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Magia nera

In clinica, nel mio studio, ero intento a controllare alcuni ordini di servizio che la direzione mi aveva fatto trovare sulla scrivania, tramite posta interna. In uno di questi ordini mi veniva comunicato che l’addetta alle pulizie del mio reparto veniva trasferita ad altri incarichi. Da quel momento in poi le pulizie sarebbero state appaltate ad un’impresa esterna. Non diedi molto peso alla comunicazione non sapendo ancora quanto questo fatto avrebbe inciso poi nella mia vita affettiva futura. La scorsa degli ordini di servizio fù interrotta da urla di dolore che sentii provenire dalle sale operative. Mi affacciai e mi vidi passare sotto il naso una barella con sopra distesa una giovane ragazza di colore. Controllai il nominativo che c’era sulla richiesta di esami: “Janet Ojukwu, anni 23, nazionalità nigeriana, residente a B… in Via M…” Una brutta ferita sanguinante le deturpava la fronte, un altro rivoletto di sangue le scendeva dal naso e lei se lo comprimeva con un po’ di garza, un occhio era gonfio e semichiuso. Il telo bianco che la ricopriva era qui e là ricoperto di macchie di sangue. Cosa le era successo? L’addetto al trasporto delle barelle, vedendo il mio sguardo interrogativo mi bisbigliò piano piano: “Percosse! ” Caspita, cosa poteva avere mai combinato quella povera disgraziata per meritarsi una violenza simile! Le presi una mano e cercai di rassicurarla:

“Non ti preoccupare, adesso ti faccio subito gli esami , così dopo ti potranno medicare definitivamente. “. Mi strinse la mano e mi disse solamente:

“Grazie ma non farmi del male”. La feci distendere dentro la sala esami sopra al lettino e mentre la facevo passare dalla barella al letto mi accorsi che sotto a quel lenzuolo era nuda. Cercai di rimanere molto professionale ma notai un fisico statuario, sembrava quasi scolpita nell’ebano, un seno che sembrava di marmo nero, un sedere da Venere e gambe lunghissime… e bellissime. Dopo avere fatto gli esami, mentre aspettavo il referto da mandare in Pronto Soccorso, cercai di scambiare due chiacchiere con quella Venere nera ferita in tutto il corpo:

