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Il coraggio di cambiare

Tenerezza di mani che si poggiano su mammelle di creta e le modellano seguendo l’armonia del desiderio. Morbidezza di seni da latte, delicatezza di polpastrelli e di impronte digitali indelebili, riconoscibili a distanza di anni, lasciate sulla pelle, sulla carne, sul cuore. Dolcezza di capezzoli turgidi destati da irresistibili carezze e incapaci di acquietarsi se prima non dissetano una lingua calda. Bocca che si riempie di seno, mano che discende per il corpo e gioisce tra le gambe, piccolo membro avido di carezze da soddisfare…
– Ma che stai pensando, con quello sguardo beato… ? -. Giovanni – accidenti a lui – aveva sempre la capacità di farmi sobbalzare, di sorprendermi nei momenti meno opportuni, quando non badavo a lui, quando pensavo di essere a mille miglia dal pensiero per lui, quando le tante oscenità che avrei volentieri dedicato al rapporto con lui si trasformavano in idee languide, in desideri romantici che traducevo in versi stupidi vergati su poche righe del mio diario, del mio quaderno, del primo foglio sparso e sperso che ritrovavo davanti alle mie piccole mani incerte.
– Che scrivi? – diceva dopo essersi accorto del mio gesto colpevole, quello di chi si blocca improvvisamente dopo essere stato beccato con le mani nella marmellata. Io ci rimanevo sempre più spesso, nella vischiosa marmellata dell’amore inspiegabile che provavo per lui. Cercava allora di strapparmi la mia fresca creazione su carta dalle mani. Rosso fuoco di guance, improvviso calore che ti rende la mente confusa, secrezioni sudorifere sotto le ascelle, odore umano che si fa intenso come la paura che la marmellata improvvisamente si riversi sotto gli occhi della mamma mentre stai rovistando dentro il barattolo. Improvviso raptus da persona decisa.
– Niente, non scrivo niente -. Bugia. Sindrome da spia dei romanzi di Le Carrè, pronta a imparare a memoria e a ingoiare la formula magica dell’arma supersegreta ricercata dai Servizi segreti di tutto il mondo. Io nascondevo. Nascondevo sempre. Nascondevo la parte più oscura di me, riducendola a brandelli come i foglietti di carta su cui traducevo i miei desideri, le mie aspirazioni, il mio vero io. Estate siciliana, estate afosa, frinire di cicale. Caldo atomico, le tre e mezza del pomeriggio. Una tenda dentro un campeggio, un reggiseno in mano, due dita che stringono la bretellina, altre due in bocca, baci e sudore, calore e sfinimento, parole confuse, sussurrate. Nessuno potrebbe credere che io sia lì con lui, con Fabrizio. La gente boccheggia sotto gli alberi, i bambini – miracolo della natura – scorrazzano imperterriti tirandosi sacchetti pieni d’acqua, le mamme cinguettano stanche, i papà e i vecchi giocano a carte e noi due facciamo l’amore in tenda. Sesso bollente, nel vero senso della parola. Fabrizio è tenero, dolce, un pizzico bambino. Ha diciotto anni, due meno di me, ma fa l’amore come un quarantenne: esperto e abile, dotato, molto dotato e sensibile, resistente e generoso. Forte come un toro, abile nella monta come uno stallone. Mi ha conquistato in pochi giorni. Già nel vederlo mi si era acceso la classica corrispondenza di amorosi sensi, quella che fa di una persona il cerino, la capocchia di zolfo del fiammifero, e dell’altra la parte ruvida su cui si accende il fuoco. Non potevo però darglielo a vedere, lui non poteva darlo a vedere a me. Timidezza, salto a ostacoli di un amore difficile, fino a quando non è successo. Complice un bagno di mezzanotte. Tuffo nell’acqua che bolle anche se è buio da tre ore. Tenebre tutt’intorno, difficile distinguere i corpi e le anime che ti circondano: si fa casino ragazzi e ragazze, ci si schizza, si va sott’acqua, ci si bacia di nascosto e d’un tratto sento due mani che mi ghermiscono, due dolci ventose che vanno a rivestire le mie mammelle di creta e che le modellano seguendo l’armonia del desiderio… Terrore dell’incognito, paura del maniaco, effetto tonno finito nella rete della mattanza, disperato tentativo di sottrarsi alla presa. Voce rassicurante, sussurrata appena, soffio che rasserena le acque:
– Sono io, calma, sono io… -. Silenzio inspiegabile. Voci e schiamazzi che sembrano lontani chilometri e invece sono a un passo. Stiamo semisommersi dall’acqua buia, lui dietro di me, dolce, che mi tiene per le mammelle sode, io che non so fare altro che lasciarlo fare, lui che mi massaggia dolcemente, sputandomi acqua salata vicino all’orecchio e intanto mi cresce alle spalle, mi cresce nel fondoschiena, mi cresce nella virilità stretta al mio corpo sinuoso, abbronzato, che fa un tutt’uno col buio del mare.
