Non potremo nascondere a vita il nostro rapporto (1 di 4)

Mi agganciò affannosamente, con irruenza, per il braccio. Sobbalzai letteralmente, immerso com’ero nei miei pensieri. Stavo percorrendo, per la solita passeggiata, la piazza principale della mia città. Era il solito meriggio autunnale. Il selciato era ricoperto dalle foglie rinsecchite dei ficus beniamina, che leggermente crocchiavano sotto le scarpe. Il sole dardeggiava i suoi ultimi strali di fiamma sulla cupola più alta degli alberi. Io mi godevo quei momenti, anche se, talora, improvvisamente, il mio cuore si stringeva di tristezza forse più che di malinconia. Era bella, superbamente bella. Una giacca indiana  di camoscio con le falde sfrangiate su una gonna lunga anch’essa di camoscio  come gli stivaletti che calzava ricopriva un fisico snello, flessuoso, alto, qualche centimetro più di un metro e settanta. La giacca, leggermente schiusa, lasciava intravedere una camicetta bianca a fiori azzurri. Aveva i capelli biondi come il grano maturo, tagliati due, tre dita sotto le orecchie, e gli occhi, che mi parlarono imploranti, erano d’un azzurro più terso d’un cielo d’estate a mezzogiorno. L’ovale del viso era perfetto e le labbra piene, carnose, che spiccavano come due rose  in mezzo ad un fascio di margherite bianche, arricchivano quel viso spaventato d’un velo arrogante di sensualità. “Per piacere, signore, non si giri, faccia finta di essere mio padre”, disse precipitosamente con affanno. Se le sirene avevano davvero una voce tale  da incantare il più refrattario dei naviganti, quella voce appena arrochita sicuramente le superava nel canto. Non aveva certamente più di vent’anni e mai  mi era capitato di vedere esplodere un fulgore di giovinezza in modo così straripante dall’aspetto d’una donna.

“Poco distante da noi c’è un teppista che mi ha assediato con le frasi, gli atteggiamenti più volgari, tentando di ghermirmi dappertutto. Le persone lo vedevano, sentivano le mie intimazioni di lasciarmi in pace, ma nessuno  è intervenuto. E’ quasi un quarto d’ora che mi assilla. Ho il cuore che mi scoppia più per la rabbia che per la paura e le volgarità subite. Ho visto lei e, istintivamente, ho sentito che potevo fidarmi, che poteva essere il mio rifugio. La prego, faccia finta di essere mio padre”. E, senza darmi il tempo nemmeno di replicare, mi allacciò le braccia al collo e mi sfiorò la guancia con un bacio. Chiunque ci avesse osservato avrebbe creduto di vedere in quella giovane donna una ragazza che sicuramente si trovava ad avere un appuntamento col padre. Portavo più che bene i miei cinquantaquattro anni, ma quella bellissima fanciulla si era aggrappata a me con il medesimo atteggiamento, con lo stesso affettuoso slancio, con cui una figlia si  sarebbe aggrappata a un padre. E come padre e figlia continuammo, senza girarci,  a camminare. Io dovetti fingere che lei non mi aveva messo al corrente del teppista, anche se avevo voglia di girarmi, vedere in faccia il tipo e magari rompergli la faccia. Ero ancora in grado di farlo, nonostante la mia età. Continuavo ancora a frequentare la palestra di shorinji-kempo e il mio fisico era ben allenato e scattante. Avevo lasciato l’Alitalia da circa dieci anni, e per venti avevo fatto il pilota di linea. Per un paio d’anni avevo lavorato in un’agenzia di viaggi. Poi mi ero stancato e mi ero messo in “pensione”. Mi ero rifugiato nella mia villa, costruita sul cocuzzolo di una collina, tra le più panoramiche, che attorniavano la mia città, e, in quella serenità accarezzata dal fruscio degli alberi e, a partire dalla primavera, dal trillare degli uccelli, incominciai a scrivere delle guide turistiche relative ai tanti paesi che avevo conosciuto nella mia attività di pilota. Avevano avuto successo e, benché non avessi un grande bisogno economico, mi davano  una grande gratificazione morale e intellettuale.

