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Nottate particolari

Erano le undici meno tre quando alzai gli occhi dal giornale, interrotto dal suono del citofono. Non c’erano comunque buone nuove quel mattino. Era il postino con un plico. Un giovanotto dall’aria linda che mi consegnò un pacco in formato commerciale in cambio di denaro. Non disse una parola ma ebbi l’impressione che mi guardasse storto. Gli sbattei la porta in faccia. Aprii l’involucro e dentro vi trovai lo stampato del mio romanzo, unito a una lettera di accompagnamento Mi sedetti sulla poltrona con il pacco sulle ginocchia.
– Siamo spiacenti di comunicarle che il romanzo da lei inviato non rientra nelle linee editoriali della nostra casa editrice, pertanto le consigliamo… bla bla bla. – Avrei voluto sentirmi offeso. Avrei voluto stracciare la lettera o, magari, mettermi a sbraitare. Ma, al diavolo, era la quinta che ricevevo dello stesso tenore. Mi alzai, andai per un poco su e giù con il pacco in mano. Alla fine, senza guardarlo, lo misi da parte.
Ammettilo, questo romanzo lo hai scritto soltanto perché non avevi nulla di meglio da fare, mi dissi a voce alta. Non c’è realtà, ma solo sciocche fantasie. Mi fermai al centro della stanza e scoppiai a ridere. Poi sedetti di nuovo sulla poltrona, mi sfregai pensoso l’orecchio che mi fischiava, mi toccai il naso e controllai l’orologio. Erano le undici e quattordici minuti. Mi sentivo confuso. E stanco. Stanco di ogni cosa, ma soprattutto di scrivere inutilmente. Dopo un mezzo minuto mi addormentai.
Quando mi svegliai, alle sei in punto, avevo gli occhi gonfi e arrossati, ma ero vulcanico e ghignante. Nella stanza dominavano l’odore del jack daniel’s e l’aria viziata dal fumo. Andai sul terrazzo e rimasi per qualche minuto a respirare la brezza sottile e tagliente. Poi accesi una sigaretta e me la ficcai in bocca. Molte automobili erano ferme ai due lati della strada.
Tutto era tranquillo. Non si muoveva nemmeno un cane. Scrollai le spalle e decisi che avrei mangiato un boccone in un ristorante del centro. Feci la doccia, mi sbarbai, mi cambiai e cominciai a sentirmi pulito. Niente nuove sulla tele, la politica seguiva un nuovo vecchio corso e la guerra in atto languiva. Quando uscii, un fiume di pendolari ritornava verso le grigie abitazioni della periferia. Mi sentivo onnipotente.
Ero seduto in un tavolo in fondo alla sala. Poco più in là un uomo molto giovane, con un gran ciuffo di capelli biondi e ondulati, stava discutendo con una ragazza in un minuscolo abito rosso. Incantevole. Lui sembrava sbronzo, lei sobria e infastidita.
– Non mi ami più – disse lui.
– Non continuare a tormentarmi – replicò seccamente lei. – A te non serve una donna ma qualcuna che ti consoli. –
– Ti prego… non parlarmi in questo modo. – La voce di lui era piagnucolosa. – Sei molto importante per me. –
– Ah, non ne dubito- rispose con un sibilo la donna. Ma la cosa dovette divertirla, perché rise. La sua risatella argentina durò per qualche secondo. – Mi ami come hai amato quella sgualdrina della tua collega, immagino. –
– Ma che dici? Ancora questa storia… –
– Crepa! – ribatté lei. Poi s’alzò e con passo da regina di Svezia s’incamminò verso i bagni. La scia di profumo, dolce e frastornante come un ciclamino in fiore, la seguì a sei o sette metri di distanza senza mollarla.
Io mollai la sua schiena non appena la porta del bagno si chiuse dietro di lei.
Schioccai le dita verso il cameriere e mi accesi una sigaretta mentre s’avvicinava con aria interrogativa.
– Un bourbon – dissi. – Con ghiaccio. –
Al quarto, capii che era ora di rientrare.