– Che fai, che fai? -. Voce che è un’implorazione, non si sa se a smettere o se a continuare, voce che è un soffio che si perde nella brezza notturna, voce che è smorzata da una lingua veloce che colpisce il lobo, la gota, le labbra. Lingua nascosta nel profondo della bocca che si desta e va all’incontro dell’altra lingua: incosciente, incosciente, che fai, che fai, perché lo fai? Bacio di amore e sale, di acqua e soffocamento reciproco, di passione troppo a lungo repressa, bacio notturno, bacio sottomarino. Corsa veloce fuori dall’acqua, finalmente liberi, piedi e sabbia che ti entra dappertutto, corsa matta verso il campeggio, mano nella mano, a perdifiato verso la realtà, cerniera della tenda che si oppone e fa resistenza, poi finalmente cede. Tuffo ancora bagnati e insabbiati sul materassino… Penombra, musica del dancing in lontananza. Baci e dolcezza, lingue e amore, mani e sesso, morbidezza e durezza, emozioni e cuore in gola. Fabrizio è una gioia. Bacia da re, bacia dappertutto, morde, lecca, stressa i capezzoli per quanto li succhia, penetra da tutte le parti con le dita, asciuga l’acqua di mare e tira via il sale e sostituisce tutto con la sua saliva. Fabrizio è il fuoco, Fabrizio ama l’amore.
– Sei un gran maiale… – sospiro. Lo desidero, lo voglio. L’ho sempre voluto, perché non l’ho preso prima? Ho sprecato una settimana, quant’è che sono qui? , mi chiedo, ma perché me lo chiedo, che importa, adesso ce l’ho, l’ho preso, mi ha preso, mi sta prendendo…
– Il tuo è un seno fantastico – ansima, mentre se lo mangia – è tutto da baciare, da ciucciare, da mordere… Quanto mi piaci… -. Corpi avvinghiati in una canadese tre posti, lui che d’improvviso mi molla e prende in mano la sua virilità già sveglia, la sboccia, me la offre senza dire una parola. Mi chino su di lui, che mi prende tenero per i capelli e in quel momento, solo in quel momento, lo giuro, mi ricordo di Giovanni. Mi blocco, lui se ne accorge, si indispettisce, mi pressa il capo verso il basso. Resisto.
– Aspetta – chiedo con voce appena udibile – ti prego, aspetta un attimo -. Non capisce. È come un bambino privato del giocattolo più ambito nel momento in cui lo aveva conquistato. È aspro, adesso:
– Non ti va? Potevi dirmelo subito, risparmiavamo tempo… -.
– No, non è questo… -. Meno male che non me lo chiede, perché non saprei rispondere, non saprei dire cosa mi stia bloccando. Mi rimetto su, gli sorrido, ma lui nella penombra non indovina la mia dolcezza o forse non gliene frega niente.
– Giovanni – dico meccanicamente, senza nemmeno rendermi conto del nome che sto pronunciando. La mia mente si è impadronita della mia bocca.
