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Betty, our whore

Ma che…? Non può essere! Mi infilo gli occhiali per vederci meglio. Ed è proprio lei, Elisabetta, Lisa come la chiamavo io. Non sono mai stato un fruitore di porno in internet. Ma in quest’estate afosa mi son fatto prendere… Apro per caso un sito che non conoscevo. Ci navigo dentro e vado a finire dentro una sezione strana: Underground brothel. Ci sono vari video. Ne apro uno e la vedo sdraiata su un materasso buttato a terra, dentro uno stanzino delimitato da un muro sporco e da pareti fatte di stoffa. È completamente nuda. Con le mani si copre seno e fica. Entrano tre uomini. Due giovani e un panzone barbuto. Uno dei giovani l’afferra per i capelli e quasi la solleva di forza, costringendola a sedersi all’indiana. Le grida qualcosa che non capisco: insiste nel chiamarla «kurva», o «kurve», qualcosa del genere. Ma a un certo punto capisco bene che le dice pure, in inglese: «Get ready, bitch!», mentre le porge una bottiglia, non vedo bene se di grappa, o di whisky, o chissà di cosa. Lei beve una lunga sorsata. Poi si alza e si riabbassa, prona, a pecora. Il panzone le si para davanti e le caccia il cazzo in bocca. L’altro più giovane si inginocchia dietro di lei e comincia a stantuffarla. Non parlano, ma si sentono i colpi che le danno, gli schiaffi sul culo e in faccia. Quello con la bottiglia esce fuori campo, scostando una tenda. E la lascia lì con quei due che la scopano come una cagna. La girano e la rigirano come un calzino. E lei sempre zitta, ogni tanto un gemito. Manco dieci minuti e i due gridando forte finiscono per sborrarle addosso, dove capita: sul seno, in faccia, sui capelli ricci e corvini. Si rimettono il cazzo nei pantaloni e subito rientra l’uomo con la bottiglia. La riporge a Lisa, che tira un altro sorso, mentre si asciuga di dosso la sborra con una tovaglia. I due escono ed entrano altri due ragazzi, la telecamera inquadra per un attimo una fila di gente in attesa di entrare. E il video sfuma.

Lo rivedo tante volte. E mi accorgo finalmente che l’uomo con la bottiglia l’ho visto già. Sì, ma dove? E dove si trova Lisa in quel video datato 27 dicembre 2010? Bho! Certamente non a Sicilia, dove all’epoca stava con la sua famiglia, o a Roma dove c’eravamo conosciuti e lei aveva frequentato l’università. Mi viene l’impeto di telefonarle. Ma mi fermo: ora è sposata, avrà forse dei figli, vive in Romagna, non la sento da un sacco di tempo, senza volerlo potrei combinarle un casino.