Alle dieci e ventisei ero di nuovo a casa. Misi il caffè sul fuoco e poi appesi il soprabito nel guardaroba. Rientrai in cucina mentre il caffè finiva di uscire. Spensi il gas, e poggiai la caffettiera sul tavolo. Versai il caffè. Entrai nell’altra stanza, ne bevvi un paio di sorsi e lasciai la tazzina sulla scrivania. Accesi la tele e cercai un film. Perché riferisco tutti questi particolari? Perché mi sentivo carico di tensione e tendevo a ingigantire ogni piccola cosa: pareva che ogni gesto acquistasse risalto e sembrasse molto importante.
Alla tele trovai un film in bianco e nero, uno di quei polpettoni tutti cristalli e cromature, dove tutti sorridono troppo, parlano troppo e lo sanno. Le donne non fanno che salire lunghi scaloni ricurvi, per andare a cambiarsi d’abito, e gli uomini nient’altro che tirar fuori sigarette da astucci di lusso e accendersele l’un l’altro con accendisigari di lusso,
mentre la servitù si faceva la gobba a forza di portare vassoi di bibite da una terrazza fino a una piscina più o meno dalle dimensioni del lago di Bolsena, ma molto più pulita. Il primattore era un amabile guitto carico di un fascino che pian piano stava diventando rancido. La diva era una bruna arrogante dagli occhi dispettosi che, in un paio di cattivi primi piani, mostrava i segni dei suoi sforzi erculei per tenere lontana la quarantina.
Mi rigiravo una sigaretta fra le dita e mi gustavo il film.
All’una e cinquantasette decisi che potevo uscire di nuovo. Avevo voglia di percorrere solo soletto le strade della notte, bevendo whisky e occhieggiando qua e là in cerca di occasioni. Soffiava una tramontana che costringeva i barboni sotto i portici della stazione a una razione supplementare di vino in scatola di cartone. Aumentai la temperatura nell’auto fino a ventidue gradi.
Mi fermai, e accesi una sigaretta guardando l’insegna al neon di un bar.
Anche un altro guardava quell’insegna. Fissava, anzi, quelle vetrine polverose, con l’espressione estatica di chi vede per la prima volta una bella donna. Era un uomo sui quaranta, non più alto di un metro e settanta, e non più largo di un barile di birra. Si trovava a tre o quattro metri di distanza da me, e una sigaretta dimenticata gli fumava tra le dita. Neri smilzi passavano su e giù per la strada, e gli gettavano un’occhiata. In verità, l’uomo meritava d’esser guardato: portava un cappello felpato e una giacca grigia, ma sportiva con bottoni grandi come medaglie olimpiche, camicia scura, calzoni di flanella grigia e scarpe di coccodrillo. Dal taschino della giacca, zampillava un fazzoletto, color rosso vivo. Nel nastro del cappello erano infilate un paio di piume colorate, di cui non si sentiva alcun bisogno. Anche in quella stazione, che non è certo la più tranquilla del mondo in fatto di vestiti, quell’uomo aveva un aspetto fuori posto come tre mosche su una torta nuziale.
Scesi dall’auto per sgranchirmi le gambe. L’uomo se ne stava lì immobile come una statua. Gettò il mozzicone di sigaretta ormai spento e ne infilò un’altra tra le labbra. Si girò nella mia direzione e sorrise. Poi brontolò qualcosa tra i denti. Non fiatai. Stetti a guardarlo mentre tirava fuori dalle tasche un accendino d’oro per accendersi la sigaretta. Soffiò e riattaccò a brontolare. La cosa non mi riguardava. Avevo superato da tempo l’età in cui si prova gusto a cercar di comprendere le parole di un pazzo.
Mi accesi una sigaretta e sbuffai in alto il fumo. Una nuvola azzurrognola si stagliò nella zona d’ombra sopra la scaglia di luce proveniente dal neon.
Entrai nel bar e ordinai un caffè.
– Cerchi compagnia? – chiese una ragazza che subito mi si fece affianco.