– Sbagli anche il mio nome, adesso? -. È molto seccato, lo sento, lo vedo. Sorrido. Non ha capito. Meglio così. Mi proietto verso di lui, lo bacio che non se lo aspetta, torna a infuocarsi, mi guida la mano verso il suo sesso, stavolta non lo mollo più, lo scappuccio, mi tuffo. È un bastone grosso, rigonfio, mi sembra enorme. Lo vedo in primo piano, odora di alghe marine, entra ed esce dalla mia bocca, lo disegno con la mia lingua in lungo e in largo, con la mano lo porto su e giù, poi gli prendo i testicoli, li presso, li spremo.
– Troia… – mugola – Troia… -. Mi piace quando mi dicono le parolacce, mi dà forza, mi carica e così detto un ritmo più elevato ai miei movimenti già di per sé forsennati. Lui pare non reggermi e ad un tratto mi strappa via da sé, si impossessa della mia bocca, mi bacia appassionatamente, poi mi ribalta, mi mette spalle a terra, mi guarda dritto negli occhi, mi sfila gli slip… Penetrazione anale, incontro ravvicinato, ravvicinatissimo del secondo tipo. Il primo colpo è il più duro da reggere. Sto con le gambe spalancate ma mi fa male lo stesso. Forse si fa male anche lui. Si stacca, cerca sollievo inumidendosi le dita, mi accarezza e inumidisce anche me, poi riprende. Non ce la faccio. Devo urlare. La sua spada di carne mi strappa la pelle, mi fa male. Lui afferra il cuscino, me lo passa, comincio a morderlo. Vedo le sue braccia forti piantate da un lato e dall’altro, accanto a me, come le basi di un ponteggio. Grida anche lui, gli do la metà del cuscino, ma intanto sfonda le mie cosce, infuoca le mie viscere, sento le budella contorcersi. Affonda i colpi, sempre più deciso, mi fa alzare le gambe, adesso è appoggiato sopra di me, che sono in una posizione stranissima, raggomitolata, le cosce che aderiscono al suo torace muscoloso, i polpacci sparpagliati in malo modo sulle sue spalle. Si muove e scatena il mio piacere, le mie emozioni, le mie voglie. Grido disperatamente, ma nessuno può sentirmi perché scarico tutti i miei decibel nel cuscino. Solo lui mi sente. Mi sente in tutti i sensi, mi sente sempre più profondamente. Capisco che sta per arrivare: adesso è più veloce, s’è aperto una strada dentro di me, la sfrutta per movimenti sempre più rapidi. Tira fuori il suo membro giusto in tempo per inondarmi di calore, il calore del suo piacere e in quello stesso, preciso, identico momento godo anch’io. Reggiseno in bocca, Fabrizio si è addormentato dopo aver fatto l’amore con quel caldo infernale. Farebbe sesso dalla mattina alla sera, senza stancarsi mai. Non sono solo io il suo amore, è certo: spesso sfila via senza dir nulla, non si vede per un paio d’ore e poi torna e si infila sotto la doccia, muto come un pesce. Del resto, cosa potrei pretendere? Lo scosto da sopra di me, resto a guardare la bretellina del reggiseno che gli è rimasta in bocca e solo ora guardo il colore e vedo che è senape. Mi sta bene, con l’abbronzatura. Anche lo slip, che ho reindossato dopo l’amore, sembra ritagliato su misura per me. Peccato che l’abbiamo preso in prestito dalla vicina di tenda, che per ora sta al mare col suo moroso. Poco importa, glielo restituiremo stasera, quando Bruna e Fabio torneranno dalla spiaggia. Magari ceneremo insieme. Lei non si accorgerà dell’eccitante (per me e Fabrizio) furtarello. O forse sì, ma che importa? Rideremo assieme, berremo qualcosa, tireremo tardi, come sempre. Io e Fabrizio stiamo insieme da ormai una settimana e per sette giorni consecutivi, grazie a lui, non ho pensato a Giovanni. Non mi succedeva da anni, ormai. Ma ora che si avvicina il momento della fine delle vacanze si reimpossessa di me la paura di tornare indietro. Tre mesi prima, primavera veneta fatta di pioggia e nebbia, desiderio di sole, sole sempre malato, inevitabilmente raffreddato. Stiamo studiando. Scienza delle Finanze? Economia politica? Diritto tributario? Che ne so. Io studio attentamente Giovanni. Lo studio da tempo, conosco tutto, di lui: il modo in cui respira, di quanti millimetri si gonfia il suo petto quando inspira, quante volte in un minuto batte le palpebre…
– Sono stanco – dice a un tratto – non ce la faccio più. Basta, andiamocene al mare! -.