Mi rimetto a visionare il video. Ne cerco altri, chissà che non la rivedo e possa capire meglio. Niente: ce ne sono di simili, ma con altre ragazze: stessa location, stesso trattamento. Allora mi concentro sul giovane della bottiglia, un tipo magro e biondiccio, con i capelli raccolti dietro a codino. E finalmente ricordo: l’avevo visto in Inghilterra, dove Lisa era andata nel 2011, subito dopo la laurea, per andare a lavorare e a imparare bene la lingua. La sera del mio arrivo a Londra, lui aveva accompagnato in macchina Lisa per venirmi a prendere in aeroporto. Poi avevamo bevuto assieme, tutti e tre, birra in un pub, particolare stranissimo per quanto riguardava Lisa, dato che sino ad allora era stata totalmente astemia. Ma manco il tempo di fare conoscenza con quel tipo, che quasi venivo alle mani con lui, perché a un certo punto della serata – approfittando del fatto che m’ero recato in bagno – le aveva dato una sonora pacca sul culo, così, senza ritegno, davanti a tutti e sapendo che in ogni caso di là c’ero io, il ragazzo di Lisa. La mano poi gli si era letteralmente infilata nel bel mezzo dei glutei di Lisa: non ci avrei creduto se non avessi visto tutto proprio tornando dal bagno, mentre appoggiati al bancone del bar mi davano le spalle. Lisa per giunta s’era presentata ad accogliermi con un tubino bianco attillato e cortissimo: coprivano più carne gli stivali neri in lattice che le fasciavano le gambe fin sopra al ginocchio, che non quel vestitino trasparente sotto cui certamente non c’era il reggiseno. Ma quando l’albanese aveva affondato la mano sotto il suo cavallo, m’era diventato evidente che Lisa non portava nemmeno il perizoma. Lei aveva accolto l’affondo dell’albanese remissiva, senza scostarsi, permettendogli di frugarle il culo col taglio della mano. Io, alle loro spalle, avevo gridato: «Ma che cazzo?». E solo allora lei era sobbalzata e mi aveva guardato terrorizzata, senza fiatare. «Che cazzo fai?», avevo di nuovo gridato in faccia allo stronzo, spingendolo indietro. E lui, per evitare la rissa, mi aveva detto in inglese una cosa che lì per lì non avevo capito: «Keep calm, Betty is used to it anyway», che sta pressapoco per: «Stai calmo, Betty c’è abituata». E, rivolto a lei, aveva detto: «Don’t worry, Betty. I’m sure he’d love to know what you can do», «Non preoccuparti, Betty, sono sicuro che gli piacerebbe sapere cosa sai fare». O qualcosa del genere: comunque ricordo bene tutta la scena, perché mi incazzai veramente. Lo strattonai e lo mandai affanculo.

Poi chiesi conto e ragione a Elisabetta: come le era saltato in mente di venire in macchina, vestita in quel modo, con uno che si pigliava quelle assurde confidenze? da quanto tempo faceva la troia con quel porco? Lei dapprima tentò di giustificarsi dicendo che s’era vestita così solo per me, per stuzzicarmi l’appetito. Poi si chiuse in un mutismo impaurito, anche se, poco dopo, giunti nella sua casa, e nei giorni successivi, non facemmo altro che scopare come ricci. Aveva una foga irrefrenabile, come se volesse dimostrami che era tutta a mia esclusiva disposizione. E usava ogni volta due enormi cazzoni di gomma: glieli aveva procurati un’amica, almeno così diceva. «Vedi cosa so fare?», mi sussurrava ogni tanto: ma io non collegavo la frase a quel che le aveva detto quello stronzo d’albanese, né mi facevo tante domande, solo godevo della sua troiaggine, presumendo di esserne l’ispiratore. E mentre le sfondavo il culo, infilandole contemporaneamente nella passera il vibratore più grande, una volta ebbi persino il pessimo gusto di suggerirle di telefonare al suo amico albanese, per fargli fare la parte del vibratore. Lei si era voltata per un attimo, rispondendomi con un tono di sfida: «Se vuoi, lo chiamo. Gli farebbe solo piacere». Avevo replicato incuriosito: «Ma a te, farebbe piacere?». E lei, languida: «Io in questi giorni sono la tua puttana, appartengo a te, lui lo sa…». «Cosa vuol dire in “questi giorni”?», avevo esclamato io? Ma lei, abbracciandomi, aveva biascicato: «Ti prego, fammi godere questi giorni di vacanza con te soltanto: Zorad è un pericoloso maiale, non conviene fare a gara con lui». Ero infoiato e non avevo percepito la paura con cui mi stava parlando. Mi sembrava piuttosto che volesse provocarmi. Perciò continuai a incitarla, con un tono feroce: «No, se sei la mia puttana, allora fai quello che voglio io con chi voglio io. Telefonagli e vediamo se ti scopa meglio di me». D’altronde non sarebbe stata la nostra prima volta: qualche tempo prima, in Italia, nella penombra del palco di un cine-teatro semideserto, avevamo accettato di pagare un “supplemento” sul biglietto al custode, che aveva preteso di chiavarsela davanti a me: e lei, senza protestare, gli aveva obbedito. Avevo rimosso quell’episodio: ma questa mi sembrava l’occasione giusta per ripetere l’esperimento. E ancora una volta, lei, senza ribellarsi, era scesa in fretta dal letto come presa dal panico, aveva preso il telefonino, tremando ma decisa a farlo, cercando il numero dell’albanese per chiamarlo. Aspettando la risposta, mi scrutava imbronciata, dicendomi: «Siete tutti uguali, voi maschi. Anche lui mi dice la stessa cosa…». Fu lì che uscii dalla trance dell’infoiamento. Le tolsi il telefonino e bloccai la chiamata. «Io sto scherzando. Ma lui come si permette di dirti cose del genere, vado da lui e l’ammazzo a legnate»: glielo dissi tutto d’un fiato. «Scherzo anch’io, amore mio», replicò lei sorridendomi. E abbracciandomi: «Non pensiamo a lui, non farti film in testa, neppure lo conosco. Ma tu, mi vuoi bene?».