Ventidue, ventitré anni, una moretta dal collo agile, minigonna mozzafiato, calze a rete e tacchi a spillo. Una puttana di una certa classe.
La guardai per una ventina di secondi dall’alto in basso. I suoi capelli mi sfioravano il mento. – Se l’avessi pensato ti avrei già fatto una proposta – dissi, mescolando lo zucchero nel caffè.
Scosse la testa e fece una faccia fintamente imbronciata. – Perché, non fai mai delle proposte alle donne nei bar? –
– Non accade spesso. C’è troppa luce. –
Mi osservò più attentamente, da capo a piedi, soffermandosi sul taglio impeccabile del mio abito blu, ma sforzandosi visibilmente di catalogarmi in qualche specie del sesso maschile. Dietro di lei, una sua amica, capelli castani, truccata come Liz Taylor in Cleopatra, e abbigliamento adeguato alla bisogna, sorrise.
– Eppure molte uomini vengono in questo bar per fare delle proposte – insisté la moretta.
– Molte donne si alzano ogni mattina con l’idea di accettare delle proposte nei bar. –
– Ci offri da bere? –
– E voi cosa avete da offrire? –
Si voltò verso l’amica ammiccando. – Tutto quello che vuoi. Dipende solo dalla tua disponibilità. –
Le gratificai di una lunga occhiata. Lo sguardo superò le creste dei loro capelli e s’andò a fermare sulla faccia di un tizio poco più in là. I poliziotti, anche quando non sono in divisa, si riconoscono per gli occhi infossati e cerchiati di scuro.
– Allora ti sei convinto? – mugolò la mora con una vocetta tremula, cercando di trafiggermi con le lame nere dei suoi occhi.
– Forse. –
– Non sei obbligato a prenderci tutt’e due – soffiò, con un singhiozzo. – Se vai di corsa ci possiamo arrangiare in macchina – disse, ruotando lentamente la lingua sulle labbra in gesto di incredibile malizia. – Hai capito cosa intendo?
– Ho capito. Grazie. –
– Mi sei simpatico. Ti faccio uno sconto… –
Occhi infossati si voltò nella nostra direzione.
– Sarà per un’altra volta – dissi, facendomi largo verso la cassa.
Alle tre e trentacinque entrai al Roxy, discoteca e piano bar. Un locale di un quartiere appena riqualificato. Cosa che gli aveva fruttato una pagina sui quotidiani locali e un trafiletto su quelli nazionali. Mi ero documentato prima di decidere la visita. Ordinai un whisky e stetti per una decina di minuti ad ascoltare una mandria di professionisti che accompagnavano il pianista aspettando che calasse l’effetto della coca per andare a dormire un paio d’ore, prima di ricominciare la giornata.
Una coppia si fece strada verso il banco e si mise al mio fianco. Lei aveva i capelli tinti rosso rame e la pelle brunita dalle lampade. Indossava un abito che costava un occhio della testa, che doveva esserle piaciuto per averlo visto indosso a una modella alta una ventina di centimetri più di lei ma molto più magra. Ordinò un bicchiere di champagne.
– è ottimo – disse con troppa affettazione, dopo averlo sorseggiato.
Si stava rivolgendo a me. Mi limitai ad annuire e guardai, al di sopra del bicchiere, il suo naso affilato. D’improvviso si mosse verso di me. – Puoi baciarmi, se ti fa piacere – flautò provocante, con un movimento del collo.
Non mi mossi. Lei posò il bicchiere, rovesciò il capo all’indietro, chiuse gli occhi e tese la braccia evitando solo per un pelo di colpirmi in un occhio. La coca con lo champagne doveva farle uno strano effetto. La rossa riaprì gli occhi, afferrò il bicchiere e mi fece l’occhiolino.
L’uomo, un tale con una faccia sportiva, mi scrutò stando dietro di lei.
Aveva i capelli corti e una giacca che non mi piaceva. Accarezzò la testa della donna.
– Andiamo, è ora di tornare a casa. –
La donna si voltò di scatto verso di lui: aveva lo sguardo furibondo. – Puoi andarci da solo – disse gelida.