– Sarebbe bello – sorrido – se solo non piovesse… -. Fa spuntare il sole con un sorriso dolce:
– Il sole c’è, basta salire col pensiero oltre le nuvole, superare la nebbia col desiderio… Eccoci lassù, lo vedi? -.
– No – lo disilludo – vedo solo questo dannato tetto -. Mi guarda cupo, come se gli avessi abbattuto l’aquilone che aveva finalmente spiccato il volo. Vuole punirmi, lo sento. Adoro quando mi punisce, perché in genere quando lo fa mi mette le mani addosso.
– Tu vedi solo il tetto, eh? – ringhia. Si prepara all’assalto. Mi preparo ad accoglierlo.
– E io… io vedo solo tette!! -. Eccolo, finalmente. Mi si lancia addosso ridendo, le sue mani sono una piovra, tentacoli che si infilano per ogni dove, fianchi, ascelle, spalle, schiena, gambe, pube e finalmente arrivano a destinazione.
– Lasciami – lo imploro, senza una briciola di sincerità – smettila! -. Lui è attaccato al mio piccolo seno, non ha la benché minima intenzione di mollarlo. La mia resistenza è fioca, appena accennata.
– Seni da latte… – sussurra massaggiandoli – quando me ne farai bere un po’? -.
– Smettila! – lo rimprovero, mi tiro via
-. Sempre la stessa storia, ma non ti stanchi? -.
– Mi piaci, mi fai impazzire… Anch’io ti piaccio, perché ti neghi? -. La sua voce ansiosa mi disorienta, nel pormi un quesito che mi fa arrovellare, tutte le volte che godo in solitudine pensando a lui.
– Sei pazzo – rispondo mentendo – sei del tutto anormale…
– Anormale perché? – grida, quasi
-. E chi è normale, fra me e te? E cos’è la normalità, per te? Idiota! -. Adesso è violento. Mi tira su a forza, mi prende per un braccio, mi trascina davanti allo specchio. Mi fa male al braccio, mi fa male al cuore.
– Cos’è la normalità? – grida indicando lo specchio, la mia immagine riflessa. Meno male che siamo soli in casa, nessuno può sentirlo.
– Ti prego, calmati – gli dico. Ma non c’è verso.
– Guardati, cazzo, guardati! Cos’è la normalità? -. Mi afferra una tetta, stavolta non oppongo resistenza. La prende con la mano, la mette in evidenza: è piccolina ma al tempo stesso soda, gonfia, si nota sotto la camicia a distanza di decine di metri. Insiste:
– Cos’è la normalità? Questa? -. Mi fa girare, adesso mi acchiappa una natica tornita
-. O è questa la normalità? E allora sapete cosa vi dico, mademoiselle? – si inginocchia goffo
– Volete sposarmi o quanto meno fidanzarvi con me? Questa, questa, questa è la normalità! Renditene conto! -. Si aggrappa a una mia coscia: è sconvolto, paonazzo, furente. Il cuore cavalca le praterie del mio petto a tutta velocità. Gli carezzo i capelli. L’eccitazione mi divora, la voglia di dirgli di sì mi sta sopraffacendo.
– Perché vuoi proprio me, Giovanni? Con tante belle ragazze pronte a caderti ai piedi, perché vuoi giusto me? -. Alza gli occhi, adesso sente la mia mano che vorrebbe quasi strappargli i capelli, per quanto lo desidero. Ne approfitta, insinua la sua mano sotto di me, mi tocca proprio dove i due glutei si toccano, percorre in libertà lo spazio lì sotto. Il suo gesto mi prende alla sprovvista, mi rende molle, arrendevole. La testa si stringe al mio seno e in un istante la sua bocca è appiccicata alla mia camicetta lieve, che lascia trapelare la mia forma sinuosa e i miei capezzoli impazziti, che aderiscono alle ventose delle sue labbra.