Finì lì. Nei giorni seguenti visitammo Londra, la City, la British Library, la National Gallery e tutto il resto, andammo a Hampton Court e ci spingemmo in bus fino a Canterbury e fino a Bristol, dove successe l’unica inaspettata piccola nostra crisi inglese: nella camera dell’hotel l’avevo scherzosamente assalita, arrapato com’ero, con veemenza. Ma lei, di punto in bianco, mi accusò di volerla violentare: dava di matto, voleva chiamare la reception dell’hotel, voleva denunciarmi e non riuscivo a capire il perché. Dopo due ore di totale discussione alternata a cupo mutismo, fu lei stessa a raggiungermi nuda sul letto. Cominciò a sbaciucchiarmi e leccarmi il viso, mentre mi chiedeva scusa, implorandomi di sfondarla senza pietà e dicendosi pronta a scoparsi tutto l’albergo se gliel’avessi comandato. Stranezza, su cui non mi soffermai a riflettere: mi bastò fotterla con violenza, riempendola d’insulti, per farle capire cosa significasse rischiare veramente lo stupro. Lei soddisfece tutte le mie voglie, chiedendomi persino di fotografarla nuda e insozzata di sperma: «Così sono in mano tua, se fai vedere le foto a mio padre mi rovini, puoi chiedermi tutto quello che vorrai: voglio essere davvero la tua puttana. Restiamo qui a Bristol quindici giorni, dove non ci conosce nessuno: affittiamo un monolocale e mi faccio pagare trenta sterline a botta e do tutto a te. Ho con me i vestiti adatti: li metto e vado a cercare io stessa i clienti, so dove andare». Un ragionamento strambo, che io allora reputai ancora uno scherzo estremo. Che però aveva il suo effetto arrapante. Le feci tante foto col suo stesso cellulare, ma ovviamente volevo infine cancellarle. Lei mi disse che preferiva conservarle per farle vedere alla sua amica del cuore: «Così vede cosa ho fatto in vacanza col mio uomo e rosica!». Non capivo un bel niente di quei discorsi, anche perché ‘ste amiche sue io ancora non le avevo mai viste. Ma con il senno di poi, comprendo che quello era il suo modo di confidarmi il guaio in cui si trovava intrappolata. Io ero troppo istintivo, poco riflessivo, non mi resi conto di nulla.