Di tanto in tanto allacciavo qualche relazione sentimentale, ma schivo com’ero, finiva rapidamente, com’era accaduto così in tutta la mia vita. Era quasi un impormi di innamorarmi, ma, proprio perché si trattava di un’imposizione, la donna che mi stava accanto finiva per intuire che c’era nel profondo del mio cuore un piccolo lago di ghiaccio che non si lasciava sciogliere. Così il rapporto smoriva, come un tramonto in un cielo imbronciato. Avevo conosciuto l’amore, quello che ti incanta, che ti scuote il cuore e ti lascia raggiante dentro l’anima anche quando lei non è vicino a te. La avevo conosciuta tra i ventitré e i venticinque anni, proprio al tempo in cui avevo vinto il concorso all’Alitalia e fui trasferito di botto a Linate, l’aeroporto di Milano, ad un galà di matrimonio di un mio carissimo amico. Era un sogno di una notte di mezza estate. Fu un amore a prima vista, così intenso da parlare subito di matrimonio. Lei era la figlia unica di un imprenditore di laterizi. Era  iscritta in lettere classiche e voleva specializzarsi in archeologia. Non potevo rinunciare al mio sogno di pilota. Io mi ero da poco laureato in ingegneria elettronica e lei voleva che rimanessi  in città, dove, tramite suo padre – anche se questi avrebbe preferito che la figlia si sposasse con il figlio del suo socio,- avrei trovato subito occupazione in una fabbrica abbastanza importante di apparecchiature elettroniche e con uno stipendio per nulla inferiore a quello che avrei percepito come pilota. Avevo sognato da bambino di fare il pilota. Se lei mi avesse davvero amato, avrebbe potuto, una volta laureata, seguirmi a Milano e lasciarmi realizzare il mio sogno. Così mi dicevo. E lei a tentare di farmi capire che la professione di pilota era incompatibile con il nostro amore e i nostri progetti matrimoniali. Che io sarei rimasto più nei vari alberghi del mondo che nella nostra casa di sposi. E che lei non avrebbe potuto sopportare di vivere giorni e giorni in solitudine e con la paura che, magari, sedotto da qualche bella hostess, avrei finito per lasciarla, lontano dalla sua famiglia e con qualche figlio in più.

“Ma, se tu dovessi riuscire a lavorare come archeologa, il tuo sogno da bambina, che faresti, rinunceresti?”, obiettavo io.

“Nel modo più assoluto. Quello era il sogno che facevo prima di incontrare te. Il mio sogno ora sei tu. Cercherò un posto al museo, ai beni culturali, farò l’insegnante, ma certamente non me ne andrò alla ricerca di tombe lontane”. Non capivo o non volli capire. O forse fu lei che non volle capire. Con la morte nel cuore, con gli occhi scavati dall’insonnia e dal dolore, con le lacrime che grondavano dai suoi occhi come fiumi in piena, lei mi lasciò. Io scelsi l’aviazione e partii. Ma la parte più profonda di me rimase lì, legata a quell’abitacolo d’argilla che madre natura aveva fatto donna bellissima, appassionata e caparbia. Lei si era presa la mia anima e io non riuscii più a farmela restituire. Non seppi più nulla di lei o, meglio, non volli saperlo. Ma, se le mie mani, le mie labbra, il mio sesso conobbero donne magnifiche, donne che avrebbero persino toccato il cuore dei serafini, quello mio rimase chiuso. Schiudeva la porta ai primi chiarori dell’alba, ma, appena capiva che il sole voleva forzarne l’uscio e sciogliere il gelo che ne costringeva la parte più nascosta, scorbuticamente la rinchiudeva.

Come dicevo, ci incamminammo e ci mettemmo poi a discutere del più e del meno. Era iscritta in Scienze politiche, al corso di giornalismo, e desiderava, un giorno diventare giornalista di “Repubblica” e, se i tempi fossero cambiati in meglio, alla Rai. Parlava con me come se mi avesse conosciuto da sempre e io mi abbandonavo alle confidenze come se davvero fosse stata mia figlia. Il fatto era che ero abbagliato dalla bellezza, dall’intelligenza e dalla semplicità di quella ragazza. E, forse, nel mio cuore, la sua immagine, i suoi discorsi, la sua gioventù, il suo semplice abbandono, fece riaffiorare l’amore mai dimenticato. Quando giungemmo davanti al portone del palazzo in cui abitava, mi resi conto che non avrei potuto più fare a meno di lei. Non mi sentii, però, il coraggio di chiederle un appuntamento. Non tanto per la notevole differenza d’età, quanto per non apparire approfittatore. L’avevo salvata da un molestatore, per prenderne il posto travestito da buon samaritano. Era troppo meschino. Quando, però, le tesi la mano per salutarla, ancora una volta inaspettatamente, lei mi abbracciò e mi sfiorò con un bacio la guancia.

“Certamente domani ci vediamo”, mi disse.

“Le va di cenare insieme con me? Il posto scelga lei. Mi fido”. Restai lì per lì senza parole.

“Aura, io”, balbettai.

“Sicuro, mi viene a prendere qui  domani sera alle sette e mezza. Sia puntuale, mi raccomando, comandante”.

“Ci puoi scommettere, dolcissima fanciulla, ci puoi scommettere” e ricambiai il suo bacio. Chiuse il portone alle sue spalle e io rimasi imbambolato a fissarlo per qualche minuto, quasi a volermi rendere conto che quanto era accaduto era stato reale e non un frutto di un mio sogno agognato.

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Mi piace partecipare al progetto dei racconti erotici, perché la letteratura erotica da vita alle fantasie erotiche del lettore, rispolverando ricordi impressi nella mente. Un racconto erotico è più di una lettura, è un viaggio nella mente che lascia il segno.

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