– No, ti prego… Non rovinare tutto – sibilo.
– Sei tu che rovini tutto… – insiste lui. Mi prende per le caviglie, mi fa perdere l’equilibrio, volare per terra. Atterro sicura tra le sue braccia forti. È sopra di me, a distanza di pochi centimetri dalle mie labbra.
– No, non farlo… – ma lui è già partito. Lo evito, il bacio si posa sulla guancia accaldata, scende lungo la giugulare, risale verso il lobo. La sua lingua finalmente imperversa libera su di me, si insinua nel mio padiglione auricolare, la saliva e l’umido della sua carne mi danno una scossa che mi fa drizzare, sobbalzare, ma le sue braccia forti mi ghermiscono. Sono in prigione e non ne voglio uscire, sconterei volentieri l’ergastolo in quella posizione, sulla moquette calda e ruvida.
– Lasciami, lasciami – insisto, ma sono un raro esempio di lingua biforcuta.
– Amore, amore mio – soffia lui tirandomi via la camicia a forza. Adesso il mio seno è nudo davanti a lui, si illumina il suo sorriso, lo rende ancora più bello.
– Amore mio – rispondo con convinzione. Fu pomeriggio di primavera veneta nebbiosa e piovosa, di sesso e piacere, di godimento e di liberazione, di gioia e di desiderio. Fu pomeriggio che trascorsi a giocare con l’amore, col suo sesso avido, che ingoiai il suo seme, che ripulii la sua virilità esplosa di piacere con la mia lingua finalmente gioconda. Fu pomeriggio di dolore e di penetrazione, di profilattico usato per farmi meno male e di godimento intenso. Fu pomeriggio concluso sotto una doccia dove ci mostrammo nudi nudi senza inibizioni e freni e dove ricominciammo il gioco e dove incredibilmente la sua carne si risvegliò ancora e dove la mia carne lo ricevette ancora e stavolta non lo fece uscire mentre godeva infiammandomi le budella e riempiendole di un calore che arrivò senza barriere su su, fino al cuore. Fu pomeriggio che si concluse davanti a uno specchio di fronte al quale finimmo nudi, avvolti nella stessa tovaglia. Fu pomeriggio in cui lui prese una delle mie mammelline di creta da modellare – come le aveva definite la prima volta che me le aveva viste nude, in piscina – e orgoglioso la mostrò allo specchio come propria conquista.
– È questa – domandò ancora – è questa la tua normalità? -. Bruna quel pomeriggio d’estate siciliana afosa e caldissima tornò sfinita prima del tempo. Fabio l’aveva lasciato a dormire sotto l’ombrellone e lei era risalita dal mare per fare la doccia. Avvolta in una tovaglia dorata che sembrava un tutt’uno con la sua pelle abbronzata e odorosa, andò in cerca del suo costume color senape. Non lo trovò, fece un rapido giro, poi rinunciò e venne a toccarmi con l’alluce la punta del piede, che fuoriusciva dalla tendina.
– Roberto… Roberta – si corresse prontamente – mi ridai il costume, tesoro? Mi destai di botto, in un lago di sudore. Fabrizio non c’era più, il reggiseno stava dal suo lato e dentro c’era infilata una romantica margheritina. Il mio sesso nel sonno aveva avuto un’erezione spontanea e mi vergognai come un bambino. Bruna non era tipo da imbarazzarsi. Si accovacciò, aprì la tendina, mi sorrise dolce.
– Come cavolo fai a dormire qui dentro, con questo caldo? -.
– È l’amore – mi giustificai. Ridemmo di gusto. Bruna era materna e comprensiva. Aveva capito subito la situazione e aveva cominciato a prestarmi i suoi pareo, sandali col tacco (aveva un piedone, per essere una donna, io avevo un piedino, per essere un uomo), qualche costume. “Devi vestirti da donna, se ti senti donna”, mi aveva incoraggiato più di una volta. Mi aveva aiutata a depilarmi, a vestirmi, a truccarmi. Tutte cose che avevo sempre fatto, ma solo per me stessa, quando ero ancora repressa e sapevo godere esclusivamente da sola, magari dopo essermi vestita da perfetta femmina. Uscii dalla tenda, mi infilai un costumino e mi coprii il seno con un pareo. Bruna prese una coca e la divise in due bicchieri.