E dire che i segnali c’erano. A Londra, quando lei usciva di casa, rovistavo tra le sue cose, per vedere come era venuta nella foto del nuovo passaporto. Che però non riuscii mai a trovare: una volta perché – mi diceva Lisa – non si ricordava manco lei dove l’aveva messo, un’altra volta perché l’aveva dimenticato al negozio in cui diceva di lavorare, un’altra volta ancora perché glielo teneva una collega, dato che lei – sbadata com’era – temeva di smarrirlo nuovamente. Non mi meravigliai nel trovare una buona quantità di intimo sexy e una collezione di sandali in pelle con le zeppe a tacco di 12 cm e col plateau da 5. Le scarpe erano la sua passione, la slanciavano e aumentavano il suo 1,68 di statura, sospingendole in su i glutei e il busto. Mi disse poi che le metteva quando andava in discoteca, anche se dacché la conoscevo aveva sempre usato le scarpe da tennis per andare a ballare. Invece indossava da sempre quella lingerie striminzita. La sorpresa semmai fu la catsuit in latex nero lucido che aveva in uno scatolo sull’armadio. Lei mi disse che l’aveva presa per festeggiare la mia visita: le stava splendidamente, lasciandole nude le braccia e le spalle fino alle natiche: la lunga zip davanti permetteva di denudare il seno e di scoprire tutto fino all’inguine. Con le zeppe alte la faceva sembrare una gran troiona. Io comunque ne avrei fatto a meno. Tenevo piuttosto al disboscamento quasi totale della sua aiuola: restava solo un tondino di peluria, il “centesimo” lo chiamavamo scherzando tra noi. Mi stupì, inoltre, trovare una scatola di scarpe colma di preservativi: sarebbero bastati per far sollazzare una squadra di calcio per una settimana intera. E in un cassetto una ricetta medica per “Nexplanon refill”. E tre o quattro referti sanitari con diverse date del test per l’aids, tutti negativi. Capii che qualcosina con l’albanese doveva pur esserci stata. Ma ero così stronzo, da pensare che tutto sommato poteva solo giovarle tenersi in allenamento. Peraltro i risultati erano davvero soddisfacenti: i giochini che sapeva fare non poteva averli imparati solo ingannando il tempo su internet. Senza confessarglielo, avrei davvero voluto scoparmela assieme a quell’albanese… A letto la scoprivo ogni giorno più esperta e disposta a tutto, complemente spudorata: una porca stellare.

Tornata dopo sei mesi dall’Inghilterra, restammo insieme qualche altro anno, incontrandoci periodicamente, quand’era possibile. In Inghilterra tornava ogni tanto per una settimana, dalle amiche che s’era fatta là, mi diceva. Una volta le dissi che volevo accompagnarla, ma finì che per suoi impegni di lavoro in Sicilia non poteva più farsi quella piccola vacanza con me. In ogni caso, ormai era diversa: sempre meno romantica in privato e sempre meno “santarellina” in pubblico, sempre più troia a letto e sempre più zoccola quando stavamo con gli amici, spesso a un soffio dal farmi combinare con qualcuno una serata a tre o a quattro: «Io scherzo», finiva puntualmente per dichiarare in extremis. Fino al giorno in cui mi aveva proposto di farlo davvero, senza ripensamenti, a patto però che gli amici che io avrei scelto l’avessero pagata almeno cento euro a testa. Accettai per non essere stavolta io a tirarmi indietro, ma dicendole che avremmo dovuto scegliere non tra gli amici (non mi andava affatto di essere poi additato come un cornuto) ma tra gli iscritti di un sito per single che si proponevano alle coppie aperte. Ce n’erano tanti, tutti ben dotati, ma il loro mantra era “No mercenari”. «Se non pagano non se ne fa nulla!», troncò risoluta Lisa.