“Cosa ti è successo Janet, me lo puoi dire, o meglio, me lo vuoi dire? ” “è una brutta storia dottore. è una bruttissima storia. Io non voglio fare, come dite voi… la puttana! Il mio uomo vuole che io faccio la puttana, io dice di no, lui mi picchia, io allora chiama la polizia, ma lui sente che io chiama la polizia e mi picchia ancora, se non arriva la polizia lui mi uccide. Poi polizia porta via lui e uno di polizia mi porta in ospedale. Io ora sola, mio uomo ha detto polizia che viene messo in carcere, poi mandato in Nigeria. Io rimane sola in Italia, non ha lavoro… io non vuole fare la puttana! “. Non so quale istinto da Buon Samaritano mi prese in quel momento, ma colsi in quell’appello disperato una autentica nota di sincerità, la volontà ben precisa di non andare ad arricchire il folto drappello delle sue connazionali che battevano i marciapiedi di B…. presi in mano il telefono e chiamai Don Marino, un mio amico prete che gestiva una casa d’accoglienza per poveri sbandati senza famiglia. Gli avevo fatto in passato innumerevoli favori, non poteva dirmi di no. Fù contento della mia chiamata, chiacchierammo… e mi chiese da quanto non andavo a Messa! Tergiversai, lui si mise a ridere, capì e acconsentì, anzi, fù felice di accogliere Janet nella sua casa. Lo dissi subito a Janet che, contenta, si alzò di scatto dalla barella per abbracciarmi. Aveva dimenticato di essere nuda e quando se ne accorse mi chiese scusa, rifugiandosi immediatamente sotto il lenzuolo. Per fortuna nessuno fù presente a quella manifestazione di affetto, sennò figuriamoci quali commenti avrei dovuto subire! Aspettai la dimissione di Janet, poi la accompagnai da Don Marino. Janet fù accolta da lui e dagli altri ospiti quasi festosamente. Le fecero vedere quella che sarebbe stata la sua camera e poi ci invitarono a cena. Mentre mangiavamo Janet mi guardava : ” Tù sei molto buono-mi disse-ma prometti che verrai a trovare mè, che tù non lasci Janet sola, prometti! ” Le sorrisi e la rassicurai. Andai a casa dopo un po’, ma non riuscivo a togliermi Janet dalla mente, il suo pensiero mi tenne compagnia per tutta la notte e anche il mattino dopo sul lavoro pensavo sempre a quella ragazza che era entrata prepotentemente nella mia vita. Un addetto della nuova impresa di pulizie che passava davanti al mio studio mi fece improvvisamente baluginare in testa un’idea. Telefonai in direzione, mi feci dare il telefono dell’impresa di pulizie e la chiamai immediatamente. Alla mia richiesta se avessero avuto bisogno di addetti alle pulizie mi risposero che li cercavano disperatamente. Spiegai la situazione di Janet, ma mi dissero che non era un problema, anzi, alcuni addetti venivano reperiti proprio tra i cosiddetti “casi sociali” e se io avessi garantito per lei l’assunzione sarebbe stata immediata. Andai da loro a prendere i documenti per l’assunzione e li portai a Janet. Fù entusiasmante l’accenno di danza tribale che mi fece , per la gioia, quando le diedi la notizia. Ancheggiava con movimenti sensuali, le sue braccia ondeggiavano nell’aria, invocando chissà quale spirito. Aveva tre giorni di tempo, per riprendersi dalle ferite precedenti poi avrebbe cominciato il nuovo lavoro. Non la cercai in quei tre giorni, anche se non riuscivo a non pensarla. Me la vidi davanti dopo qualche giorno, fasciata nella divisa della ditta di pulizie, un grembiule da lavoro giallo che faceva risaltare la sua splendida pelle nera. Si fermò davanti al mio studio, con le mani sui fianchi. Rimasi allibito, era stupenda! Il viso era sorridente e non portava quasi più nessun segno della violenza che aveva subito Rimasi ancora di più allocchito quando con la voce un po’ gutturale tipica delle donne negre mi sentii dire queste parole : ” Tù ora è il mio uomo, il mio padrone. Io è solo tua e fa solo quello che tu vuole. Oggi io finisce di lavorare alle 14. Tù accompagna a! casa mè e mi fa compagnia, solo un poco? ” Era disarmante e allora le dissi di sì. Quando uscii dal lavoro la trovai già appoggiata alla mia auto, fasciata, tipo seconda pelle, con dei jeans e una camicetta bianca di cotone. Non portava reggiseno, perché si vedevano i grossi capezzoli scuri tendere la stoffa, quasi prepotenti , con le larghe areole che si stampavano sempre sul tessuto. Con i due capi della camicia annodati lasciava parte della pancia scoperta, con l’ombelico in primo piano attorniato da quella pelle di seta. Un piercing argenteo vi luccicava dentro. Non aspettò neanche che la salutassi e salì subito sull’auto. Mi misi al volante , indeciso sul da farsi. Lei mi anticipò:

“Tù porta mè subito a casa? Tù non vuole andare a fare giro con macchina e intanto parla con la “sua” Janet-calcò la voce su quel sua-poi offre Coca-Cola, dopo a casa! ” Mi avviai e portai la macchina lungo un fiume che scorreva lì vicino, che conoscevo già precedentemente e che era l’ideale per le! coppie che volevano appartarsi. Janet capì e sorrise: ” Tù è il mio uomo, io felice che vuole fare amore con mè. Anch’io vuole tanto fare amore con lui. Tù tranquillo, io nera ma non malata, io no Aids, io vuole che tù stai tranquillo… perché ti vuole tanto bene, si dice così? ” Nel suo modo molto grezzo di parlare italiano, mi aveva fatto capire di essersi innamorata, di essere sanissima e di volere fare l’amore con mè, tutto con poche e semplici parole. Scese dall’auto con movenze feline, aspettò che la seguissi, mi prese per mano e si avviò tra gli alberi. Trovammo una piccola radura, riparata, assolutamente invisibile agli occhi degli eventuali passanti. Mi fermai dietro di lei, la rapidità degli eventi sembrava avermi bloccato. Si guardò attorno solo per un attimo, poi mi fissò dritta negli occhi e cominciò a slacciarsi la camicetta. Vidi il suo petto , grosso, orgoglioso, i grossi capezzoli non neri ma violacei, tesi, rigidi. Si slacciò in fretta anche i jeans e se li tolse ! insieme a un minutissimo paio di slip. Mi si mostrò orgogliosa della sua nudità, era veramente un corpo da Venere. Vidi il folto cespuglio di peli crespi che le copriva il pube. Non era un essere umano, era un capolavoro che qualche oscuro pittore aveva lasciato all’umanità. Si stese sull’erba, aprì le gambe mettendo bene in vista le sue rosse grandi labbra, spalancandomi davanti tutta sé stessa e mi tese le mani:

