Una signora di mezza età, piuttosto scollacciata, mi guardava da dietro al bancone sorseggiare la mia Coca-Cola.
Rientrai in macchina.
C’erano momenti in cui mi sentivo strano, solo e abbandonato a me stesso, mi sentivo diventato improvvisamente grande senza aver avuto il tempo di rendermi conto di cosa volesse dire e di cosa dovessi fare, e quello era uno di quei momenti.
Pensai a mio padre, e agli errori che probabilmente non avrei fatto se lui ci fosse stato ancora ad insegnarmi la strada.
Mi mancava. Molto.
Alle nove e venti ero nel parcheggio dell’albergo Tevere, vicino allo svincolo della Superstrada per Cesena.
Chiuso in macchina, ascoltavo Pat Metheny, abbandonato sullo schienale leggermente reclinato e la testa appoggiata sul poggiatesta fissavo il cielo limpido e stellato.
Una Y10 parcheggiò di fianco alla mia auto e ne scese una ragazza, era carina, non troppo alta, capelli corti e castani, mi sorrise con i suoi grandi occhi verdi ed entrò nella mia Peugeot.
“Come stai ? ”
“Dire bene sarebbe troppo, dire male troppo poco, diciamo che sopravvivo… ”
“Mi ha fatto piacere che ti sei fermato a salutarmi… ”
“Avevo voglia di fare due chiacchiere… a te come va ? ”
“Mah, diciamo abbastanza bene, non ce la faccio più a stare a casa con i miei, ma non ho abbastanza soldi per andare a vivere da sola… ”
“E tutte le tue rendite ? ”
“Ma quali rendite… ”
Parlammo per un quarto d’ora, le raccontai tutta la mia storia degli ultimi cinque o sei mesi, il lavoro, i soldi, la ex, poi il nervosismo tornò a galla, mi rabbuiai quasi senza motivo.
“Che ti prende ? ”
“Niente, sono solo nervoso, ho bisogno di rilassarmi un po’… ”
“Lo so io cosa ti ci vorrebbe… ”
“Staccare la spina, un mese di riposo assoluto a casa da mamma, mangiare, bere, dormire, leggere qualche libro e ascoltare musica classica, ecco cosa mi ci vorrebbe… ”
“Si, questo si, ma io intendevo un’altra cosa… ”
“Cioè ? ”
“Cioè una cosa che ti piace tanto… o almeno una volta ti piaceva tanto… ”
“Alessandra, stai scherzando spero ! ”
“Niente affatto… ”
“Dai, piantala… non sono in vena… ”
Alessandra mi guardava con uno sguardo che mi parve di riconoscere, una strana luce le si accese negli occhi ed un sorrisetto malizioso le faceva inarcare le labbra.
Mi accorsi della sua mano sulla mia coscia e la guardai stupito, anzi, basito.
Il parcheggio era buio, davanti alla macchina c’era una siepe alta un paio di metri, alle nostre spalle, spostato di un ventina di metri, c’era l’entrata dell’Albergo Tevere.
Mi guardai intorno, mentre la mano di Alessandra già si strofinava sulla mia patta.
“Ma sei sicura che… ”
In risposta, mi slacciò la cintura, sbottonò il primo bottone, e lentamente, guardandomi, tutti gli altri.
Il nervosismo stava lasciando il posto all’eccitazione, osservai quelle mani aprirmi i jeans e accarezzare la mia erezione.
Non feci nulla, guardai senza oppormi, quello che mi stava facendo.
Alzai il bacino per farmi sfilare i pantaloni.
Mi guardò ancora con quel sorrisetto malizioso. Infilò una mano nei boxer.
“è ancora bello grosso come me lo ricordo io… ”
La guardai.
Quella mano piccola che ora mi stava masturbando era la stessa che dieci anni prima, sulla spiaggia di Riccione mi aveva spogliato e che aveva direzionato il mio sesso all’interno di un mondo per me ancora sconosciuto.
Quelle mani erano le stesse che mi avevano aperto le porte del piacere fisico che non fosse, per così dire, auto provocato.
Vedevo il glande essere coperto e scoperto lentamente, Alessandra si avvicinò con le labbra dischiuse in un bacio.
“Ciao, era un pezzo che non ci vedevamo eh ? ” parlava con il mio “fratellino”, come lo chiamava lei, come faceva, giocando, tanti anni prima.
“Come lo trovi ? ” risposi stando al gioco che mi stava facendo eccitare, oltre che tornare indietro nel tempo.
“Quasi non me lo ricordavo così grosso ! ”
Lo baciò a fior di labbra, poi tirò fuori la lingua e ne leccò la punta.
Abbandonai la testa sul sedile, cercando sempre di guardare le evoluzioni di Alessandra sul mio cazzo teso.
La prima volta che mi fecero un pompino fu in una camera d’albergo, e fu proprio la sua, la prima bocca di cui sentii l’umido calore.
Fu una sensazione paradisiaca.