Lasciando Roma e trasferendomi in Sardegna per motivi di lavoro, la sentivo sempre più lontana: le veniva difficile raggiungermi dalla Sicilia e a me veniva difficile raggiungerla partendo da Tempio Pausania. Conoscendo la sua fame di cazzo, intuivo che non si faceva sfuggire qualche buona occasione. E, del resto, anch’io incrementavo la mia collezione ogni volta che potevo: due sorelle polacche (la minore molto meglio della maggiore), una rumena, una colombiana e italiane che passavano a tiro provenendo da varie parti: Padova, Palermo, Roma, due pugliesi anche loro studentesse in vacanza… Ma la foia che mi scatenavano anche solo il pensiero o la voce di Lisa era impareggiabile. E speravo fosse così anche per lei nei miei confronti. Fino a quando non mi disse, a telefono, che dovevamo chiudere il nostro rapporto, perché non aveva più senso e perché si sarebbe presto sposata con il tizio con cui sta ora. Ci rimasi male, ma alla lunga non ci pensai più.

Ora, però, me la ritrovo davanti in quel video, proprio come l’avevo lasciata: giovanissima puledra da monta, splendida, ma in balìa di una mandria di porci. E rimugino. E tento di capire meglio. E cerco di ricordare. Così giungo a focalizzare almeno la sequenza temporale di quel giro di anni. Nel 2010 Lisa stava all’estero, per l’erasmus, a fare le ricerche per la sua tesi. A novembre era rientrata a Roma e si era laureata. Festa con gli amici e i parenti (tre fratelli tutti più grandi di lei: tre gendarmi siculi, della serie: “Dice la mamma: Rocca si guarda, ma non si tocca”). A metà mese era partita per Praga, per farsi una vacanza con una sua amica albanese, minuta ma con le curve al giusto posto, studentessa universitaria, che alloggiava al pensionato studentesco di San Lorenzo. All’ultimo momento, tuttavia, era andata da sola: l’amica s’era ammalata. Il giorno del suo arrivo a Praga mi aveva telefonato che era ormai notte, raccontandomi che in un sottopassaggio di Praga un maniaco le si era piazzato davanti, aprendosi l’impermeabile… Niente di pericoloso, perché era intervenuto un ragazzo che proprio in quel momento le era venuto incontro dietro richiesta dell’amica rimasta a Roma, un albanese (anche lui) che l’aveva accompagnata fino al B&B da lui gestito, dov’era programmato dovesse alloggiare. Doveva restare lì fino alla vigilia di Natale, poi da Praga sarebbe andata direttamente in Sicilia. Io, abitando a Roma, l’avrei rivista solo dopo le ferie natalizie. E invece lei, due giorni prima di Natale, mi telefonò dicendomi che non rientrava per niente in Italia, perché la sua amica s’era ripresa e aveva rimodulato la vacanza, offrendole di prolungare la permanenza a Praga. Sarebbero state ospiti del ragazzo albanese che l’aveva soccorsa nel sottopassaggio. «Ok», le dissi io. «Vedete di farvi assumere da Siffredi, lì a Praga, per un bel filmetto…». Scherzavamo spesso così e anche quella volta lei ridacchiò, ma con un timbro malinconico: «Magari fossi finita con Siffredi, ora non sarei in certi guai…». Giorno dopo giorno procrastinava il ritorno, rimanendo per tutto gennaio nella Repubblica Ceca, telefonandomi sempre alla stessa ora, su per giù al momento del pranzo, oppure al mattino presto, per spiegarmi che aveva smarrito il passaporto e che l’ambasciata era lenta a sbrigare le pratiche per quello nuovo. Di giorno e di sera dava una mano al ragazzo del B&B, mi diceva, per sdebitarsi dell’ospitalità. A febbraio c’eravamo rivisti a Roma: era dimagrita eppure le si era gonfiato il seno come mai prima. Mi aveva colpito una strana novità: mi aveva fatto vedere un puntino in un braccio, all’altezza dell’ascella, dove s’era fatta impiantare una capsula di Nexplanon, un anticoncezionale di ultima generazione che le aveva consigliato l’amica albanese: «È efficacissimo e può durare almeno due anni: l’ho fatto per te, così stiamo tranquilli…», mi aveva spiegato. E poi a marzo era partita all’improvviso per l’Inghilterra, a racimolare soldi e recuperare le tante spese impreviste fatte a Praga.