– Oh, senti… – bofonchiò lui, toccandola sulla spalla.
– Toglimi quelle mani di dosso – strillò lei. Un attimo prima di gettargli in faccia quel che restava del bicchiere.
– Cazzo! Ma sono tuo marito! – urlò l’altro, strappandosi un fazzoletto di tasca e asciugandosi in viso.
Lei si voltò verso di me. Non c’era più champagne nel bicchiere, e sperai che non decidesse di liberarsi anche di quello.
– Hai capito? Sono tuo marito! – ripeté il maschiaccio.
– Vedi quest’uomo che ti sta di fronte? – strillò lei, rivolgendosi a me, e facendo voltare gli altri clienti. – Quest’uomo è un fallito. Ha una bella casa in un elegantissimo quartiere nel quale dimorano pochi e selezionati milionari. Ma è solo un farabutto, che mi usa come un soprammobile. –
Ormai tutti s’erano voltati nella nostra direzione per gustarsi l’idilliaca scenetta familiare. Dal canto mio continuai a sorseggiare il whisky. Non avevo intenzione di perdere una battuta.
– Ha quattro auto, potenti e costose, ma è marcio dalla punta dei piedi alla cima dei capelli. Preferisce le prostitute alla sottoscritta. Capito? –
Mi scoccò un’occhiata che avrebbe dovuto trafiggermi, e fuoriuscirmi di almeno dieci centimetri dietro la schiena. Non battei ciglio. Sono uno di quei tipi disincantati sul modo in cui i quattrini a palate possono influenzare la personalità. Lasciai sul tavolo delle monete sufficienti per pagare il conto e gettai uno sguardo malizioso verso la donna.
– Le prostitute… – ripeté con disprezzo.
Non persi tempo a rifletterci su. – Quelle d’alto bordo? – chiesi. Ma aveva troppo da dire a suo marito, per rispondermi.
Mi avviai verso la discoteca. Non avevo voglia di incontri al buio. Niente annunci, stavolta. Volevo prima vedere la merce con i miei occhi. E non tardai a trovare ciò che cercavo. Fissò per un attimo nella mia direzione.
La notte schiariva quando ci infilammo nel cancello della mia abitazione.
Qualche minuto dopo era già nuda. Aveva un seno abbondante e sodo, con le punte scure delle mammelle rivolte all’insù, fresche e provocanti. I fianchi robusti, con una prosperità a far da sfondo al grande triangolo chiaro che spiccava in mezzo al corpo. Peli biondi, e non crespi, al tatto sembravano quasi fili di seta. Le gambe erano robuste e ben affusolate, la pelle morbida e delicata. Si rimirava nello specchio e si vedeva bella.
Mi strizzò l’occhio. – Andiamo sul letto?
– No! Lo facciamo qui, sulla poltrona! – gli risposi.
Mi chinai per baciarle il sesso. Lei aprì le cosce al mio viso. Piena d’amore la mia lingua scivolava sopra l’umida pelle desiderosa. Era eccitata. Le accarezzai il seno. Poi salii alla sua bocca e la baciai. La ragazza succhiava la mia lingua con avidità. Quando toccò la mia asta rigida, si lasciò sfuggire un sospiro. Era finalmente pronta a unirsi a me.
Volevo sentirla in profondità. Volevo che il nostro amplesso fosse simile a una tempesta che la trascinasse inesorabilmente su cime luminose. Si sdraiò per quanto poteva sulla poltrona. In ginocchio per terra, entrai in lei, che mi accolse con un gemito rauco. Mi muovevo lentamente assaporando il piacere.
– Spingi più forte – reclamò, mentre le sue mani si comprimevano sulla mia schiena, dove i muscoli lavoravano come piccoli animaletti indiavolati.
La sua richiesta mi eccitò maggiormente. Iniziai a spingere con forza, quasi una dolce violenza che la faceva sobbalzare sulla poltrona. Era straordinariamente aperta, e mi voleva. Godeva nel vedermi agitare dentro di lei.
Come presa da un raptus, si sottrasse, mi spinse via. Poi si mise carponi.