“Fai mè felice, fai mè tua donna, io solo tua-mi disse”. Credo di non essere mai stato tanto veloce a spogliarmi, perché dopo qualche secondo fui tra le braccia di Janet, prepotentemente eretto, pronto a farla mia. La baciai ardentemente, quelle grosse labbra si lasciavano violare, la sua lingua cercava la mia e si faceva cercare. Sentivo il suo seno di marmo che mi pungeva il petto dandomi meravigliose sensazioni. Scesi a baciarlo, succhiai quei grossi capezzoli e intanto Janet mi carezzava il capo, quasi accompagnando i miei movimenti. La sentivo ansimare forte, mi sembrava dicesse anche qualcosa nella sua lingua, io ero talmente eccitato che avrei potuto venire da un momento all’altro senza neanche averla penetrata. Scesi ancora più in basso, verso l’inguine, trovai un grossissimo clitoride che, rosso scuro, spuntava da quel capolavoro della natura che era la vagina di Janet. Iniziai a leccarla, immergendomi in un afrore che mi stordiva. Ad ogni colpo di lingua che davo a quel grosso clitoride, vedevo le grandi labbra che si contraevano e sentivo come degli spruzzi di piacere che mi intridevano il viso. Muoveva il bacino seguendo il ritmo della mia lingua, agevolandomi, facendomi sempre avere la vagina spalancata oscenamente (ma anche tanto libidinosamente) davanti alla mia bocca. “Ojèèè… saiiii… atikoooo…” Non conoscevo la sua lingua, ma capii che stava godendo, perché mi prese per la testa e mi attirò ancora più profondamente dentro di lei. Mi tenne fermo con le mani e cominciò a sfregarsi sempre più velocemente contro la mia bocca fino a quando si tese, rimanendo rigida e urlando una probabile invocazione al Dio dell’amore o a chissà cosa. Si distese poi piano piano, ma ogni tanto aveva ancora delle contrazioni improvvise, era un lungo e profondo orgasmo che la stava sconquassando tutta. Io mi lasciai guidare da lei e quando la sentii finalmente calma mi sentii tirare di nuovo verso il suo viso. La guardai, era radiosa, l’amore le faceva bene. Volle che la baciassi, mi mordicchiò la lingua, era una donna nata per l’amore, tanto era il desiderio che le si leggeva negli occhi. Ero sopra di lei, tra le sue gambe spalancate. La sentii appoggiarmi una mano sulle natiche e spingermi verso la sua natura spalancata e grondante. Con l’altra mano mi prese il pene per guidarlo dentro di sé, ma non ce ne fù bisogno perché affondai in lei naturalmente come teleguidato. Iniziai a muovermi ritmicamente, mentre Janet allacciandomi le gambe intorno alla schiena mi diceva:

“Tù solo mio , tù non và via, tù fai tutto dentro, io spirale! …si dice così? ” Ad ogni affondo sentivo come una cantilena:

“Oi… oi… oi” con la quale Janet accompagnava i miei movimenti che si facevano sempre più frequenti. Non ce la feci più e con un ultimo disperato colpo, affondai dentro di lei e cominciai ad eiaculare copiosamente. Sentivo che la vita scorreva dai miei lombi, sembravo come un palloncino che si sgonfiava ad ogni contrazione del pene. Mi lasciai andare come uno straccio sopra di lei, che mi tenne stretto, mi baciava il viso e mi accarezzava. Vidi che stava piangendo. “Perché-le chiesi? ” ” Perché tutto troppo bello e troppa fretta-mi rispose-io voglio bene tè, ma tu ha famiglia e io non vuole che tù fai soffrire tua donna. Poi Don Marino tuo amico , ma se lui sa che io e tù fa l’amore, lui contento? Io molto preoccupata, io viene con tè solo quando tù vuole, ma tù non fai soffrire tua donna. ” Che tenerezza mi fece con quegli occhi dolcissimi mentre mi disse di essere sempre a mia disposizione, ma che non voleva che mia moglie ! ne soffrisse. La riaccompagnai alla casa-accoglienza, Don Marino ci vide e squotè la testa, non era uno stupido e forse aveva capito che tra mè e Janet non c’era solo amicizia e basta. Da quella volta in avanti io continuai comunque a frequentare Janet anche se molto raramente. Quando la vedevo in ospedale, lei ogni volta mi strizzava l’occhio e mi faceva segno di seguirla nel ripostiglio del materiale per le pulizie. Si chiudeva dietro la porta, mi slacciava i calzoni inginocchiandosi davanti a me e partiva con quelle grosse labbra africane a succhiarmi l’uccello. Poi si alzava, mi girava la schiena si abbassava le mutandine e si faceva montare, era un tenero animaletto nato per fare l’amore. Quando io venivo, dentro di lei , aspettava che avessi finito, me lo prendeva di nuovo in bocca e me lo detergeva con la lingua. “Tù pulito, ora può tornare al lavoro! ” Io obbediente tornavo, sognando la prossima volta. FINE

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