Mettendo insieme questi ricordi e il video, ho realizzato quanto era accaduto senza che me ne rendessi conto: quel porco di albanese l’aveva – non so come – portata in quel bordello, convincendola o costringendola – non so come – a prostituirsi in quel modo così degradante. Poi era andata in Inghilterra, inspiegabilmente, per andare a cercare lavoro lì in un non meglio definito maxishop, lei che era laureata. Molto probabilmente, in realtà, cedendo a qualche ricatto (il video non sarà l’unico, sono sicuro) di quell’albanese e perciò abbozzando a seguirlo fino in Inghilterra. Per fare cosa? Una sola realistica risposta s’impone, mettendo insieme tutti i pezzi del puzzle: per essere una delle sue puttane. Ecco per chi lavorava. Quel porco l’aveva messa a reddito, come diciamo in romanesco. Ed ecco perché nel mese in cui andai a trovarla lei si considerava “in vacanza”.

Ma deve pur esserci qualche altra traccia per dimostrare queste supposizioni, penso tra me e me. Mi metto a navigare per ore nei siti porno amatoriali inglesi. A un certo punto leggo un titolo: «Sicilian bitch in real dogging». Clicco e la ritrovo: due video spettacolari e tremendi al contempo, l’uno prosecuzione dell’altro. La resa dei colori non è granché, ma la ripresa è ravvicinata e l’audio perfetto. Lei è vestita solo di una tuta a rete aperta sulle tette e tra il culo e il pube rasato e liscio, su cui spicca soltanto il suo inconfondibile centesimo. Le labbra sono tinte di un rosso brillante come la lacca delle sue unghie e attorno agli occhi, sulle palpebre, ha un pesante fondotinta celestino. Ha i capelli ricci raccolti in due trecce. Indossa zeppe di vernice rossa. Al collo ha un sottile collarino rosso con un anello metallico al centro. Si trova certamente dentro un pornoshop: sugli scaffali sono esposti falli di tutte le misure, completini sexy, dvd e altra oggettistica. Lei sta al bancone e viene richiamata da chi fa le riprese ad aprire la porta del negozio e ad accogliere un gruppo di uomini. Li accoglie ridendo alle loro battute e, immagino, ai loro complimenti. Poi si mette in posa e saluta con la mano guardando la telecamera e con un sorriso ben recitato dice: «Hello, my love. This is my workplace. I’m the sales assistant. And now I’m going to take care of these handsome boys. I hope I do a good job. My master wants you to be proud of me». Si sente una voce maschile che le dice: «Wery good, Betty. Now repeat it in Italian». Lei rimane in sospeso per un attimo, poi con espressione incerta, lentamente, ripete: «Ciao, amore… Questo è il mio posto di lavoro… Sono la commessa… E ora mi occuperò di questi clienti: farò del mio meglio per accontentarli, sono molto esigenti. Spero di riuscirci, perché il padrone del negozio vuole che tu sia fiero di me».