– Prendimi dietro! – pregò.
Mentre entravo in lei, sbirciai il suo viso, il sudore gli donava brillantezza. Sentivo i suoi gemiti ansanti mentre le toccavo la clitoride.
L’altra mano raggiunse il suo volto, con un dito a sfregarle le labbra. Lo mordicchiò, mentre il sangue affluiva al mio sesso.
– Com’è grosso! Com’è grosso! – sussurrò, sbirciandomi un attimo.
Nei suoi occhi, improvvisamente dilatati, apparve una lussuria, una carnalità lungamente repressa, un’espressione di piacere che mi colpì nel petto come un maglio. Le afferrai i fianchi e la scossi violentemente, mentre udivo soffi rauchi uscirle dalla gola.
– Com’è grosso! – ripeté, afferrandosi con forza ai braccioli della poltrona.
Si aprì ancora di più. Quando l’orgasmo l’afferrò, si lasciò travolgere con estrema dolcezza.
Rimanemmo un bel po’ abbracciati sul pavimento. Quando il gelo si fece sentire ci sdraiammo sul divano, mentre lei sorrideva contenta. Mi accesi una sigaretta. Lei mi parlò dei suoi progetti. La lasciai dire; ascoltavo, la guardavo, vagavo con gli occhi sul suo corpo. Poi, d’improvviso, la vidi afferrata da nuova frenesia. Toccò il mio cazzo con la punta delle dita, lo trastullò, ci giocò, finché i miei muscoli rilassati si tesero di nuovo.
Allora si chinò su di me e prese la punta violacea tra le labbra, iniziando a succhiarla, mentre con una mano lo impugnava alla radice e con l’altra cercava di dare sollievo a se stessa. Il mio cazzo brillava della sua saliva. La punta era turgida e rosa. Mi piegai anch’io.
Il suo sesso era all’altezza del mio viso. Mi avvicinai a lambirlo.
Intravedevo la sua bocca leggermente aperta, in attesa. Non mi mossi, finché non fu lei a venire verso di me. Aprii la mia bocca. Il suo corpo era teso, contratto. Entravo e uscivo con la lingua, mentre sentivo il suo ventre scosso dalle convulsioni.
Si staccò da me all’improvviso. – Dai, dai… vieni… Così! Mi piace! – mi incitò.
Con una mano si masturbava. Il suo viso era tirato, i seni bruciavano.
Leggevo nei suoi occhi la lussuria mentre il mio cazzo entrava e usciva dalla sua bocca. I miei nervi eccitati si preparavano alla distensione.
Proprio alla fine, quando stava per avvenire, sollevò di scatto il capo e mi afferrò il cazzo con una mano muovendola velocemente.
– Voglio vedere! Vieni! Ora, oh sì! Adesso… – sussurrò con voce rotta.
Il mio corpo si contrasse ritmicamente. Poi, finalmente, vidi uscire dalla piccola bocca il getto argento della mia virilità. Convulsamente, nell’estasi, posò le sue labbra sulla cupola rossa. La forza vitale zampillò calda verso di lei, scivolando lentamente sulle labbra.
Un paio d’ore dopo avevo già sistemato la faccenda. Lei era distesa nel letto, pareva che dormisse. Era incantevole nella serena rilassatezza della morte. Non era stato difficile, e lei non aveva fatto resistenza.
Accesi il computer. Volevo scrivere, ora. Quale cosa, meglio della realtà, conduce alla scrittura? Ritrovavo l’incanto d’amore nel vedere le dita che scorrevano veloci sulla tastiera. Arianna mi prendeva per mano e srotolavo pagine come un gomitolo di filo onirico. Stavo trasformando la vita in sogno.
Battei sulla tastiera fin quando non cominciai a sentirmi le braccia intorpidite. Poi mi alzai e inserii un cd nel lettore. Ora, finalmente, mi sentivo in pace con me stesso. Avevo solo voglia di musica. FINE

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Un commento

  1. E’ scritto proprio bene. Complimenti all’autore!

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