Dopo aver guardato tanti giornalini pornografici, finalmente provavo anche io quella straordinaria sensazione.
Mi sentii grande, più grande anche dei diciotto anni che dissi ad Alessandra di avere, quando in realtà ne avevo appena compiuti sedici.
Vedevo finalmente una ragazza leccare il mio sesso, come quelle delle foto che avevano alimentato le mie solitarie masturbazioni adolescenziali.
A tutti quelli che ne parlavano male, ricordavo la frase di Woody Allen:
“Non condannate la masturbazione, è fare del sesso con qualcuno che stimate veramente”.
La bocca di quella che era stata la mia prima donna ora andava su e giù, con le labbra serrate, sul mio sesso.
Godevo di quella situazione, godevo dell’inaspettato e della possibilità di non dover ricambiare.
Alessandra mi aveva insegnato il non essere egoista nel sesso, ma sentivo che quella volta non mi avrebbe redarguito se un po’ lo fossi stato, quella volta, con lei.
Non la toccai, e lei rimase vestita, come quando era entrata nella mia auto.
Era strano vederla così, china su di me, con la testa muoversi sul mio cazzo, e le mani a masturbarmi e ad accarezzarmi i testicoli.
Anni fa ci rivedemmo a Roma, lei era di passaggio, ed io la invitai a pranzo a casa.
L’atmosfera, dopo pranzo, si fece strana, sarebbe bastato pochissimo perché succedesse qualcosa che forse una parte di me si aspettava che succedesse.
Le feci vedere la cicatrice dell’operazione di appendicite perché mi sembrava troppo rossa e in rilievo.
Non successe nulla.
Mi sembrò improvvisamente tutto così strano e anacronistico, talmente fuori luogo e fuori tempo che… che mi rivestii cambiando argomento e scherzando vistosamente.
Mi vennero in mente immagini di tanti anni prima, quando nei weekend prendevo il pullman e andavo a casa sua a Perugia.
Le notti insonni trascorse a fare quel sesso che per me sedicenne era ancora una cosa incredibile, le giornate passate a baciarsi e a toccarsi, quella passione travolgente che ingenuamente avevo scambiato per amore.
Ma così lo voglio ricordare, un amore.
Un amore che non c’era più.
Per questo quel giorno mi rivestii, non avrebbe avuto senso fare del sesso se, anche lontanamente c’era il ricordo di un amore
Quella sera invece non ero riuscito a mantenere il controllo della situazione.
Alessandra mi guardò.
“Sei rimasto lungo con i tempi eh ? ”
“Come al solito… ”
“Si, mi fa male già la mascella… ”
Leccava la parte più sensibile masturbandomi sulla lingua, muovendo la mano sempre più velocemente.
Sorpresi la mia mano appoggiarsi sulla sua nuca.
Feci una leggera pressione e il cazzo scivolò in un attimo in fondo alla sua gola, rimase così qualche attimo e sentii la sua lingua giocare intorno all’asta, poi lo fece uscire aspirando rumorosamente ed incavando le guance.
Accompagnai la sua testa di nuovo giù, a farlo sprofondare, facendole capire il ritmo che mi avrebbe fatto venire.
Muovevo il bacino in controtempo con gli affondi delle sue labbra.
La stavo scopando in bocca.
In quel momento volevo solo godere, ogni muscolo era in attesa di quello stimolo che avrebbe scosso il mio corpo nella “piccola morte”, ogni nervo ascoltava l’approssimarsi dell’istinto primordiale.
Chiusi gli occhi ed esplosi.
Schizzai nella sua bocca, uno, due, tre fiotti di sperma le si riversarono nella gola, godevo e godevo solo, quasi fosse una masturbazione, mentre Alessandra continuava a succhiare e ad ingoiare il mio seme, a suggermi il liquido vitale.
Quando li riaprii la vidi ancora lì, con il mio sesso tra le labbra e quasi ebbi un moto di ripulsa.
Volevo riappropriarmi di me stesso, e lei lo aveva ancora tra le mani.
Volevo che scomparisse, e nello stesso momento in cui formulavo questo pensiero egoista e maschilista mi odiavo profondamente per quello che avevo permesso che accadesse.
Volevo non essere lì, ma i miei pantaloni tra le caviglie e i boxer alle ginocchia testimoniavano quello che non avrebbe dovuto essere.
“Era tanto che non lo facevi ? ”
“Un mesetto, da quando mi sono lasciato… perché ? ”
“Era tantissimo… ”
“Buono ? ”
“Caldissimo e un po’ salato… ”
Non sapevo come fare per trasformare quella situazione.
Mi vedevo sulla Superstrada E45, già nei pressi di Fano, non volevo più essere lì, con il cazzo floscio tra le mani di una donna che era stata qualcosa per me, era.
Il nervosismo non era svanito con l’eiaculazione, era stato solo un banale miraggio, una parentesi che si era richiusa non senza conseguenze per il mio stato d’animo.
Ed ora ero tornato alla realtà. FINE