Ne prende due per mano e si avvia verso una porta. Uno dei due la apre, l’altro sospinge Lisa a varcarne la soglia. Entrano in una saletta con le pareti insonorizzate da lastroni in poliestere bianco. Lei si posiziona al centro di una grande stuoia circolare in vimini. Sta in piedi e accenna un balletto lento, alzando le braccia e incrociandole dietro la nuca. Ma subito è raggiunta dai due uomini. Resta in piedi e sbottona i pantaloni dei due, aiutandoli a tirar fuori gli arnesi. Si china in avanti, cominciando a spompinarne uno e lasciandosi leccare dietro dall’altro. Qualche secondo dopo, quello smette di leccarla e comincia a scoparla, non si vede se in fica o in culo: entrambi sono panzoni. «Look me, look into camera», le ordina qualcuno. Lei alza lo sguardo, mugolando, e punta gli occhioni lucidi verso la telecamera. Le mani di chi si sta facendo spompinare cercano i suoi seni. Continuano per qualche minuto. Poi Lisa si inginocchia sulla stuoia e arriva il turno degli altri, c’è anche un cinese, o almeno così mi pare. Le loro facce non si vedono. Non sempre si capisce quello che dicono: alcuni non stanno certamente parlando in inglese, sembrano slavi, o sudamericani. Lei ansima e fa smorfie di dolore ogni volta che qualcuno le strofina con forza il cazzo sul viso o le spinge la testa forzandola a ingoiare il cazzo di turno. Eppure sorride alle loro battute, esprime sorpresa e ammirazione per le loro erezioni e si fa trovare sempre pronta a intercettare in bocca le loro sborrate, si gira prontamente a destra e a manca obbedendo docilmente a chi le intima: «Look me, bitch!», oppure: «Come on, move your ass!». E lei il culo lo muove, eccome! Muove il culo come sa fare lei, andando incontro ai loro colpi: quando la posizione glielo permette, su quella stuoia lercia è lei a cavalcare quei porci, inarcando a ritmo ininterrotto la schiena e dimenando i fianchi. Lecca le loro aste con la sua solita foga, cerca con la lingua le loro palle, si aggrappa con entrambe le mani ai loro cazzi. Alterna i «Sì, sì, bastardi, ancora, yes, fuck me in my ass, break my pussy…» ai «Minchia, mi fai male, stop please, non ce la faccio più», mischiando italiano e inglese. Non le risparmiano nulla: si spintonano tra di loro per riuscire a scoparla in contemporanea, nel culo e in fica.

Alla fine Lisa è inzuppata dalla testa ai piedi. Tutt’attorno la applaudono. Lei si alza, sputa a terra due volte e si pulisce con il dorso delle mani gli occhi. Uno di quegli stronzi la prende per le trecce ed espone il suo viso in primo piano, spalmadole gli schizzi di sperma sulla fronte e sulle guance. La gira di spalle e le dà una pacca fortissima sui glutei, continuando a lucidarli di sborra. Le infila la mano tra le cosce, ficcandole il pollice nell’ano, fruga in profondità ed estrae la mano umida di sperma, che fa colare filamentoso davanti all’obbiettivo: «Remember, cuckold?», mi pare stia dicendo… Non ne vedo il volto, ma sono certo che sia l’albanese. Poi scandisce abbastanza chiaramente: «Do you like this slutty face? Have you see how well works our Betty? Look, cuckold, Betty is my slut now, the queen of my whores. Feel how this Sicilian bitch is enjoying herself. She’s making me rich: thirty pounds for every dick». Infine le comanda di dire qualcosa: «Tell your boyfriend you’re a huge slut! Tell him you like it…». Lei risponde con un filo di voce, fissando la telecamera: «I’m hooker, his whore, his slave: I like to be fucked by these pigs…». E quello la incalza: «Good, slut. Say it louder, in Italian. And also tell him that the video is dedicated to him, to make him understand how much of a cuckold he is». Lei indugia e poi scuote la testa in segno di diniego. Le arriva un ceffone. «Sì», grida lei istericamente con un marcato accento meridionale, «Buttana sono! E troia! Sono una bagascia, sono la sua schiava. E mi piace essere scopata da questi maiali». Poi sbotta a piangere e aggiunge: «Il video me l’ha fatto per te, per farti vedere quanto sei cornuto. Perdonami, perdonami».