– Io queste tette proprio non le capisco – disse seduta di fronte a me – come fai ad averle così? Per poco non sono più grosse delle mie -.
– Natura – risposi – non lo so nemmeno io. Le ho sempre avute così -.
– E come hai fatto, nella vita? Insomma, se a mare non ti copri ti guardano tutti. Con questo visetto dolce, efebico, che ti ritrovi, sembri una ragazza in topless… -.
– Un po’ di disagi li ho avuti, sì -. Guardai nel vuoto e rividi di fronte a me Giovanni e gli altri desideri oscuri della mia adolescenza.
– Immagino, piccola cara – disse lei prendendomi teneramente una mano e portandosela alla bocca. La guardai stranita:
– Che fai, ci provi pure tu? -. Lei rise e per poco non sputò la coca cola:
– No, no, tranquilla… Credo di essere una delle poche persone che non ti concupisce… O forse sì, chi lo sa? – aggiunse con un sorrisetto ambiguo.
– Il fascino del diverso – commentai amara. – Il fascino del dolce – mi corresse lei
-. Con Fabrizio come va? -.
– Alla grande. È un toro scatenato – sorrisi e trovai subito la complicità di lei
-. Uno stallone che non si stanca mai… Per lui uomo, donna o trans non fa differenza. Purché si possa montare… -.
– Cosa hai deciso, per dopo? -. Il mio sguardo si smarrì di colpo.
– Dopo? No, non farmici pensare, ti prego… -.
– Vuoi insistere? Tornerai a casa vestita… così? -.
– Perché mi ci fai pensare? Non essere crudele, dai! -.
– Non puoi sfuggire a te stessa in eterno… Devi decidere! Carne… – e mi posò una mano delicata su un seno – o… pesce? – e allungò, senza arrivarci, la mano fin laggiù.
– Allora ci provi sul serio! – insistetti. Effettivamente Bruna mi stava disorientando. Non era mai stata così. Pensai a un effetto della canicola.
– Hai mai baciato una donna? – la domanda voleva essere insidiosa. Gli occhi volevano essere lascivi, invitanti. Fu un attimo. Lei mi si accostò, mi baciò sulle labbra, istintivamente risposi e le nostre lingue si allacciarono per un istante. Aveva un sapore dolce, tanto diverso da Giovanni, da Fabrizio.
– Bruna, ti prego, se torna Fabio o se viene Fabrizio… -.
– E che ti frega? -. Mi baciò di nuovo. Stavolta fu più intensa, lunga, miele che si posa su un’ape e la sommerge. Mi sentii risvegliare laggiù.
– Vuoi scopare? – dissi brusca.
– Che brutta parola! – protestò lei.
– Chiamala come vuoi… -.
– No, non voglio scopare o fare sesso o fare l’amore, come preferisco ancora dire io. Volevo solo dirti che ti voglio bene e te l’ho voluto dimostrare -.
– Anch’io ti voglio bene, Bruna… – dissi prendendole una mano – e ti sono grata perché mi stai insegnando a essere una donna. Però nonostante tutto non so come farò a tornare a casa, a dirlo ai miei, a ripresentarmi agli amici, a reggere i loro sorrisini, a sentire i loro “lo sapevo, io”… Non lo so davvero. So per certo cosa farò con Giovanni -.
– Il grande amore della tua vita? -. Con Bruna mi ero confidata a fondo.
– Yes -.
– E cosa farai? -.
– Lo sputtanerò davanti a tutti -. Bruna mi guardò con occhi increduli.
– Faresti questo all’uomo che ami? -.
– Sì. È stato lui a farmi scoprire che io sono così. Deve essere punito -.
– Non ti credo. Non credo che sapresti fargli del male -.
– Glielo farò, Bruna -.
– Perché? -. Mi fermai. Occhi di cielo, quelli di Bruna. Meravigliosa ragazza veneta, mora, capelli lunghi, belle tette. La voglia di saltarle addosso era una voglia un po’ lesbica, lo ammetto, ma c’era. Però in quel momento volevo parlarle di Giovanni.
– Gli farò del male, tanto male. Andrò da sua madre, gli dirò che mi ha posseduto. Girerò tutti i posti in cui frequenta ragazze, gli darò del frocione. Farò piangere suo padre, lo spingerò sull’orlo del suicidio. Meglio, anzi, se si ammazzerà sul serio… -.
– Tu sei matta… Sei un mostro! Non ti credo! -.
– Non ci credo nemmeno io, Bruna! Però devo riuscirci! Devo trovare la forza! Devo! Devo! – e lì mi bloccai perché scoppiai in un pianto dirotto. Lei mi passò una mano tra i capelli.
– Ma perché, gioia, perché questa crudeltà? -.
– Perché devo allontanarlo da me! Devo salvarlo! -.
– Ma che dici? Lui ti ama… -.
– No, che non mi ama! -.
– Sì, che ti ama -.
– Ma io lo amo di più. Ho sempre sognato per lui una vita felice… con me, con un frociazzo, con un culattone, con un travestito, nella migliore delle ipotesi un transessuale, sarebbe un inferno, per lui… Vedi le coppie gay che adottano figli, vedi l’emarginazione, la sofferenza, gli ostacoli di sempre? Nessuno è libero, perché anche nel Tremila i froci saranno sempre froci e non ci sarà speranza di normalità. Non sono normale, Bruna, non sono normale – singhiozzavo – anche se ho le tette e non me le gonfio col silicone o con gli ormoni, non sono normale anche se quasi non ho barba, non sono normale anche se la mia voce è delicata e non me la devo cambiare, non sono normale anche se col tuo costume indosso attraggo uomini e donne… Non sono normale anche se so amare, Bruna, e so che lui dovrà staccarsi da me, dovrà odiarmi… solo così potrà essere felice -.
– Sei cattiva con lui. Se ti ama, lo farà comunque -.
– No, Bruna – dissi prendendole una mano – scapperò da lui. Non ho il diritto di prendermi la sua vita, dopo aver cambiato la mia. Voglio che si sposi, che abbia dei bambini, che ogni tanto si ricordi di me e che pensi che sì, in fondo è stato bello e che è più bello ancora perché è finito. Se dura a lungo, non potrà essere mai bello… -. Bruna mi abbracciò forte, mi baciò tenera su una guancia. Sentii il suo seno grosso e morbido poggiarsi, aderire alla perfezione al mio. La desiderai, ma la allontanai da me.
– Amerò solo chi non mi ama, Bruna, lo prometto… la mia anima ama con tutta se stessa, il mio corpo non può che provocare infelicità -.
– Non è vero – obiettò lei – ma il tuo cuore è grande. Troverai l’amore che cerchi, prima o poi e dovrai arrenderti -. Occhi dolci, quelli di Bruna, occhi come il cielo.
– L’amore – le risposi – avrà il colore dei tuoi occhi, la dolcezza del tuo spirito, la freschezza della tua carne. Vorrei tanto somigliarti, non solo nel fisico, ma anche nell’anima. La mia è prigioniera di questo corpo che non mi appartiene e che mi rende cattiva -. Mi alzai, filai sotto la doccia. Sotto l’acqua fredda le mie mani modellarono le mie tettine… Tenerezza di mani che si poggiano su mammelle di creta e le modellano seguendo l’armonia del desiderio. Morbidezza di seni da latte, delicatezza di polpastrelli e di impronte digitali indelebili, riconoscibili a distanza di anni, lasciate sulla pelle, sulla carne, sul cuore. Dolcezza di capezzoli turgidi destati da irresistibili carezze e incapaci di acquietarsi se prima non dissetano una lingua calda. Bocca che si riempie di seno, mano che discende per il corpo e gioisce tra le gambe, piccolo membro avido di carezze da soddisfare… FINE

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