La telecamera traballa, passa di mano in mano. Riappare il volto di Lisa. Una mano le copre il viso e la fronte e la costringe a inginocchiarsi: «So, slut, stay down!», gli dice la solita voce. E continua: «And now tell your boyfriend you want my cock so bad. Tell him you want it in your mouth. Tell him you want to suck my cum. Tell him in Italian, so he understands you better». Lisa gli risponde: «You’re a bastard!». L’uomo l’afferra per i capelli e le strofina il cazzo sulle guance, parlandole con tono rassicurante: «Come on, Betty, be a good girl, tell him you’re dying to drink my cum. In Italian, please». Lei cede: «Sì, sì, lo dico. Voglio il tuo cazzo, Zorad, lo voglio tutto in gola, ubriacami con la tua sborra». Comincia a leccargli la cappella e percorre lentamente tutta l’asta, fino ai coglioni. Il bastardo è completamente depilato. Ride e incita Lisa: «Good job, whore… And now suck it!». Lei, guardando la telecamera, se lo infila tutto in bocca, fino alle palle. E va avanti e indietro furiosamente. Il rumore e la salivazione raggiungono il massimo livello. Gli occhi sembrano uscirle dalle orbite. Lui le ordina di trattenere la sborra in bocca, quando eiaculerà, perché vuole che io veda il suo sperma colarle dalle labbra: «I want your cuckold to see my cum in your mouth!». Infine grida: «I’m cumming, I’m cumming». Lisa obbedisce al suo comando: si volge verso l’obbiettivo con la bocca aperta, piena di sperma. Muove la lingua e poi ingurgita il carico, andando a recuperare col dito quello che le era scivolato lungo il mento e ricacciandoselo in bocca. Zorad non si vede, ma si sente la festa che gli fanno i suoi amici. Lisa di alza e traballando sui tacchi ritorna al bancone del negozio, nascondendosi il volto con le mani. Spuntano altre due ragazze, una è nera, vestite normalmente, in jeans e maglietta, che le porgono un rotolone di carta e la incoraggiano alzando il pollice: tutto ok, è finita… Lei sorride mentre singhiozza: «Yes, yes». E il video termina.

Rimango scioccato. Il video è postato esattamente quattordici anni fa, a maggio. Lei aveva appena compiuto, nei primi di aprile, 24 anni e io ero andato a Londra proprio per festeggiare il suo compleanno. Ricordo perfettamente che subito dopo il 1° maggio del 2011 ero tornato in Italia volando da Heathrow: lei mi aveva accompagnato indossando di nuovo il tubino bianco: «Come on, confess that you like my slutty dress… Così non smetti di pensare a quel che mi può succedere qui se non torni presto: la tua micetta che fa la troia con Zorad… Guarda nel portafoglio: c’è una chiavetta con le foto di Bristol!», mi aveva detto lasciva, abbracciandomi e infilandomi la lingua nell’orecchio.

Mi chiedo se presagisse già quel che avrebbe dovuto fare subito dopo la mia partenza. E mi chiedo come mai l’albanese abbia postati questi video già in quei giorni senza tuttavia fare in modo di farmelo sapere. Che tipo di vendetta era la sua? Voleva farmi davvero uno sfregio, o piuttosto dimostrare a lei d’essere un bastardo senza scrupoli, per piegarla ancor di più al suo ricatto? Forse per questo Lisa mi aveva dato la chiavetta usb con le sue foto di Bristol: per darmi l’occasione di masturbarmi pensando a lei, nella speranza che non mi mettessi a visitare siti porno… E mi chiedo pure, preoccupato, se lei abbia mai visto online questi video. Forse sì, altrimenti non sarebbe rimasta così a lungo in Inghilterra. E mi viene la tentazione di inviarle i link di questi due video e di quello nel bordello praghese.

Per intanto, posto questo racconto e le mando il link, solo per farle sapere che ho ricevuto il messaggio di Zorad e che, se vuole davvero farsi perdonare, può organizzare un viaggetto qui da me, contattando Zorad e invitandolo a raggiungerci: la Sardegna è bella e accogliente, specialmente d’estate, e io – lei lo sa – non sono mai stato geloso e tanto meno rancoroso. Per quanto mi riguarda so che lei fa la preziosa, ma stavolta chiamerò un gruppetto di amici fidati, molto generosi, anche se molto molto esigenti.

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